Quella della malattia mentale è la narrazione dei corpi vissuti, per lungo tempo, ai margini della società. Privati della cittadinanza, etichettati come socialmente pericolosi, i corpi esclusi hanno viaggiato per decenni nella storia alla ricerca di un nome proprio. Nell’antichità e nel Medioevo la malattia mentale era considerata conseguenza diretta di un intervento divino o demoniaco, nel Seicento sono comparse in tutta Europa le prime case d’internamento, come l’Hopital Général di Parigi aperto nel 1656, nate per allontanare dalla società non soltanto persone con malattie mentali, ma anche indigenti, vagabondi, orfani, omosessuali: persone da emarginare, persone da correggere.
La psiche umana è diventata oggetto d’indagine a partire dal XIX secolo, data di nascita della psichiatria come scienza autonoma. La nascita della psicoanalisi, poi, ha agevolato il passaggio dallo studio delle cause organiche all’attenzione verso la persona e il sintomo. La follia è rimasta in ogni caso un fenomeno da reprimere con metodi che soltanto in futuro saranno definiti inumani, una lingua altra da soffocare per non compiere lo sforzo di apprenderla. «L’impressione che ancora conservo e che ancora mi stupisce è che quello che avevo imparato sulla psichiatria, in anni che avevo studiato all’università, era come se non mi servisse a niente rispetto alla realtà con la quale per la prima volta mi confrontavo», queste le parole dello psichiatra Tommaso Losavio sull’esperienza in manicomio.
Corpi esclusi: la regolamentazione dei manicomi con la legge del 1904
Nonostante l’esistenza di case d’internamento in tutta Europa, la regolamentazione dei manicomi in Italia è arrivata nel 1904, quando Giovanni Giolitti era ministro dell’Interno, con l’approvazione della legge n. 36: “disposizioni sui manicomi e sugli alienati”. Una legge altamente problematica a partire da quell’aggettivo utilizzato come sostantivo, una legge che legava inesorabilmente la malattia mentale al concetto di pericolosità sociale. «Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo o non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi», queste le disposizioni dell’art. 1.
Il paziente poteva essere ricoverato negli OPP per un periodo di osservazione di 15 giorni ed essere trattenuto per un massimo di 30 su parere medico o dell’autorità giudiziaria, oppure previa domanda da parte dei parenti. Al direttore era demandato il compito di emettere un parere sul suo stato di salute mentale dichiarandone eventualmente l’avvenuta guarigione, ma le dimissioni erano estremamente rare poiché non esistevano strutture adatte a seguire i pazienti una volta dimessi.
Fotografia di Martina Lambazzi
Nel 1930, in epoca fascista, è entrata in vigore una legge che prevedeva l’iscrizione nel casellario giudiziale della persona ricoverata, intrecciando a doppio filo la malattia mentale alla cosiddetta delinquenza. Fino alla fine degli anni Sessanta, quindi, le persone internate nei manicomi perdevano i propri diritti civili e politici e i metodi utilizzati per curarli erano, tra gli altri, l’elettroshock e il coma insulinico. Con la Legge Mariotti, entrata in vigore nel 1968, i primi passi avanti verso la cura dei corpi esclusi: oltre ad essere cancellato l’obbligo di iscrizione al casellario giudiziale, si iniziava a distinguere tra il regime dei ricoveri volontari e quello dei ricoveri non volontari, si riduceva il numero dei posti per evitare al sovraffollamento e veniva stabilita la nascita dei Centri di salute mentale per garantire l’assistenza al di là delle strutture manicomiali.
La liberazione dei corpi esclusi: l’approvazione della legge 180
Il Sessantotto è stato l’anno delle rivoluzioni. Oltre alla rivolta studentesca che dalla Francia raggiungeva l’Italia, anche nell’ambito della salute mentale si fa strada una nuova visione. Franco Basaglia, direttore nel carcere di Gorizia dal 1961, si trasferisce nell’ospedale di Trieste con l’obiettivo di realizzare anche lì un modello di riforma basato sulla comunità aperta in Scozia da Maxwell Jones: un percorso di cura volto alla responsabilizzazione della persona e alla creazione di un ponte tra il “fuori” e il “dentro”.
Ne I giardini di Abele, il primo documentario girato all’interno di un manicomio, Sergio Zavoli interroga Basaglia: «Le interessa di più la malattia o il malato?» La sua risposta, il cambio di paradigma: «Oh, senza dubbio il malato». Il malato – la persona – smette di essere un ingranaggio da sistemare, un alienato per il quale disegnare confini netti e asfissianti stando ben attenti a scongiurare il rischio di essere contaminati dall’incomprensibile alterità. I corpi esclusi camminano, ora, nelle strade. Manifesto di questa rivoluzione è Marco Cavallo, una scultura realizzata nel manicomio di Trieste, alta 4 metri di legno e cartapesta, fatta sfilare per le strade come simbolo dell’uscita dall’isolamento.
Nel 1978, in un paese che era stato testimone dell’omicidio di Aldo Moro e che avvertiva la spinta al referendum indetto dai Radicali per l’abrogazione della legge n. 36/1904, è stata approvata la legge 180 “sugli accertamenti sanitari volontari e obbligatori”. Una legge quadro che si proponeva di regolamentare il trattamento sanitario obbligatorio istituendo servizi di igiene mentale pubblici, restituiva il diritto di cittadinanza alle persone fino a quel momento internate – ai corpi esclusi – e rendeva l’Italia il primo paese al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici.
Proprio il trattamento sanitario obbligatorio è stato motivo di dissidio in fase di discussione della legge, Franco Basaglia esprimeva così i suoi dubbi: «facciamo l’esempio di chi ha un tumore, o una febbrona o il verme solitario. Se va a finire all’ospedale, c’è la ricerca della causa del suo male, e in certi casi il ricovero s’impone (malattie molto contagiose). Ma se ricoveri – cioè togli la libertà – a una persona perché ha pensieri bizzarri o disturbi psichici, perché lo fai? A che cosa si riferisce quel ricovero? Che cosa può voler dire “grave alterazione psichica”?… Negli ospedali ci sarà sempre il pericolo dei reparti speciali, del perpetuarsi di una visione segregante ed emarginante».
A dicembre di quello stesso anno, con la legge 833 nella quale viene recepita la 180, è stato istituito il Servizio Sanitario Nazionale. Nel 1994 è stato approvato il “Progetto Obiettivo” e, soltanto negli anni 2000, sono stati eliminati gli ultimi residui manicomiali. Alla fine degli anni Settanta, però, le parole di Franco Basaglia iniziavano a farsi concrete: «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere».
La situazione attuale
Dopo l’approvazione della 180 sono stati creati servizi territoriali destinati alla cura di persone con disturbi psichici. Il Dipartimento di Salute Mentale (DSM) è la cabina di regia che coordina diversi moduli organizzativi, consiste infatti in una rete di servizi deputati all’assistenza e alla cura dotandosi di strutture territoriali.
Fotografia di Martina Lambazzi
I Centri di Salute Mentale (CSM) garantiscono l’apertura per almeno 12 ore e «coordinano nell’ambito territoriale tutti gli interventi di prevenzione, cura, riabilitazione dei cittadini che presentano patologie psichiatriche», con l’impiego di psichiatri, psicologi, assistenti sociali e infermieri professionali.
I centri diurni, aperti 8 ore al giorno per 6 giorni, sono strutture semi-residenziali dotate di una équipe che si occupa di strutturare progetti terapeutici-riabilitativi personalizzati al fine di «sperimentare e apprendere abilità nella cura di sé, nelle attività della vita quotidiana e nelle relazioni interpersonali individuali e di gruppo, anche ai fini dell’inserimento lavorativo». Le strutture residenziali, aperte 24 ore su 24, sono servizi extraospedalieri che possono ospitare non più di 20 persone e prevedono, anche in questo caso, lo svolgimento di un percorso di cura personalizzato in un’ottica di scambio tra la struttura e la società.
Il Dsm, inoltre, dispone del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC), un reparto che si trova all’interno di strutture ospedaliere e si riserva di attuare interventi e trattamenti di natura obbligatoria (TSO) o volontaria per chi necessita di un supporto terapeutico o farmacologico a seguito di una crisi. Gli SPDC forniscono attività di consulenza ad altri servizi ospedalieri e sono dotati di 16 posti letto.
Leggi anche: