uso politico del corpo femminile

Uso politico del corpo femminile. Il duplice stigma del sesso e della maternità

L’uso politico del corpo femminile percorre passo dopo passo un sentiero aperto a mani nude dentro la durezza del pregiudizio, sospeso su precipizi da evitare per scongiurare il rischio di ricadere nell’oblio. La storia politica dei corpi femminili coincide con la violazione inevitabile della loro sfera personale, è l’intimità violentata ed esposta per essere raccontata, per permetterle di essere riconosciuta e quindi legittimata ad esistere alla stessa stregua di un corpo maschile, pena la sua incessante marginalizzazione.

Nel processo secolare e infaticabile dell’uso politico del corpo, il fronte delle donne – o almeno di quelle consce dei sistemi di potere e di oppressione che gravano sui loro corpi – insiste nel tentativo di smarcarsi da una duplice stigmatizzazione: la politicizzazione della sessualità e il ruolo riproduttivo della biologia femminile. Un cammino che potrebbe essere letto in chiave fatalista, come il compimento di una sorte già decisa ed eroicamente contrastata, ma no, è il risultato dello sguardo maschiocentrico plurimillenario intorno al quale abbiamo costruito le gerarchie di potere della nostra società e le palafitte di discernimento perpetuate dal sistema di controllo patriarcale.

L’uso politico del corpo femminile contro il controllo sociale sulla funzione riproduttiva della donna

Il corpo femminile è storicamente normato: gestito da un lato e tutelato dall’altro, necessita di leggi che ne garantiscano il diritto ad esistere e la libertà di autodefinirsi, da sempre minacciata dall’oggettificazione della pubblica piazza, dalla decisione collettiva.

Il corpo femminile progressivamente cessa di essere utilizzato come tappeto per coprire le grandi fragilità e contraddizioni del sistema patriarcale, si è fatto teatro di scenari culturali, politici e sociali che dovevano, per forza, essere portati all’attenzione dell’opinione pubblica: prostituzione, aborto, sessualità, contraccezione, stereotipizzazione dei canoni di bellezza, sex work, corpi non conformi, disabilità.

uso politico del corpo femminile Fotografia di Francesco Formica

L’uso politico dei corpi, considerati docili e servili, coincide con il loro moto di ribellione ai meccanismi di disciplinamento e di addomesticamento patriarcale, fino a raggiungere quella che oggi si palesa agli occhi del sistema come una nuova crisi delle certezze.  In merito al diritto all’aborto, ad esempio, si è spostata la ratio del dibattito: dalla capacità alla volontà riproduttiva, a cui la donna non è obbligata né tenuta in alcun modo.

In Calibano e la strega, Silvia Federici scrive che «la caccia alle streghe ha avuto lo scopo di distruggere il controllo che le donne in passato hanno esercitato sulla loro funzione riproduttiva e ha spianato la via allo sviluppo di un regime patriarcale ancora più oppressivo», individuando una delle radici più profonde del concetto di ereticità nella possibilità di scegliere, da parte della donna, se riprodursi o meno.

All’interno dei movimenti eretici medioevali, le donne assumono una posizione sociale nettamente in contrasto rispetto al ruolo marginale che la società riconosceva loro, «come dice Gioacchino Volpe, se nella chiesa le donne non erano niente, qui venivano considerate come eguali […] le donne cercavano di controllare la loro funzione riproduttiva, perché i riferimenti all’aborto e all’uso di contraccettivi da parte delle donne sono numerosi nei penitenziali».

Il sistema di sorveglianza e controllo sul ruolo riproduttivo del corpo femminile e dunque della curva delle nascite diventa più capillare soprattutto in seguito alle grandi crisi demografiche, come quella causata dalla peste nera del 1300, così come oggi gli obiettori di coscienza contano sul supporto di coloro che vedono nel calo della natalità un allarme sociale.  

Ed è attraverso persecuzioni, processi, proselitismi e «criminalizzazione della contraccezione» che questo sistema di controllo patriarcale è stato irregimentato: usciti dal Medioevo, infatti, nella prima Modernità industrializzata, agli albori della capitalizzazione, il corpo femminile viene definitivamente fagocitato dall’organizzazione produttiva e dalle logiche utilitaristiche. Il corpo femminile diventa allo stesso tempo un prodotto e un mezzo di produzione, come le abilità dei lavoratori nelle fabbriche, «negando alle donne il controllo sul proprio corpo, lo stato le ha private della condizione più fondamentale per la loro integrità fisica e psicologica e ha degradato la maternità allo stato di lavoro forzato».

L’emancipazione dalla convinzione – più o meno sottaciuta – che predisporre di un corpo femminile implichi l’obbligo di diventare madre non ha ancora raggiunto la sua compiutezza, la retorica oscurantista che gravita intorno all’interruzione della gravidanza farmacologica con RU486 ne è una testimonianza. Le campagne antiabortiste di ProVita e Famiglia, supportate da Lega e Fratelli d’Italia, continuano a paragonare l’aborto per via farmacologica a un “veleno” e hanno agevolato la mancata ricezione – da parte di Umbria, Abruzzo, Piemonte, Marche e Veneto – delle nuove linee di indirizzo del ministro della Salute, Roberto Speranza, le quali annullano l’obbligo di ricovero in ospedale ed estendono fino a nove settimane di età gestazionale la somministrazione del farmaco e ne prevedono la somministrazione in consultorio o in ambulatorio.

Politicizzazione forzata del sesso: canali di ammissibilità e non ammissibilità

La politicizzazione del sesso e della sessualità femminile fa inevitabilmente il paio con l’oggettificazione del corpo della donna, sottoposta alle proiezioni sessuali del male gaze che la inseriscono nella dicotomia ancestrale “santa vergine-puttana”. Cominciare a fare divulgazione in merito alla sessualità femminile, non in chiave meramente riproduttiva, ma lasciando spazio ai concetti di piacere, consenso, asessualità, bisessualità si è rivelato, dunque, necessario affinché anche le ultime fila dell’opinione pubblica iniziassero a prendere confidenza con un’idea di diritto alla sessualità più piena e libera da costrizioni culturali.

L’uso politico del corpo femminile è stato un elemento centrale non solo per contestare la politicizzazione del sesso femminile imposta dalla collettività, ma anche per iniziare a parlare con maggiore consapevolezza e meno paura di violenza di genere, anche questa figlia dell’impostazione culturale che riduce il corpo della donna a un bene di cui disporre secondo le necessità maschili.

uso politico del corpo femminile Fotografia di Francesco Formica

Se si pensa, come ricorda sempre Silvia Federici, che «a Venezia, nel XIV secolo, lo stupro di una donna nubile e proletaria raramente veniva punito con qualcosa di più di un rimprovero, anche nei casi frequenti in cui si trattava di un’aggressione di gruppo», è possibile comprendere come oggi, a distanza di sette secoli, ci ritroviamo di fronte ad esternazioni come quella di Beppe Grillo a proposito della vicenda giudiziaria in cui è coinvolto il figlio.

Progenie della stessa sacca triviale, la rimozione – avvenuta solo qualche mese fa – dei termini “cagna” e “zoccola” come sinonimi di “donna” dal dizionario della Treccani. Vocaboli che tradiscono da un lato la strategia di politicizzazione (subita dalle donne) della sessualità femminile e dall’altro la repressione in canali di ammissibilità e non ammissibilità che condannano un’attitudine più consapevole e non oppressa della sessualità femminile. Anche attraverso le direttive ecclesiastiche: «già nel XII la chiesa non solo sbirciava nella camera da letto del suo gregge, ma faceva della sessualità una questione di stato».

L’uso politico del corpo femminile scandisce i tempi del suo riscatto, la sua emancipazione dallo stato di sottomissione che vede la donna fare carriera come moglie e come madre. La riscatta dalla duplice e circolare funzione lavorativa che la società capitalista e patriarcale le ha inscritto sulla pelle, guardandola dall’alto e riducendola a lavoratrice sia nel sesso che nella riproduzione.