università in carcere

Università in carcere. Vivere le persone che abitano gli istituti di pena

“Se non questo carcere, allora quale?” è la domanda che ha aperto il nostro racconto della realtà penitenziaria in Italia. Un filo ha stretto intorno a un unico centro tutte le storie e le interviste: il riconoscimento della persona, il diritto all’esercizio della sua essenza, al di là del reato commesso. Il riconoscimento di una storia passa attraverso la conoscenza e l’abbandono del pregiudizio.

Con Luisa Di Bagno, dal 2011 tutor universitaria del progetto Teledidattica università in carcere promosso dall’università di Roma Tor Vergata, abbiamo parlato non solo di riconoscimento, ma anche della ricchezza che ne fa seguito in chi ha il coraggio di far luce oltre i limiti del proprio lanternino e conoscere, senza difese, l’umanità. Da tutor affianca gli studenti detenuti nella Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso nel percorso accademico, nello studio e nella preparazione degli esami. Un progetto al quale si è avvicinata tramite Fabio Pierangeli, docente in Letteratura italiana e Letteratura di viaggio contemporanea, e con il quale ha concluso una tesi in letteratura e teatro in carcere.

Vivere le persone che abitano il carcere: l’università in carcere

«Il primo giorno che sono entrata in carcere avevo un po’ di tensione, perché non sapevo quello che mi aspettava, soprattutto perché quello che si dice del carcere dall’esterno è molto lontano da quello che è il carcere visto da dentro. Da esterni, se vogliamo, si entra di fatto con una non conoscenza del posto. Ricordo bene che, appena entrata, si sono chiuse le porte dietro di me e quella sensazione di tensione che provavo si è trasformata, finché non ho conosciuto quelli che sarebbero diventati i miei studenti, che inizialmente erano soltanto quelli del reparto di Alta Sicurezza, è insieme a loro che ho cominciato questo viaggio che dura ormai da dieci anni.

È un’esperienza che mi ha formato tantissimo sia a livello umano che nell’approccio all’insegnamento con i miei studenti esterni: quando entri in carcere devi completamente disarmarti, abbandonare tutti i pregiudizi. Noi non conosciamo nemmeno i trascorsi delle persone che ci troviamo di fronte ed è un bene, perché dobbiamo abbandonare le difese, gli stereotipi e i pregiudizi, che, tra l’altro, man mano vengono aboliti proprio dalla conoscenza delle persone che incontri, da cui scaturiscono dei legami forti. 

È accaduto spesso che a partire da una tematica specifica, come abbiamo fatto tante volte nel laboratorio di scrittura, oppure, ad esempio, approfondendo lo studio di un poeta, nascano dei confronti che inevitabilmente portano ad aprirsi all’altro e questo permette che si creino delle relazioni che rimangono e che porti anche fuori. Una volta usciti le relazioni proseguono, così come nei casi di trasferimento, perché hai affrontato un bel pezzo di vita insieme.

Entro sempre con un sorriso perché quello è un luogo veramente buio per chi ci abita e questo porta a maturare anche un’attenzione diversa nelle relazioni: a scuola infatti mi ritrovo la consapevolezza che questo atteggiamento porta all’apertura e non alla chiusura, di conseguenza lo applico pure con i miei studenti fuori dal carcere. Non a caso, uno dei ricordi più belli che conservo sono gli incontri che abbiamo organizzato con gli studenti esterni nei vari laboratori, dove veramente abbiamo avuto la possibilità di far comprendere a chi stava fuori che anche dall’interno di un carcere alcune delle persone detenute intraprendono lo stesso percorso di studi. Ed è stato bellissimo vedere come gli studenti esterni cambiassero atteggiamento nei confronti del carcere e mettessero da parte gli stereotipi, che vengono completamente rovesciati quando si entra in contatto con la persona.

Può anche accadere che si formino dei legami con le famiglie dei nostri studenti detenuti e lì ti rendi conto di non essere solamente tutor universitaria, ma un contatto con l’esterno e questo per loro è molto importante. Si ha l’occasione di vedere la soddisfazione e la gioia nelle loro famiglie rispetto a un percorso che in qualche modo va a trasformare delle loro tendenze.

Per esempio, semplicemente avere l’opportunità di cambiare gli argomenti di confronto tra loro ed entrare nelle nostre sale universitarie e sentir parlare di Dante, piuttosto che di Verga o Pavese è significativo, perché sono spunti che lavorano dentro la persona e diventa poi visibile il percorso di trasformazione e presa di consapevolezza. Cambia, nel tempo, anche il modo di studiare, di esporsi, alcuni iniziano anche a scrivere e scrivono delle cose meravigliose. Di fronte a questo, certe volte, proviamo anche un po’ di rammarico forse, perché li vediamo impegnarsi molto, ma la chiusura del mondo esterno rimane sempre radicata: il rischio è che tutto questo studio rimanga fine a se stesso e questo non va bene.

È innegabile che la cultura conduca a una riflessione più profonda, su di sé e gli altri, sulla società. Posso farti un esempio pratico: lavorare su un testo che presenta tematiche come congiure, tradimenti, omicidi, può portare a riflettere su dinamiche che loro sentono più vicine e sviluppare una concezione diversa proprio rispetto ai lati oscuri che magari hanno o hanno avuto e che piano piano sono in via di trasformazione. Io stessa sono cambiata molto, soprattutto a partire da questo dialogo, da questi confronti. In alcuni momenti si fa anche fatica a restare fuori dalle loro sofferenze, perché in qualche modo te ne fai carico e, in una certa misura, diventano anche nostre. Così come le gioie e le soddisfazioni.

Uno dei momenti che più mi ha segnato e sul quale ho sentito anche la necessità di scrivere una poesia è stato uno spettacolo teatrale al quale ho assistito. Gli attori erano persone detenute che partecipano ai laboratori teatrali e a un certo punto tutti insieme hanno urlato “libertà, libertà, libertà”. Ecco, questa libertà me la sono portata fuori, così tanto che mi sono fermata e ci ho scritto sopra una poesia. Sentir urlare questa parola dentro un teatro del carcere, dove è quasi un’utopia, certamente non è come sentirla pronunciare fuori per strada. Quello che mi porto dietro da questa esperienza, soprattutto da insegnante, è essere più sensibile nei confronti dei giovani: cerco di far capire che da giovane devi costruire, non distruggere».