Tre metri quadri

«Non è possibile fare politica senza entrare in carcere», Alessandro Capriccioli

Tre metri quadri racconta le cose piccole, vere, reali, che scandiscono la quotidianità delle persone detenute. L’essenza minuziosa del carcere. La sua intrusività. Quella capacità di rimanere incastrato sotto la pelle anche quando hai la libertà di entrarne e uscirne da visitatore. Quella di Alessandro Capriccioli, consigliere regionale per il Lazio, è la voce narrante degli incontri con l’umanità che abita i luoghi di detenzione. È una raccolta che stringe in sé quattro anni di visite all’interno degli istituti di pena e dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), situati in tutto il Lazio. Da Regina Coeli a Rebibbia, da Viterbo a Civitavecchia, da Latina all’istituto minorile di Casal del Marmo e molti altri.

Edito da People, Tre metri quadri fotografa le contraddizioni, le sporcature, la lentezza, il diniego antropologico, la stanchezza, il trascinarsi, tipici della realtà penitenziaria in Italia. Una bolla che di fatto rende spossata anche la nitidezza, opaco il cristallino. Attraverso casi specifici ci racconta la difficoltà della comunicazione con le persone recluse, la dispersione della loro voce in mezzo a quei corridoi che sembrano ingoiarne i suoni, rendendo afone le parole, nella gran parte dei casi certamente inascoltate. L’ostilità e la reticenza dell’amministrazione penitenziaria, che non sempre ma spesso emergono, nel considerare detenuti e detenute identità e non reati ambulanti.

Capitoli brevi e diretti, schietti e crudi come il carcere, cadenzano le visite nelle strutture di pena. Non c’è pietismo o commiserazione, non c’è faziosità né retorica. Capriccioli non racconta vittime e carnefici, non spacca la realtà carceraria in due metà: i buoni e i cattivi, le guardie e i criminali. Ben conscio che comprendere la verità del carcere significhi prima di tutto sospendere non soltanto il pregiudizio, ma avere il coraggio di rimettere in discussione e ridefinire le facili conclusioni, di interpretare la microfisica di un potere che, se letta da prospettive esterne, potrebbe tradursi in un vuoto a perdere, ma che invece se vista dall’interno si presenta come un contenitore di identità che richiedono di esistere.

Tre metri quadri è una lettura necessaria. Viene presentata la dimensione carceraria per quella che è, quasi come fosse una ricerca etnografica che confluisce in un epilogo di interrogativi aperti, ai quali come comunità politica e sociale dovremmo rispondere. Perché come ha concluso, durante la presentazione del libro dello scorso 22 aprile, Capriccioli stesso: «non è possibile fare politica senza entrare in carcere».

Riempiere del suo peso specifico la parola politica significa conferirle di nuovo il senso dell’agorà, quell’attitudine al confronto nello spazio pubblico in cui ciascuno ha diritto di prendere parola per dirsi individuo e cittadino, per la costruzione e la garanzia di quelle che Arendt ha chiamato natalità e pluralità.

È indispensabile restituire narrativamente la verità del carcere, perché nei fatti è impossibile da riscontrare: pur essendo parte integrante della società, il carcere è prigione perché chiude i suoi cancelli non solo per bloccare i corpi trattenuti, ma anche per impedire alla società esterna di entrare. E, nei pochi casi in cui l’ingresso è consentito, la sensazione per chi entra – prendendo in prestito le parole di Capriccioli – rimane sempre la stessa: «stiamo rompendo i coglioni».

Tre metri quadri è un testo in cui si riconosce la volontà di raccontare le singolarità: persone detenute, con carichi e bagagli esistenziali propri, e specifiche realtà detentive, diverse tra loro perché fatte di chi le abita e le agisce giorno dopo giorno. Le persone detenute non costituiscono una categoria uniforme, un agglomerato umano omologato dalla comune tendenza al crimine, ma identità distinte e distinguibili.

«Non è possibile fare politica senza entrare in carcere» significa prendere coscienza del fatto che anche il carcere è uno spazio pubblico, sociale, e che il reato non è qualcosa che contraddice l’essere umano, ma uno dei tanti modi in cui questo si esprime, a partire proprio dal nostro stare insieme al mondo. «Non è possibile fare politica senza entrare in carcere» vuol dire ripensare il linguaggio, il lessico, le parole, perché le parole costruiscono le cose, le riempiono. Non si limitano ad essere valore simbolico, ma orizzonte quotidiano.

Nell’era dei diritti civili, dell’inclusività e del riconoscimento delle marginalità, ostinarsi a non prendere seriamente in considerazione anche l’enorme questione del carcere dà la misura della profonda ipocrisia su cui abbiamo poggiato il fine ultimo del reinserimento sociale, rispetto al quale ci si riempie ancora la bocca di parole esibite, mentre già ieri era tardi per iniziare a dire parole che realmente costruiscono.

«Non è possibile fare politica senza entrare in carcere» vuol dire smettere di parlare di rieducazione, concetto presuntuoso che implica il disconoscimento, il giudizio, la distanza, la messa all’indice. La rieducazione anela qualcosa di impossibile e di intrinsecamente ingiusto: la cancellazione di un vissuto e, di conseguenza, l’espiazione della colpa attraverso la pena, il dolore, la privazione, la sottrazione, la svalutazione, la sofferenza, la punizione.

A questo proposito nell’epilogo, Capriccioli apre una riflessione di senso, strutturale, spartiacque, in riferimento all’articolo 27 della Costituzione: «è la stessa Costituzione, la stessa carta fondamentale del nostro Paese, a dichiarare che i trattamenti da riservare ai condannati, quelli che non devono essere contrari al senso di umanità, sono delle “pene”: cioè dei dolori, delle sofferenze, delle afflizioni. Noi, dunque, abbiamo istituzionalizzato uno strumento che ha come scopo quello di infliggere dolore, afflizione e sofferenza alle persone, e per ragioni incomprensibili preten­diamo che quel dolore, quell’afflizione, quella sofferenza ci consentano di “rieducarle”».

Qual è il risultato della “rieducazione” che passa per il dolore, per la deresponsabilizzazione perpetrata da un carcere che abolisce l’autonomia decisionale e svilisce l’iniziativa personale, per un linguaggio che si nutre di infantilizzazione ed estraniazione dalla realtà esterna? Sì, effettivamente anche questa è rieducazione, se meramente la significhiamo come “abituare a”. Il problema è che questo carcere insegna abitudini che dovranno essere disimparate di nuovo, una volta usciti dal carcere. A chi serve tutto questo?

Rieducazione è una parola che va ripensata e sostituita, perché la sua radice, ormai evidentemente obsoleta, è offensiva e stigmatizzante. Fa sua la convinzione che bene e male vivano in una perfetta e insanabile dicotomia. Rieducare attraverso il dolore non vuol dire restituire alla società persone nuove, pronte a vivere nel pieno della legalità, ma persone sulle quali la società e la politica hanno esercitato in maniera prolungata e continuativa un torto. Al reato non si risponde con il “carcere che rieduca”, ma accettandolo per capirne le ragioni e riconoscere senso alla persona. Il “male” non si rieduca con il dolore, lo si tocca, gli si dà voce. Si inserisce in un ventaglio di possibilità e alternative che consente la costruzione di un’identità, mai nuova o avulsa dal passato, ma cosciente, capace di un respiro più profondo, complesso, grave e leggero come il peso della libertà.