Irene Nonnis (tanatolady) è una tanatoesteta, si occupa della «preparazione della salma nel suo ultimo viaggio, quindi di lavarla, disinfettarla, di vestirla e della cura estetica, togliendo con il trucco i segni della morte».
Ci conferma che il suo è un lavoro che richiede una predisposizione alla cura e un’apertura forte all’ascolto del dolore altrui. I suoi stessi trascorsi di vita hanno fatto sì che la sua concezione della morte si arricchisse della cura per la persona che se ne sta andando. «Nella mia infanzia ho avuto molti lutti e le esperienze riguardo alla preparazione dei defunti sono state veramente brutte. Non voglio che gli altri vivano quello che ho vissuto io. Innanzitutto per rispetto nei confronti della salma e poi anche per i cari e per gli amici che salutano la persona che hanno perso. Hanno diritto ad una corretta elaborazione del lutto».
Quindi ti avvicini a questo lavoro anche attraverso esperienze personali?
Assolutamente si, ho perso tutta la famiglia di mia madre, compresa lei. Sono stata molto a contatto con la morte e ad un certo punto mi sono detta che non volevo che le persone vedessero quello che avevo visto io. La morte non è bella e con il mio lavoro cerco di renderla tale.
Alcuni associano la tanatoestetica ad una pratica spaventosa, perché non la conoscono, ad un trucco eccessivamente carico. In realtà, se non ci sono richieste particolari, io elimino soltanto i segni della morte. Non faccio maschere, né ceroni, niente di tutto questo. Ed è molto bello anche preparare la salma insieme ai famigliari, seguendo le loro richieste, fermo restando che quando faccio manovre più invasive chiedo alla famiglia di uscire, in modo che non vedano determinate pratiche.
C’è qualche storia che ti ha colpita maggiormente?
Solitamente a colpirmi di più sono le persone anziane, le vecchiette amiche di mia nonna ad esempio, che mi dicono in quale modo vogliono essere preparate. In particolare una cara amica di mia nonna, a cui ero molto affezionata anche io. Sapevo quale era il suo profumo, conoscevo il suo modo di truccarsi e l’ho preparata con un amore e una dedizione speciale. Voleva essere vestita tutta di rosso, compreso il rossetto e anche le unghie le ho laccate di rosso. È sempre bello quando succedono queste cose, perché in vita ci si trucca per prepararsi a eventi importanti, cerimonie, feste, ma non si pensa mai che lo stesso gesto possa essere importante per l’elaborazione del lutto. Non si prepara mai la propria morte perché si ha paura. In Italia la morte è un tabù enorme, cerco di parlarne per farla conoscere. Un’altra signora che mi è rimasta nel cuore me la ricordo piccina, piccolina. La figlia non sapeva cosa fare, le ho scelto io i vestiti, ce ne siamo prese cura insieme. Insieme a loro ce ne sono molte altre che porto con me, ad esempio una signora che ha voluto tutto in blu, dal vestito ai capelli. Le ho fatto anche la tinta ed è stata un’esperienza davvero molto bella. Per quanto riguarda le esperienze più forti, invece, i ragazzi più giovani che magari muoiono a causa di incidenti stradali e in questi casi è importante il mio lavoro soprattutto per i genitori, perché c’è una differenza sostanziale tra quello che possono vedere in un riconoscimento all’ospedale e ciò che vedono invece dopo che sono intervenuta io.
In quale modo provi a superare il tabù della morte?
Partendo dal presupposto che l’unica certezza della vita è la morte, nel mio piccolo con il mio lavoro cerco di diminuire la paura della morte, rendendo la salma all’interno del cofano funebre presentabile a chiunque, anche alle persone più spaventate. In modo che nessuno, dai bambini alle persone più adulte, abbia traumi.
In più, nel 2017 ho aperto un canale Youtube, Tanatolady, dove faccio divulgazione su queste tematiche e poi sono su Instagram, su TikTok. Con Lisa Martignetti ho aperto la prima accademia funebre, in cui teniamo corsi per i professionisti. Avevamo paura delle reazioni perché in Italia c’è molta ignoranza su queste tematiche, in realtà abbiamo riscontrato grande interesse, nonostante non se ne parli poco o in maniera scorretta. Basti pensare che viviamo in uno Stato in cui la legge sulle onoranze funebri è datata anni Novanta, quindi il mio ruolo di tanatoesteta non è riconosciuto al livello legislativo.
State quindi raccogliendo riscontri positivi?
Sì, io sono tendenzialmente disfattista, invece le persone stanno apprezzando il nostro modo di parlarne: delicato, leggero, che non scende nei minimi particolari. Bisogna parlarne e dare le informazioni corrette, solo questo è il modo per avere riscontri positivi, è l’unico modo per smuovere questo enorme tabù.
Di cosa si occupa l’Accademia?
Le fondatrici siamo io e Lisa Martignetti, le sedi sono in provincia di Brescia e Bergamo. Offriamo corsi professionalizzanti, perché in questo settore molti decidono di improvvisarsi e fanno danni gravi. Noi quindi cerchiamo di creare dei veri professionisti, in grado di affrontare tutte le circostanze, anche quelle più complicate. È un lavoro che porta a stare a contatto con la morte e con il dolore tutto il giorno e tutti i giorni, quindi senza un preparazione strutturata alle spalle difficilmente si riesce a portarlo avanti. L’Accademia è a numero chiuso, si accede con test di ingresso perché facciamo già una selezione iniziale.
Quante resistenze hai raccolto da parte delle altre persone rispetto alla tanatoestetica?
Moltissime, io ho conosciuto la tanatoestetica e la tanatoprassi a Lione, andando in vacanza da un’amica di mia madre. Qui in Italia ovviamente non esisteva nulla di tutto ciò, quindi soprattutto all’inizio ero una pazza che voleva truccare i morti. Le stesse imprese funebri sono state le prime a chiudermi la porta in faccia. Spesso mi è stato detto: “sei una ragazza giovane e carina, perché vuoi fare questo lavoro?”. Nessuno considerava il fatto che potessi invece essere un valore aggiunto al loro lavoro. La donna nel settore funebre – prettamente maschilista – fa molta fatica ad emergere. Amo collaborare con le donne, ho intenzione di creare una rete di professioniste, perché insieme siamo più potenti e l’Accademia ne è una dimostrazione. Oltre a questo, le classiche reazioni all’italiana: persone che fanno le corna, che si toccano o che dicono che porto sfortuna.
L’empatia è una componente indispensabile quando si attraversa il dolore altrui, qual è il tuo approccio?
Parto dal presupposto che per fare questo lavoro devi essere predisposta. Lo si deve fare con amore e in punta di piedi. L’empatia è fondamentale. I primi anni mi portavo il lavoro a casa: mi affezionavo alle salme che preparavo, rimanevo con loro se nessuno le andava a trovare. Bisogna però imparare ad avere il giusto distacco, anche perché le famiglie, una volta finita la preparazione della salma, hanno bisogno di parlare, di raccontare la storia della persona che è venuta a mancare. Non vogliono essere lasciate sole e il bello di questo lavoro è anche questo. Quello che faccio tutti i giorni è ascoltare, ascoltare il dolore delle altre persone, cercando di non farlo mio e di non portarlo a casa. Con gli anni sono riuscita a costruire una corazza, ma ci vuole tempo, sono più di otto anni che faccio questo lavoro, all’inizio non era così.
La morte ha anche una valenza simbolica, fondamentale nell’elaborazione del lutto. Come descriveresti tu la morte e il lutto? Qual è un sinonimo di morte per te?
Un sinonimo di morte per me è leggerezza. Avendo programmato tutto, quel giorno sarò leggera per andare dove dovrò. La morte è una certezza e io voglio arrivarci preparata. Ho già preparato il mio funerale, innanzitutto per me stessa perché sarò io la protagonista quel giorno e poi perché non voglio scaricare la responsabilità sulle persone che mi staranno vicino.
Per l’elaborazione del lutto di mia madre, ad esempio, ho fatto psicoterapia: avevo bisogno di aiuto per superarlo perché da sola non ci riuscivo. Anche per questo ripeto sempre che ogni reazione al lutto è giusta ed è giusto farsi aiutare da professionisti. Succede anche di accorgersi di non aver superato qualcosa dopo anni, eppure l’elaborazione del lutto è qualcosa di cui si tende a non parlare, si dice subito “ora lo supererai”, ma non è sempre così. Le persone devono essere accompagnate ed è quello che faccio anche con le famiglie con cui lavoro. Il dopo è traumatico, perché anche dopo il funerale devono essere prese delle decisioni riguardo al defunto. Molto spesso le persone sono sole e non sanno cosa si deve fare, avere una figura professionale che le accompagna è sicuramente utile.