Vita è costruzione di una storia, nodo di vicoli dai significati manifesti o nascosti dentro un pugno inconsapevole. Morte è anello di congiunzione della storia, ragione della sua narrazione. Non è distruzione, né antitesi, né sorella maligna che pretende tutto ciò che desidera.
Lisa Martignetti (laragazzadeicimiteri) racconta la Morte come Verità imprescindibile e tratta le morti nella realtà delle emozioni e dei sentimenti che scatenano. Lei è un’operatrice funebre, una necrofora, un cerimoniere, una fotografa ma soprattutto una funeral planner, «un lavoro in Italia poco conosciuto». Si occupa «della cura della salma, delle vestizioni e dell’organizzazione della cerimonia funebre. Credo sia fondamentale, essenziale, pianificare in vita il proprio ultimo saluto».
Avete mai pensato la Morte come Volontà e Pensiero? Come Voce e Comprensione? Come Essere e Vita? Lisa Martignetti sì: «lavoro sia con la vita che con la morte, vado sottobraccio con loro. Si incontrano sempre. Nel mio epitaffio verrà scritto “fece della morte la sua vita”».
«Il cimitero è un museo a cielo aperto, non è morte»
«C’è più vita all’interno dei cimiteri piuttosto che fuori perché è lì che regnano tutti i sentimenti: la tristezza, la rabbia, l’amore, la felicità, la gioia, la leggerezza. C’è vita. Ci sono gli animali, la natura: ho visto fiori rifiorire su tombe abbandonate. E se non è vita quella, non so quale possa essere. Ho scelto di adottare il nome “la ragazza dei cimiteri”, perché gli altri hanno iniziato a chiamarmi in questo modo da quando mi occupo di fotografia di arte funeraria. Anche su questo fronte è stata dura perché non veniva capita. Mi hanno dato della blasfema, profanatrice di tombe.
La mia passione nasce fin da bambina, la prima volta che sono entrata in un cimitero mi sono sentita subito a casa, mi sentivo al sicuro. C’era pace e silenzio. Ho sempre fatto delle lunghe passeggiate all’interno del cimitero ascoltando la musica con le mie cuffiette. Provate anche voi, vedrete che nel momento in cui varcherete quel cancello, entrerete in un regno speciale, è anche un ottimo modo per combattere la paura e rendersi conto che non c’è nulla di macabro. È arte. E poi, la musica ti accompagna, dandoti una visione della vita che varca ogni confine.
Ho iniziato a immortalare le sculture meravigliose, quelle che io chiamo “Le mie Creature’’, all’interno dei cimiteri e a dare loro vita e storia, fotografandole. Quando mio padre è morto ho affidato il mio dolore nella fotografia e nel 2019, ho avuto la fortuna di poter presentare una mostra fotografica all’interno del cimitero di Bergamo, esponendo 17 scatti fotografici delle opere presenti nel Monumentale. È stata una grande soddisfazione, sognavo di farla con mio padre ancora in vita, ma purtroppo non siamo riusciti a realizzarla prima».
«Nella pianificazione dei funerali c’è la scrittura del vissuto»
«Pianificare il proprio funerale è un atto d’amore verso se stessi, ma soprattutto verso chi ami. Significa rendere più semplice tutto ciò che avverrà dopo il decesso, perché decidere le proprie volontà vuol dire aiutare la propria famiglia in un momento doloroso e delicato. Io ho già pianificato il mio funerale, mia madre conosce le mie disposizioni e i miei desideri. Mi è capitato di recente ad esempio di aver pianificato il funerale di una madre con sua figlia. Al momento del decesso, la figlia non era presente a Bergamo, ma noi eravamo già preparati, quando è arrivata avevo fatto già tutto ciò che avevamo predisposto. Il mio lavoro consiste nel fornire un aiuto prima per quello che verrà dopo, le mie consulenze sono sempre delle bellissime chiacchierate, anche divertenti perché cerco di sdrammatizzare e soprattutto di esorcizzare ciò che temiamo di più: la morte.
La prima cosa che chiedo durante la consulenza è il nome, il cognome e la data di nascita, e sorridendo, spiego loro in maniera ironica, che sono dati essenziali per me, perché saranno quelli che poi andranno incisi sulla lapide. E così sciogliamo subito il ghiaccio. In realtà i dati personali servono perché mentre si pianifica un funerale si ripercorre tutta la vita, nella pianificazione c’è la scrittura del vissuto. Il giorno in cui ce ne andremo saremo i protagonisti della nostra vita, non della nostra morte».
Il banchetto funebre. La Morte può riunire
«Alle persone fa paura, incute timore la parola morte, ma già parlarne aiuta ad affrontarla. I funerali che organizzo sono delle cerimonie dove offro anche il servizio catering per il rinfresco dopo il funerale e durante la veglia funebre. Ritengo sia molto importante tornare alle origini, al banchetto funebre pensato per riunire le persone e la famiglia. Riti che sono andati perduti e a cui, addirittura, non diamo importanza. Organizzo anche cerimonie laiche: qualche settimana fa ho realizzato una cerimonia in cui i ragazzi hanno bevuto e brindato sorseggiando birra accanto alla bara del loro amico, è stato veramente bello ed emozionante. Lui desiderava una festa, ha scelto le sue canzoni e io ho fatto tutto ciò che aveva desiderato».
Tendiamo a ricacciare il pensiero della morte, a nominarla con sinonimi, a parlarne con tono sommesso o tragico, ad averne talmente paura da negarla, come se avesse un senso, poi. Ci scordiamo che la morte è parte della vita e per chi vive è fondamentale celebrare e percepire il funerale come un momento vitale, non soltanto come perdita e scomparsa. Eppure la morte, la malattia e il dolore, nel senso più ampio possibile, rimangono i tabù del nostro secolo, perché totalmente in contrasto con la devozione produttiva a cui siamo assoggettati.
«Ti prendono proprio per pazza. In Italia siamo indietro anni luce, nelle scuole di alcuni Paesi si fa addirittura educazione alla morte ed è secondo me una cosa fondamentale. Con il progetto Fragile maneggiare con cura, in cui collaboro con una pedagogista e con un musicista che suona il sax, tramite gli albi illustrati, affrontiamo le tematiche più complesse, come la paura, le emozioni, la perdita, il lutto, l’elaborazione del lutto. Io leggo l’albo illustrato accompagnata dal sax e la mia collega lo commenta. È importante arrivare sia ai genitori che ai bambini. In uno di questi albi illustrati, Sai chi sono io, la morte si racconta: è lei a presentarsi e a porre domande per spiegare il ciclo della vita».
«Ci è stato vietato fin da bambini di parlare di morte»
«Suggerisco sempre di parlare della morte davanti a un bel piatto o a un drink con parenti e amici, in modo leggero. I riscontri a volte sono pazzeschi: si riesce ad affrontare l’argomento con leggerezza. E questo non significa che parlare di morte sia una cosa leggera, ma che farlo può diventare il primo passo contro la paura.
Certo, per alcuni questo non è un atteggiamento condivisibile e mi danno della pazza, eppure anche loro – come dico sempre – prima o poi avranno bisogno di noi e arrivare consapevoli e preparati fa la differenza. Io sono cresciuta a pane e morte e, come me, anche mia figlia di nove anni, che già a quattro anni mentre eravamo in macchina, vedendo accanto a noi un carro funebre, mi disse che quella era la sua macchina preferita.
Lisa Martignetti. Fotografia di Lisa Martignetti
Ho avuto la fortuna di avere una nonna che all’età di tre anni mi ha portata all’interno di un cimitero ed è da lì che è nata la mia grande passione per i cimiteri. Lei mi ha sempre raccontato che fin dalla prima volta che sono entrata in un cimitero raccoglievo i vasi rovesciati ed è un gesto che mi sono portata dietro con gli anni. La prima volta che ho portato mia figlia al cimitero ha fatto la stessa cosa e senza averle detto nulla, mi sono emozionata molto. I nostri nonni avevano ben chiaro quello che volevano, con gli anni invece per quanto riguarda la morte è diventato tutto un tabù, un divieto. Ci è stato vietato fin da bambini di parlare di morte. A noi, operatori e operatrici funebri, spesso sono rivolti anche gesti scaramantici e solitamente ci rido sopra, ma in realtà invito sempre tutti a salutarci, io lo faccio. Ricordo con amore un signore che un giorno nel vederci passare si è tolto il cappello e poi se lo è rimesso, mi sono commossa. È stato un saluto di rispetto per il defunto».
«Mi hanno chiesto se fossi arrabbiata con la morte, ho risposto di no»
«Ho vissuto il Covid da Bergamo e in prima linea, perché mi avevano chiamata di supporto in un’impresa funebre e, rispondendo al telefono, ero il primo filo conduttore con la famiglia. Erano pianti di disperazione, ancora oggi incontro persone che mi dicono che si aspettano, da un momento all’altro, di veder entrare in casa la persona cara che hanno perso, nonostante abbiamo l’urna in affido. Questo purtroppo, perché non è stata possibile l’elaborazione del lutto, ma soltanto la mancanza totale del contatto e del rito. Ho organizzato delle cerimonie dopo la prima ondata di Covid perché alcune famiglie sentivano l’esigenza di salutare la persona che avevano perso, avevano bisogno di capire che non c’era più. Forse il Covid con la mancanza del rito funebre ne ha risvegliato l’importanza.
È stato un dolore indescrivibile, soprattutto quando mi chiamavano i miei amici per attivare il servizio per i loro genitori. Non potevo fare assolutamente niente, nemmeno dare loro conforto con un abbraccio, il mio compito era quello di prendermi cura di chi non avrebbero più potuto rivedere. In quel periodo mi hanno chiesto se fossi arrabbiata con la morte, ho risposto di no. La morte in quel momento stava lottando contro il virus, che stava accelerando i suoi tempi, portandoli via prima del dovuto. Mi sono messa nei suoi panni e scrissi anche un post, in cui cercavo di esprimere quello che stavo provando, la morte stava lottando insieme a chi stava morendo. Il virus stava portando via la vita alla morte. È una cosa molto forte da dire e sono stata anche criticata per questo, ma è quello che penso. Sono convinta che tutti noi, abbiamo un inizio e una fine già scritti, ma il Covid non lo ha permesso.
Un signore di circa ottant’anni mi ha contattata per il funerale della moglie. Mi ha detto che voleva i fiori più belli, aveva scelto le rose rosse e mi chiese di vestirla bene. Purtroppo in quel periodo non si poteva, e non riusciva ad accettarlo: mi ha supplicata, quindi mi sono fatta dare i vestiti e i ragazzi poi li hanno poggiati su di lei, che tra l’altro non era deceduta a causa del Covid. Quel giorno, quel signore mi disse che stava perdendo anche suo figlio. Mi ritrovavo di fronte un uomo che aveva appena perso sua moglie e mi supplicava di vestirla e che per di più mi annunciava la morte ormai segnata del figlio. Mi ricordo di essermi tolta i guanti e di aver cercato il contatto con la sua mano. Prima di andare si voltò verso di me, dicendomi: “oggi ho perso metà della mia vita e sto perdendo tutta la mia vita, ma ho trovato un angelo, lei”. Gli ho risposto che un giorno ci saremmo incontrati di nuovo, “sono sicura che ci abbracceremo”. Un mese fa, quindi un anno e mezzo dopo quel giorno, ero al cimitero. Ho l’abitudine di andare a salutare i “miei defunti”, tra cui la moglie di questo signore, e lì, vicino alla lapide, l’ho incontrato per la seconda volta. Era morto anche il figlio ed era stato cremato, mi sono fatta dare il nome per poterlo andare a salutare, era un nome che mi risuonava familiare e difatti è proprio accanto a mio padre, alla sua sinistra. Quell’uomo mi è rimasto veramente nel cuore».
«A me non viene affidato un corpo morto, ma una vita»
«Quando vado da quelle che chiamo le “mie famiglie”, entro in punta di piedi nel loro dolore, me ne faccio carico: a me non viene affidato un corpo morto, ma una vita. Mi prendo cura di una vita. Quando vesto il defunto o la defunta, il mio rito è la coccola: parlo con loro, canto e li cullo con delle melodie dolci. All’inizio i miei colleghi mi guardavano un po’ straniti, ma poi hanno capito che c’è dolcezza in ciò che faccio. È un lavoro che si fa con amore e con passione. Lavoro con la morte ma anche con la vita, perché non mi prendo cura soltanto di chi se ne sta andando ma soprattutto di chi rimane. Per poter entrare nel dolore degli altri, ho vissuto prima il mio sulla mia pelle. Nel momento in cui varco le porte di una casa, di un ospedale o di una camera mortuaria so già cosa andrò a respirare perché l’ho vissuto in prima persona e so che basta uno sguardo per essere accanto a loro.
Quando entri nel dolore altrui diventi parte della famiglia, gli operatori funebri spesso dicono che andrebbe mantenuto il distacco e in parte è vero, ma io sono così, pronta ad abbracciare e a tendere la mano, perché in quel momento così delicato noi siamo le persone che le famiglie si ricorderanno per sempre. Conosco persone che sono rimaste segnate dalla noncuranza e dalla mancanza di delicatezza degli operatori. La mia è una missione, credo che anche tra vent’anni sarò quella di adesso. Voglio essere d’aiuto gli altri, aiutare chi lascia questo mondo durante il passaggio, ma sopratutto chi rimane. Nella mia bio infatti c’è una frase che mi rappresenta molto: “e se fossimo già noi nell’aldilà e il regno dei morti fosse la vita?”. Amo profondamente il mio lavoro. Mi porta l’amore a fare questo lavoro, l’amore per le persone che stanno soffrendo, la possibilità di tendere loro la mano. Non sono ancora pronta nel dedicarmi alla vestizione dei bambini.
Appassionata di cimiteri fin da piccola, ho sempre evitato di passare nella parte dedicata ai bambini, soffrivo e soffro nel pensare che un genitore debba piangere il proprio figlio, è innaturale. Finché mio padre è morto ed è stato tumulato accanto a loro. Credo sia stato lui, nel mettermi alla prova, cercando di vincere questa paura. Spesso infatti, dopo essere passata da lui, vado a giocare a un, due tre stella con loro e le girandole. Le regole del nostro gioco sono differenti. Vince chi, dalla sua girandola, riesce a danzare, accarezzando la vita.
Mio padre
«Il primo funerale che ho pianificato, organizzato ed effettuato è stato quello di mio padre, anche lui era un operatore funebre. Parlavamo la stessa lingua. Avevamo pianificato tutto: la scelta dell’abito, della bara, della musica, il tipo di sepoltura e tutto il resto. Al momento del decesso, siamo riusciti a realizzare le sue volontà senza essere impreparati.
Adesso so che al mio fianco ho sempre il mio braccio destro, mio padre. Durante le prime vestizioni che ho fatto dopo la sua morte, ero sempre un po’ intimorita, quando invece ho ripreso dopo il Covid ho sentito che lui mi stava guidando, so di non essere da sola.
Tante volte ho pensato di mollare questo lavoro, essere una donna non in questo settore non è semplice, ho ricevuto tante porte in faccia, spesso mi chiedevo veramente chi me lo avesse fatto fare, ma ogni volta ricevevo e ricevo segni da mio padre, segni che capiamo solo io e lui. Cerco di aprire un po’ le porte dell’altra parte, tendendo la mano a chi la teme.
Ho raccontato molto la malattia di mio padre e mi hanno accusata di averla strumentalizzata, ma non è assolutamente così. È facile limitarsi a dire che la vita è bella, farsi vedere sorridenti, molto meno semplice è quando si piange, la vita è anche dolore, è malattia, la realtà è che si soffre. Il dolore va accolto e ascoltato e chi ci sta vicino deve saper fare lo stesso».