Durante la fase più dura della pandemia abbiamo sperimentato che dire addio a qualcuno, che si tratti di un rito laico o religioso, non è un momento di trascurabile importanza. Al contrario, è l’atto che racchiude in sé la possibilità di riconoscere il proprio dolore negli occhi dell’altro – di una comunità – e iniziare a conferirgli una forma. Abbiamo contattato Marta Romitelli (@marta_neuroscienze), psicologa laureata in Neuroscienze Cognitive, per parlare delle fasi di elaborazione del lutto e discutere del ruolo psicologico del funerale.
Abbiamo appreso che «nel percorso universitario, del lutto e del fine vita non se ne parla molto rispetto invece ad altri argomenti come l’ansia e la depressione. Pochi psicologi dopo l’università scelgono di continuare con master, tirocini e corsi di formazione in questi ambiti». Nonostante questo, durante il suo percorso di formazione Marta ha avuto modo di frequentare un tirocinio all’interno di una struttura che gratuitamente fornisce supporto alle persone che ricevono una diagnosi di tumore perché, come ci ha detto, «la morte è un’altra fase, una parte della vita».
Qual è il ruolo degli psicologi e delle psicologhe nell’elaborazione del lutto?
Ci occupiamo di dare supporto. Inizialmente si sperimenta una forte negazione, sia di fronte alla perdita di persone care sia nel caso di diagnosi oncologiche o anche di separazione tra coniugi. In genere le persone arrivano dallo psicologo con una certa urgenza: vogliono tornare a stare bene e maturano la convinzione che qualsiasi problema di natura psichica potrà essere risolto in maniera veloce. In realtà il nostro ruolo è proprio contenere questa urgenza permettendo loro di capire che il tempo è un elemento chiave, la stessa richiesta di primo colloquio va analizzata.
Successivamente inizia un lavoro sulla consapevolezza di quello che si sta vivendo, perché una diagnosi oncologica è un evento traumatico e nessuno realizza cosa sta accadendo senza un processo di consapevolezza. Poi si passa alla regolazione delle emozioni, con l’obiettivo di comprendere come integrare questa notizia nella vita quotidiana.
Se ci troviamo di fronte a un paziente terminale si cerca di lavorare sull’accettazione della propria condizione, ma sono casi rari perché la gran parte delle diagnosi oncologiche, grazie ai progressi della medicina, trovano cura. In quelle occasioni, comunque, sono più spesso i parenti a cercare un supporto. Si tenta di arrivare al momento della fine in maniera graduale mettendo a posto le questioni in sospeso. In qualsiasi caso bisogna agire. Cristallizzarsi può causare delle problematiche come il lutto complicato, ossia la manifestazione di sintomi tipici della depressione che si protraggono per oltre un anno nelle persone adulte e per oltre sei mesi nei bambini.
Spesso si afferma che le fasi di elaborazione del lutto sono le stesse per ogni persona che attraversa la perdita. Ecco, volevo capire se è così e, soprattutto, quali sono queste fasi.
Nella teoria originale di Elisabeth Kübler-Ross, una psichiatra che ha svolto le sue ricerche all’interno di un reparto oncologico, le fasi di elaborazione del lutto sono cinque: shock, negazione, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione. Lei si occupava di pazienti terminali e tutti, a suo dire, affrontavano le fasi del lutto in quest’ordine. A mio parere esistono delle differenze soggettive. Alcune persone alle volte regrediscono, arrivano alla rabbia per poi tornare alla negazione oppure giungono al patteggiamento e poi di nuovo alla rabbia. Non esiste un tempo prestabilito, ad alcuni la fase della negazione dura quattro mesi e nell’ultimo sperimentano tutte le altre, ad esempio.
Io mi approccio a un’altra teoria, quella dei compiti del lutto. Secondo Worden, lo psicologo che l’ha elaborata, quando una persona muore, riceve una diagnosi di tumore o attraversa una separazione bisogna portare a termine alcuni compiti come per esempio accettare la perdita, dire addio alla persona cara, riorganizzare la propria vita, accettare la propria immagine corporea dopo un’operazione chirurgica. Questa teoria suggerisce degli obiettivi minimi da raggiungere per poter superare il lutto. Il modello di Kübler-Ross è certamente utile agli psicologi e alla persona per orientarsi nella fasi di elaborazione, ma ha parecchi limiti.
Tra le fasi di elaborazione del lutto mi incuriosisce quella dell’accettazione. Che vuol dire, soprattutto in caso di patologie gravi, accettare qualcosa che è certo ma ancora non è avvenuto?
Si tratta più che altro di accettare le emozioni e l’evento come parte della propria vita e non come qualcosa di estraneo. A volte capita di guardarsi da spettatori. Ecco, l’accettazione è anche capire che siamo esseri umani, proviamo delle emozioni e al contempo accettare che la vita va avanti. Un altro rischio è affidarsi ai guru nella speranza di guarire. Molte persone non acconsentono alle cure mediche e fanno fatica ad allearsi con il personale sanitario, che alle volte si trasforma in un nemico. L’accettazione, in questo caso, è anche essere consapevoli dell’utilità delle cure mediche.
Stiamo affrontando il discorso sulla morte partendo dal presupposto che i riti collettivi aiutano, spesso, a comprenderne il senso. Ne abbiamo avuto prova in questi anni di pandemia: poter dire addio è un modo per riconoscere il proprio dolore e un piccolo passo in avanti verso la possibilità di far pace con l’assenza. Qual è il ruolo del funerale a livello psicologico?
Il rituale, che sia laico o religioso, è un momento fondamentale per riuscire ad accettare l’assenza della persona cara. Uno dei primissimi compiti di Worden, infatti, è l’accettazione che qualcosa sta cambiando, che qualcosa manca nella propria vita. È anche un momento di raccoglimento nel quale la famiglia avverte la vicinanza della comunità e la comunità è molto importante per la persona che vive il lutto. Il funerale assume un forte ruolo psicologico da un punto di vista religioso.
Noi psicologi sappiamo che la religione è un argomento centrale nella sfera personale dei singoli. Avere un funerale bello, che soddisfa le proprie aspettative religiose e il proprio credo, è un fattore che può migliorare l’elaborazione del lutto, che può supportare la famiglia in questa fase. È come se fosse una delle tante fasi dell’elaborazione.
Sulla tua pagina di divulgazione hai parlato di studi recenti riguardo gli effetti del funerale sulla salute mentale. Puoi dirci qualcosa di più?
Gli studi che ho consultato riguardavano i funerali mancati sotto il Covid. I ricercatori hanno cercato di comprendere come questo abbia influito sulla salute mentale sia dei bambini che degli adulti. Le persone durante la fase acuta della pandemia non solo venivano portate via da casa mentre stavano male e morivano lontano dai propri cari, ma finivano in una bara prima di essere viste dai familiari. Dai risultati delle ricerche, dopo l’osservazione delle reazioni al funerale postumo, è emerso che la spiritualità e la religione sono fattori di grande importanza.
Nella tua esperienza di supporto a persone con patologie oncologiche sei riuscita a trarre delle conclusioni rispetto alle modalità con cui si elabora la notizia di una diagnosi o quella di un lutto?
Il mio tirocinio è durato sei mesi, ma posso dire che a prescindere dall’età la reazione di fronte a una diagnosi è sempre molto forte. Non è vero, ad esempio, che i giovani la vivono peggio rispetto agli anziani, anzi, questi ultimi sono molto più propensi allo sviluppo della depressione e vanno incontro di frequente alla diagnosi di lutto complicato. I giovani rimangono intrappolati nella negazione, il pensiero ricorrente è: «non sta succedendo a me».
Durante il tirocinio ho imparato che le reazioni al lutto possono essere tantissime, alcune non te le aspetteresti mai. Basti pensare all’immagine delle persone vestite di nero e con la fascia al braccio; in realtà si può ridere, indossare abiti colorati o avere una vita sociale e soffrire tantissimo.
Cosa ti è rimasto di questa esperienza?
È un impatto dal punto di vista emotivo. Bisogna riuscire a separare ciò che si è detto all’interno della seduta da ciò che si è fuori, perché se ci lasciamo coinvolgere nel mondo della persona che è in lutto anche noi ne risentiamo. Ci vuole coraggio, fermezza e consapevolezza. Noi psicologi e psicologhe facciamo un lavoro di consapevolezza sulle emozioni altrui, quindi dobbiamo essere consapevoli innanzitutto delle nostre.
Un’altra cosa che ho imparato è la necessità di individuare una sorta di confine tra noi e il paziente, non solo emotivamente ma anche rispetto all’atteggiamento. Deve esserci rispetto reciproco e questa è una parte dell’elaborazione del lutto, perché in quei momenti la sensazione è che il mondo stia andando nel caos.
Un’ultima domanda. Qual è la tua idea della morte?
La morte è solamente un’altra fase, soprattutto per chi rimane. Quando qualcuno viene a mancare si può maturare moltissimo: l’ho visto su di me, sui miei cari e sulle persone che ho avuto modo di osservare durante l’esperienza di tirocinio. È un momento in cui si può riorganizzare la propria vita.
Nella mia famiglia c’è la cultura della morte: io, le mie sorelle e mia madre abbiamo scritto le nostre volontà per il funerale. Una volta uscita dall’università mi sono accorta che siamo in pochi ad averla e ho scelto di parlarne perché lo si fa poco, ma si tratta di una parte della vita.