«Un volto che patisce tanto vicino alla pietra, è già pietra esso stesso», Albert Camus
Nel Mito di Sisifo, Albert Camus ritrova la radice dell’esistenza, una volta disperata, una volta di disperata speranza. La presa di coscienza dell’assurdo come presenza indelebile nella vita di ognuno è il momento originario e inequivocabilmente rivoluzionario che scandisce il corso di un’esistenza. Lascerò un segno sulle realtà che tocco e incontro indipendentemente da quanto ne sarò cosciente, ma segnerò me stessa solo attraverso l’autocoscienza di cui sono capace.
Alcune storie, come la storia di Davide, però, sfocano la coscienza, alcuni vissuti la consapevolezza. Una riga disegnata su un foglio senza staccare mai la matita non rappresenterà, probabilmente mai, la coscienza di sé di chi vive oltre il margine più esterno dei propri limiti. Sisifo probabilmente è l’eroe della sofferenza cosciente, in un certo modo ricompresa come passaggio essenziale e strutturale della sua sorte, proprio per questo Camus scrive: «se questo mito è tragico è perché il suo eroe è cosciente».
E se «un volto che patisce tanto vicino alla pietra, è già pietra esso stesso», la sofferenza e la persona ormai convivono nella quotidianità. Davide, nome di fantasia, è il ragazzo che vogliamo raccontare cercando di mantenerne il più possibile l’anonimato e un preventivo diritto all’oblio. Ha un’età imprecisata anche per noi, è nato verosimilmente tra il 2000 e il 2003, ha percorso finora un tratto di strada disgraziato. A raccontarci di lui è Giacomo, un educatore che ha avuto modo di conoscerlo all’interno di un centro di aggregazione giovanile a Genova.
“Non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo”: la storia di Davide
La ricostruzione della storia di Davide non è affatto semplice e dunque lineare: come spesso accade con trascorsi di questo tipo si presentano «buchi nella trama» che non possono essere riempiti di niente, vengono lasciati così come sono e basta, perché probabilmente lo stesso diretto interessato non ne ha piena coscienza.
Fotografia di Francesco Formica
Di Davide, quindi, come prima cosa apprendiamo che nemmeno lui stesso può indicare con certezza il suo anno di nascita, sappiamo che viene dall’Europa dell’est e che sì, il suo volto “è già pietra”, perché da sempre alla pietra è stato costretto a rimanere vicino, troppo vicino. L’educatore che ci ha reso partecipi della sua storia sorride, quando gli leggiamo le parole di Camus, e ci dice che quello di Davide è sicuramente un volto che si è fatto pietra nei tratti, nelle espressioni e negli occhi ciechi che comunque riescono a vedere.
Figlio di una ragazza madre tossicodipendente, prima ancora che sia venuto al mondo conosce la dipendenza, dunque la libertà come utopia e la miseria come presupposto e condizione. Viene lasciato insieme ai suoi due fratelli in tenera età in un orfanotrofio, nel quale poi verranno separati per ritrovarsi di nuovo insieme qualche anno dopo per volontà della nonna materna, che li porta con sé in Italia.
Viene al mondo senza giorno e anno di nascita. Davide non sa quale sia il suo punto di partenza, l’origine, il giorno in cui ha cominciato ad esistere: la sua è stata fin da subito una rincorsa verso la sopravvivenza, che si prestava a diventare ancora più insostenibile negli anni dell’orfanotrofio.
È qui, in questi anni, che per ben due volte, Davide tenta il suicidio, tagliandosi le vene. La prima volta a sei anni, la seconda a undici. La concezione della morte, della fine, del lutto non è certamente matura a quell’età, eppure lui sceglieva la morte. Era sicuramente molto più grande dei suoi anni, ma a sei e undici anni il suicidio non dovrebbe essere un pensiero, tanto meno un’opzione.
Dentro l’orfanotrofio iniziano le violenze sessuali e mentali a cui viene sottoposto dagli inservienti della struttura ed è qui che i margini della sua identità, del suo corpo, vengono frantumati ed esposti a troppe invasioni per preservare un equilibrio mentale ed emotivo. Quando arriva in Italia, attraverso vicissitudini confuse e sicuramente difficilmente comprensibili e spiegabili da un bambino, ha ormai circa dodici anni. Non c’è mai stato qualcuno per lui, qualcuno che gli insegnasse a mangiare, a prendersi cura di se stesso, ad andare a scuola. Nessuno, mai. Arrivato in Italia quindi scappa, in fondo sua nonna chi è? Un’estranea, e dagli estranei Davide ha capito che non ci si deve aspettare nulla di buono.
Inizia a vivere per strada, da solo, in un quartiere malfamato che lo accoglie a braccia aperte. Vive e dorme all’interno di una struttura abbandonata, diventata con il tempo una piccola piazza di spaccio. Trova rifugio lì dentro. Non ha soldi e su consiglio delle persone che erano con lui inizia a prostituirsi. Aveva dodici anni e l’altro suggerimento che gli viene dato dalle stesse persone è di iniziare ad assumere oppioidi ed eroina per non sentire dolore durante i rapporti sessuali a cui era costretto. Parte da qui una tossicodipendenza pesante dalla quale sono rare le possibilità di riscattarsi anche perché per vivere in strada c’è bisogno di assumere sostanze che attivino e non che rendano vulnerabili, quindi arriva anche la cocaina e il crack.
Fotografia di Francesco Formica
Oltre a prostituirsi, comincia a spacciare. Cerca ripetutamente di farsi arrestare, cerca un tetto che lo faccia sentire paradossalmente più sicuro, un tetto qualsiasi andava bene purché non fosse quello che aveva avuto finora. Nell’entrare e uscire dalla casa della nonna, è capitato anche che si imbattesse in sua madre, ricomparsa all’improvviso dopo anni di vuoto totale. Quella casa però per lei e il compagno diventa di nuovo una crack house.
All’interno del centro di aggregazione giovanile era una delle presenze più positive, nonostante fosse tra le persone più giovani raccolte nel centro, metteva a disposizione la sua storia, il suo vissuto come “cattivo esempio” da non replicare. Raccontava la sua tossicodipendenza come una gabbia all’interno della quale nessuno avrebbe dovuto rinchiudere la propria vita. Raccontava anche piccole e grandi bugie, alibi che facessero sembrare quel baratro meno profondo di quanto in realtà fosse: voleva far sapere che ce la stava facendo, indipendentemente dal fatto che fosse vero o meno. Parlava di lavori immaginari e guadagni inventati.
Di Davide non sappiamo altro. Non abbiamo idea di quale sia stato il suo inizio (e nemmeno lui), non sappiamo nemmeno la fine, quale e dove sarà. Non frequenta più il centro di aggregazione giovanile, queste erano solo poche parole a ricordare che c’è, che esiste, che anche senza sapere da quale giorno è venuto, Davide, e come lui molti altri, ha bisogno che qualcuno lo accompagni nei giorni che potranno arrivare. Perché una vita può essere anche altro oltre che disgrazia.
«Vedo quell’uomo ridiscendere con passo pesante, ma uguale, verso il tormento, del quale non conoscerà la fine. Quest’ora, che è come un respiro, e che ricorre con la stessa sicurezza della sua sciagura, quest’ora è quella della coscienza. In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno. […] Sisifo, proletario degli dei, imponente e ribelle, conosce tutta l’estensione della sua miserevole condizione: è a questa che pensa durante la discesa. La perspicacia, che doveva costituire il suo tormento, consuma, nello stesso istante, la sua vittoria. Non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo».