«L’uomo sa di essere nudo ed è l’unico animale che si è vestito», Jacques Derrida
L’animale che dunque sono è il saggio derridiano, in cui il filosofo racconta la vergogna rispetto alla sua nudità. Una vergogna privata, domestica, vissuta tra le pareti della sua abitazione, eppure vergogna. Vergogna senza una vera e propria reciprocità con l’altro. È una riflessione, la sua, che muove i primi passi a partire dalla reciprocità squilibrata e intrusiva che il filosofo sperimenta attraverso lo sguardo della sua gatta. Lo sguardo fisso e inerme restituisce all’animale un potere quasi inquisitorio all’interno della relazione con il padrone, il quale, al contrario, si scopre vulnerabile e nudo sotto quell’osservazione inerme e pervasiva al tempo stesso.
Il concetto di nudità precorre quello di vergogna e di pudore, perché «la nudità implica lo sguardo dell’altro: lo sguardo dell’altro su di me e di me in relazione a tale sguardo». Lo sguardo nella relazione, per poter essere sostenuto, ha bisogno di filtri che ne ottundano gli spigoli e che ne temperino l’inquietudine. Ma l’occhio attento e non educato di una gatta non può avere filtri: guarda e basta, vede ciò che vuole senza possibilità di mediazione.
Nudità implica vulnerabilità, quella fragile verità che prende respiro e appare, a volte, dalle macerie delle maschere, delle convenzioni, delle aggiustature del nostro stare al mondo. Mostrarsi nella vulnerabilità, atto categorico di rivoluzionario coraggio, rientra tra le reazioni umane meno condivisibili al livello sociale. Dalla nudità alla vergogna il passo è breve e quasi inevitabile: si impara a sorridere da bambini e quasi subito a nascondere il dolore e il disagio.
La vergogna come sentimento sociale
La vergogna è tra i sentimenti sociali più invadenti e pervasivi, invalidanti nei termini dell’autenticità. Chiunque in un modo o nell’altro avverte la propria vulnerabilità – data da contingenze personali – e dunque l’esigenza di nascondersi, di coprirsi e coprire tutto ciò che sembra non essere pertinente al pudore pubblico, al pubblico decoro.
Fotografia di Francesco Formica
Si impara da piccoli a nascondere il dolore, il malessere, le malattie. La morte viene parafrasata, le fragilità messe sotto al tappetto. Il diritto al malessere è praticabile solo nella solitudine, nello spazio sociale il dolore viene espresso tramite canali socio-semantici predefiniti, fuori dai quali la nudità e la vulnerabilità adotterebbero un lessico socialmente non accettabile. Alle bambine e ai bambini viene insegnato a sorridere, viene impartita loro la lezione della felicità e della serenità come la giusta strada per stare al mondo nel giusto modo. Viene chiesto loro di sorridere e salutare anche quando non c’è ragione o volontà di farlo, di chiedere scusa delle azioni e dei gesti nati dalla mancanza di queste sovrastrutture.
C’è poi una differenza sostanziale tra il dolore altrui, più facile da legittimare e comprendere, e il proprio di dolore: destabilizzante, destrutturante, qualcosa di oppositivo all’omologazione perbenista della società. Ce lo insegnano come se fosse scritto nella pietra: serve il pudore nel dolore. Il senso di colpa, quando non si riesce a farlo, è sempre in agguato.
La nudità, in Derrida, raccoglie perfettamente e risolve la dicotomia tra il naturale e il culturale: se da un lato, infatti, la nudità esprime la struttura essenziale dell’essere umano, dall’altro lato in quell’essere nudo l’uomo si scopre e si sente «mancante a se stesso». Dove il mancante assume il significato di difettoso, di essere in una colpa. Mostrarsi nella propria vulnerabilità è una colpa, l’assenza di sovrastrutture – in questo caso degli stessi vestiti – è un atto vergognoso, un atto nel quale l’essere umano si mostra mancante – paradossalmente – nel suo essere semplicemente umano.
Fotografia di Francesco Formica
«L’animale, dunque, non è nudo perché è nudo. Non ha percezione della sua nudità. Non esiste nudità in natura. C’è solo la sensazione, l’esperienza (conscia o inconscia) di esistere nella nudità. Dal momento che è nudo, senza esistere nella nudità, l’animale non si sente e non si vede nudo. E dunque non è nudo […] per l’uomo vale piuttosto il contrario». La decostruzione del concetto e della sensazione stessa di nudità e della vergogna che ne consegue riconosce in esse una radice intima, che ha a che fare prima di tutto con il proprio ego. Un io che deve essere poi socializzato, ma tenuto al riparo dalle intrusioni e dai pericoli che ne scoverebbero la vena nuda e troppo inerme per sopravvivere in sé e per sé nel mondo.
«Sembra che l’uomo non possa più essere nudo dal momento che possiede il senso del nudo, ossia pudore e vergogna. L’animale sarebbe in situazione di non nudità in quanto nudo e l’uomo in situazione di nudità dal momento che non è più nudo. Ecco una differenza, un tempo e un contrattempo tra due nudità senza nudità». Nelle realtà conoscibili e calpestabili dall’essere umano, nulla è nudo: spogliarsi significherebbe smettere di vergognarsi di se stessi.