«Se democrazia significa uguaglianza, allora perché non c’è uguaglianza?», Malcom X, La democrazia è un’ipocrisia
Si ritorna in un certo senso al quesito della sofistica: la democrazia nasce per la difesa dei più deboli, di chi viene prevaricato e basta, o in ragione della difesa di diritti che non possono essere alienati per nessun motivo?
Il concetto di uguaglianza è uno dei punti cardine della democrazia senza il quale non avrebbe ragione di esistere. Eppure, la discriminazione e la marginalizzazione di persone che pagano lo scotto della loro cosiddetta diversità insinua un dubbio radicale: l’uguaglianza è rimasta bloccata sulla soglia del principio o è riuscita a scendere le scale del diritto?
La storia della filosofia, dai suoi albori, ruota intorno ai principi da un lato e alle strategie della politica dall’altro. La filosofia politica moderna segna sicuramente uno spartiacque nella riflessione in merito ai possibili ordini statali, introducendo una forte dicotomia tra diritto di natura e diritto positivo, giusnaturalismo e giuspositivismo che si confrontano. In molti pensatori, forse soprattutto in Hobbes prevale una sfiducia totale e un profondo pessimismo riguardo la natura umana, che lo porta a rifiutare la democrazia come la migliore struttura politica possibile.
La democrazia sarebbe nella sua riflessione allo stesso tempo un rischio e una forzatura mal adattabili alla natura umana. L’unico diritto di natura valido per il filosofo inglese è quello alla sopravvivenza. La monarchia, che nasce dalla duplice stipulazione del patto di unione tra pari e del patto di subordinazione tra la popolazione e il monarca, è la forma governativa che meglio di ogni altra garantirebbe il diritto alla vita.
Ebbene, la riflessione seicentesca hobbesiana non arrivava a comprendere o ad ipotizzare la complessità raggiunta dalle società e dagli ordinamenti statali contemporanei, dove il diritto alla sopravvivenza certamente non esaurisce il diritto ad essere persone. La democrazia è chiamata a garantire l’estensione inoppugnabile di diritti quali uguaglianza, dignità e autodeterminazione.
Bene, ma la domanda è “riesce a farlo?”. «La democrazia è un’ipocrisia. Se democrazia significa libertà perché la nostra gente non è libera? Se democrazia significa giustizia, perché non c’è giustizia, se democrazia significa uguaglianza, allora perché non c’è uguaglianza? Venti milioni di neri in questo paese sono trattati come “ragazzi” in casa dell’uomo bianco». Questa la risposta di Malcom X ad alcune domande che la società americana della prima metà del secolo scorso rendeva retoriche.
Uguaglianza e democrazia. Ma uguali in cosa, democratici quando?
Le categorie esistono in funzione dei capri espiatori: soggetti ai quali, per motivazioni varie, vengono proibite e rese pressoché impraticabili molte opportunità, prima fra tutte l’autodeterminazione. Malcom X definiva la democrazia un’ipocrisia riferendosi alla discriminazione razziale subita dagli afroamericani. Oggi, per quanto la razzializzazione rappresenti ancora un enorme problema, alcuni degli atteggiamenti più discriminatori e stigmatizzanti ci farebbero accapponare la pelle. Ma la discriminazione non è esibita sempre allo stesso modo, molto spesso assume espressioni che rimangono sottotraccia, forme più timide e sottili di marginalizzazione.
Fotografia di Francesco Formica
La storia è dopo che le cose accadono, è la memoria dell’accaduto, durante c’è la vita generata tra le parti che combattono. Uguali in cosa, democratici quando, ma soprattutto perché? Perché assistiamo alle parti che combattono se democrazia vuol dire uguaglianza e giustizia? Perché qualsiasi principio se calato nella sfera individuale e relazionale molto probabilmente sarà ipocrisia. La democrazia smette di esserlo quando diventa diritto, legge che si contrappone alla prevaricazione barbara e fuori da ogni controllo, alla marginalizzazione incondizionata e alla discriminazione del non conforme.
Se si limita ad essere legge non assimilata, a rimanere un’imposizione esterna, qualcosa di subito, di masticato a fatica e mal digerito, l’uguaglianza non ha possibilità di esistere come diritto e la diversità è condannata a rimanere un errore. Sulla base di questo, inclusività e intersezionalità si sono fatte necessarie: riempiono la bocca della democrazia, sono le sue versioni più tangibili e concrete, il contenuto da metabolizzare per parlare sensatamente di diritto all’uguaglianza e alla democrazia.
L’abilismo e l’invisibilizzazione della persona
La disabilità rientra tra quelle caratteristiche percepite come definitorie della persona: di una persona con disabilità spesso viene vista prima di tutto “la parte non abile” – in alcuni casi addirittura solo questa – e soltanto in un secondo momento la persona, indipendentemente e nonostante la disabilità.
La considerazione della diversità e la sua legittimazione, senza pietismo né insofferenza, sono i requisiti indispensabili per la tutela del principio e del diritto all’uguaglianza. La discriminazione delle persone con disabilità non viene urlata, non è sfacciata: è rinchiusa nello sguardo pietistico, nei giudizi o nei commenti abilisti, nel dare per scontato che la disabilità sia non conformità e dunque non aderenza a determinati standard di permissibilità.
A chiudere il mese di luglio, la gestione e le considerazioni abiliste da parte del Giardino dei Tarocchi nei confronti di Sofia Righetti, che in un post sul suo profilo Instagram scrive: «oggi finisce luglio e il Disability Pride Month, ma mi chiedo se mai sia davvero iniziato».
L’approccio assunto dalla struttura è sintomo della totale assenza di considerazione nei confronti delle persone con disabilità. Non c’è stigmatizzazione accusatoria o palesemente aggressiva, ma c’è una forma di stigmatizzazione più bassa, partorita in maniera silente dall’indifferenza e dalla trascuratezza nel riconoscere le necessità dell’altro. Le persone con disabilità rientrano in quelle “categorie” quasi del tutto invisibilizzate, non accolte nelle ramificazioni della società.
Fotografia di Francesco Formica
Rimangono un peso, un costo aggiuntivo, rappresentano la causa di uno sforzo che “se loro non esistessero non sarebbe necessario e allora perché farlo?”. La reazione dell’amministrazione della struttura, tra l’altro, non ha affatto previsto delle scuse, tanto meno un impegno costruttivo per risolvere il problema ed evitare che altre persone si ritrovino nel prossimo futuro nella medesima situazione.
Che le persone con disabilità debbano essere escluse, a priori, da specifiche circostanti della vita, lo scrive molto bene Marina Cuollo nel suo articolo, Perché ad una donna con disabilità non si pensa mai come madre?, per la sua rubrica su Vanity Fair.
«L’essere donna, unitamente all’essere “fisicamente difettosa”, provoca un senso di forte disagio in una società che esalta la perfezione del corpo. Le donne con disabilità devono fare i conti con uno stigma che impone loro di essere fragili, bisognose di cure e attenzioni, e già che ci siamo pure asessuate. Pensare poi che una donna disabile possa addirittura diventare madre e crescere il suo bambino, diventa quasi un’idea assurda e insana. E allora succede che se una donna vuole interrompere una gravidanza ci saranno persone che tenteranno in tutti modi di convincerla a non farlo, ma se viceversa è una donna disabile a desiderare un figlio avverrà esattamente l’opposto».
Insieme a questo anche tutti i preconcetti relativi alla sfera sessuale o alla predisposizione nell’intraprendere relazioni sentimentali. Le persone con disabilità vengono bannate ed estromesse, sulla base di vuoti stereotipi, dalle possibilità di esistere e coesistere al pari di chiunque altro.
Quando si parla di invisibilizzazione e di “condanna” alla mancata accessibilità non si fa riferimento esclusivamente ai luoghi fisici, ma anche alle espressioni e manifestazioni dell’essere umani, alla possibilità di essere persone che esistono nei loro desideri e nelle loro prospettive, a prescindere dalla disabilità.