privilegio

Privilegio. «Quando parliamo di privilegio parliamo delle zavorre che non hai», Irene Facheris

In molti casi quando si parla di privilegio le persone sentono di doversi difendere dall’accusa di aver conquistato qualcosa che, per qualche ragione, non spettava loro. In realtà il privilegio ha molto a che fare con la fortuna e poco con il merito, o con la forza di volontà. Ce ne ha parlato Irene Facheris, formatrice, attivista transfemminista intersezionale e Presidente dell’associazione Bossy.

Con Irene abbiamo provato a definire il privilegio, un’operazione ardua considerando che «tante persone faticano a riconoscere il proprio privilegio proprio perché hanno paura che affermare di averne uno equivalga ad ammettere di avere una vita perfetta». Della possibilità, nonché dell’importanza, di utilizzarlo in modo tale da riuscire a fare spazio ad altre persone, spostandosi dal centro del discorso. Di cosa ha voluto dire, poi, vivere la propria vita sperimentando, in quanto donna, l’assenza di privilegio. Sperimentando troppo spesso la paura.

«La paura è qualcosa che non vorrei avere, perché vorrei non ci fosse una buona ragione per provarne. Finché una ragione c’è, allora bene, perché è un campanello d’allarme. Ascoltare la mia paura mi salva la vita, ma è triste che io possa fidarmi così tanto di lei».

Di cosa parliamo quando parliamo di privilegio?

Quando mi ritrovo a parlare di privilegio, spesso, faccio fatica a farmi ascoltare dalle persone perché di fronte a questa parola in molti casi l’associazione mentale è: «sono privilegiato, o privilegiata, dunque la mia vita è perfetta e non ho niente di cui lamentarmi». Posto che questo non è vero per nessuno, tante persone faticano a riconoscere il proprio privilegio proprio perché hanno paura che affermare di averne uno equivalga ad ammettere di avere una vita perfetta, di essere felici e sereni. La prima differenziazione che va fatta è proprio quella tra privilegio e vita perfetta. Nessuno ce l’ha una vita perfetta, nemmeno la persona più ricca del mondo: le sfighe accadono sia che tu abbia il conto in banca azzerato sia che tu sia miliardario. Riconoscere i propri privilegi non ha nulla a che fare con il non avere più la libertà di lamentarsi della propria vita. Possono esserci cose che non ci piacciono e allo stesso tempo godere di una serie di privilegi, le due cose sono conciliabili.

Essere privilegiati significa non avere un certo problema. E di solito si tratta di problemi strutturali che rimandano alla società, non al caso singolo. Io sono molto privilegiata per tantissime ragioni: sono bianca in una società che è razzista; sono eterosessuale e cisgender in una società che è omobitransfobica; vivo in una casa di proprietà quindi non ho la preoccupazione di dover pagare l’affitto alla fine del mese; sono momentaneamente non disabile, ciò vuol dire che non ho problemi a girare per le città, anche se non c’è una rampa riesco comunque a salire le scale. Questo significa che io non abbia giornate no o che non stia male per altre ragioni? No, chiaramente. A me è stata diagnosticata la depressione. Se avessi potuto scegliere me la sarei evitata. È chiaro che questo rientra nelle cose della mia vita che esistono e non mi piacciono, però ho il privilegio di potermi pagare una psicoterapeuta, una psichiatra e dei medicinali. Ho il privilegio di poterla gestire, di poterla curare. Ecco, quando parliamo di privilegio parliamo di questo: delle zavorre che non hai. Non per merito, semplicemente perché è accaduto così. La mia indipendenza economica è frutto dei miei sacrifici, ad esempio, tuttavia gli stessi sacrifici per una donna nera non sono sufficienti a guadagnare quella mole di denaro. Anche quando parliamo di obiettivi raggiunti grazie alla nostra forza non c’è mai solo quella, c’è anche una buona dose di privilegio che ti porti dietro e che ti permette di raggiugere quell’obiettivo immettendo quel numero di energie. Se non avessi quel privilegio dovresti immettere più energie.

In che modo è possibile utilizzare il proprio privilegio?

Quando noi ci troviamo ad avere un privilegio e ci rendiamo conto di averlo, abbiamo davanti due strade. La prima è dirci: «meno male che questa discriminazione non ce l’ho» e andare avanti con la nostra vita, la seconda è chiederci: «cosa posso fare per utilizzare questo privilegio in maniera utile, per fare in modo che non nasca e muoia con me?». Quando vengo chiamata per parlare di body positivity mi chiedo: «perché chiami me che ho una taglia 46 e sono alta 1.80?». Magari posso spiegare quanto non mi piaccia essere così alta, ma questo riguarda me. Non posso dire che essere alte sia uno svantaggio in questa società. A livello sistemico non sarà mai una discriminazione essere alta 1.80. Quando mi chiamano per parlare di body positivity, allora, dall’alto del mio privilegio dell’essere una persona con un corpo conforme, scelgo di passare il microfono a persone con corpi non conformi che dovrebbero essere le prime a poter parlare di questo tema, perché significa parlare per loro stesse. Questo è un uso del privilegio per dare visibilità ad altre persone, per togliersi dall’occhio di bue e mettere al centro qualcun altro.

Non è un lavoro semplice perché si scontra con l’egocentrismo e il narcisismo che sono in ognuno di noi. Quando mi chiedono di parlare di un tema devo far spazio a quella parte di me che mi consente di dire: «non è il caso che venga io, ma altre persone». Spesso questo significa anche rinunciare a dei compensi economici. Io ho il privilegio di avere un’indipendenza economica, per tale ragione posso permettermi di mettere da parte un altro privilegio per far spazio ad altre persone. Più riesco ad avere una mappa dei miei privilegi più riesco a capire in che modo utilizzarli per aiutare gli altri. È un lavoro lungo tra l’altro si scoprono privilegi nuovi ogni tanto e bisogna avere voglia di farlo, nel senso che senza committenza non funziona. Il problema sta nel cercare un nuovo modo per guardare il mondo, nel ri-educarsi pensandosi non più al centro dell’universo ma come parte di qualcosa. È per questo che non sentiamo tantissime persone rinunciare a opportunità per darle a qualcun altro, perché è difficile fare questo passaggio: «non sei al centro del mondo, quindi spostati». È molto difficile dirselo, soltanto che quando si parla di certi temi non ci si può far bastare il proprio sguardo, bisogna provare a vedere oltre il nostro ombelico cosa c’è.

La sensazione è che si sperimenti una grande difficoltà nel passaggio dalla dimensione individuale a quella collettiva o, come dicevi, sistemica. Forse questo ha a che fare con il modo in cui viviamo, con l’assenza di una dimensione comunitaria.

Manca un po’ di allenamento alla collettività sia nella vita di tutti i giorni sia nel pensiero, nel riflettere non come un “io” ma come un “noi”. Questa è una cosa che non siamo riusciti a imparare neanche quando c’era soltanto un “noi”. Quando è iniziata la pandemia non è vero che eravamo tutti nella stessa situazione perché, anche lì, abbiamo il privilegio di vivere nella parte del mondo dove si fanno i vaccini; non è vero neanche che colpiva tutti allo stesso modo, perché a seconda del tenore di vita e delle possibilità che si avevano si era più o meno a rischio, ma tutti e tutte eravamo spiazzati e spiazzate allo stesso modo. Non è durata neanche due settimane, dopo aver cantato dai balconi eravamo già al punto di fare la spia contro il runner che violava il coprifuoco. Non so che cosa potrebbe mai insegnarci questo modo di guardare il mondo una volta per tutte.

Io lavoro affinché si riesca ad avere una dimensione collettiva, gruppale, tra persone che interagiscono tra loro. Non credo che sarà mai possibile riuscire a provare questo sentimento nei confronti di tutti gli altri esseri umani. Si può lavorare con chi si sta facendo questa domanda: «ha senso pensare alle altre persone o è meglio che io pensi solo a me?». Se si stanno facendo questa domanda è il caso di permettere loro di ascoltare una risposta sensata.

A proposito di questo, pensi che la dimensione virtuale possa servire alla causa?

A mio modo di vedere lo strumento dell’online non modifica i comportamenti delle persone, ma li svela e li rende più immediati ed evidenti. Il che significa che se sei portato o portata a pensare agli altri, la dimensione online ti permette di fare cose a un livello realmente collettivo. Se invece come unico obiettivo hai te, il mondo online è un’ottima piattaforma per concentrarsi solo sul tuo ombelico, dà molti rinforzi positivi: like, condivisioni, tag, menzioni. Se vuoi crescere senza pensare che ci sono altri esseri umani attorno, puoi farlo molto bene online. È uno strumento, come tutti gli strumenti puoi usarlo in diversi modi. Spesso nelle discussioni si dà la colpa al mezzo, ma non è così: una lama è una lama, può servire per incidere e salvare una vita, può servire per accoltellare e ammazzare. Tutto dipende da come si decide di usare quello strumento, dall’intenzione che sta dietro l’utilizzo.

Cosa ha significato, per te, sperimentare l’assenza di privilegio?

Io sono il ritratto del privilegio tranne per un piccolissimo dettaglio: sono donna. Mi sento donna e sono stata socializzata come donna. Mi fermo sempre a pensare come può stare una persona che subisce molte più discriminazioni, perché se a me solo con questa girano così tanto le ovaie posso solo immaginare come possa stare qualcuno che effettivamente non ha privilegi. Per quanto riguarda la mia vita, è una discriminazione che ho sempre sentito sulla mia pelle: ho sempre visto una differenza di comportamento nei miei confronti rispetto a un uomo. L’ho visto dalle note che mi mettevano a scuola, assolutamente prive di senso. Se un mio compagno di classe diceva quello che pensava era coraggioso, era uno che si faceva ascoltare e anche i professori e le professoresse lo guardavano ammirate, io facevo la stessa cosa e prendevo le note. Mi ricordo ancora: «Irene assume atteggiamenti garibaldini». Avrebbero mai detto questo di un uomo? Cosa vuol dire, poi? Il mio modo di comportarmi veniva letto in maniera diversa perché ero una ragazza.

Finché non ho portato il femminismo in casa mia ho sempre visto riprodursi le stesse dinamiche anche tra i miei genitori. Non mi hanno mai detto: «questa cosa non la puoi fare perché sei una femmina», però avevano delle aspettative nei miei confronti. Ad esempio, per tantissimi anni non ho visto mio padre fare niente in casa: non l’ho visto sparecchiare, non l’ho visto cucinare, non l’ho visto pulire. Tutti quanti davamo per scontato che quel lavoro dovesse farlo mia madre e quando sono diventata un po’ più grande anche io. Quando vivevo con i miei genitori la mia camera la pulivo io, ma mi chiedevo perché mio padre non facesse lo stesso. Questa aspettativa secondo cui si trattava di un “lavoro da femmine” mi è stata buttata addosso, sarà per questo che nell’istante in cui sono andata a vivere da sola ho smesso di fare tutte queste cose.

Naturalmente a livello di vita sociale ho provato tutte quelle cose che credo provino la maggior parte delle donne: commenti per strada, gente in metropolitana che ti si masturba addosso, l’assistente universitario che ti molesta. Ho avuto diverse esperienze. Per tantissimo tempo, di nuovo, finché non ho incontrato il femminismo, sentivo che c’era qualcosa che non andava ma davo la colpa a me. Pensavo di essere esagerata o troppo sensibile, anche perché sentivo tante persone – anche donne – dirmi «ma quello è un complimento», «a me farebbe piacere». Quando ho impattato il femminismo e finalmente mi sono sentita dire che le cose che provavo erano normalissime, che ero vittima di discriminazione ed era ovvio che fossi arrabbiata, mi sono arrabbiata tantissimo con le altre donne. Ho dovuto diventare sempre più femminista per vedere in quelle donne una parte di me, sicuramente, e poi la loro distanza dal femminismo. Non rimane che un’alternativa in quel caso: il patriarcato. Allora ho smesso di arrabbiarmi con le altre donne per essere donne in una società patriarcale, e ho iniziato a intristirmi.

Mi è sempre stato chiaro che il mio essere femmina voleva dire qualcosa per gli altri, non capivo bene cosa volesse dire per me. Durante la prima adolescenza ho cercato di combattere questa cosa a tutti i costi: sceglievo abiti larghissimi, avevo la cresta. Volevo allontanarmi dall’idea di ragazza, anche esteticamente parlando. Nella seconda parte dell’adolescenza, invece, ho aderito completamente a quel modello. Ero esattamente tutto quello che le persone si aspettavano da me. Ho fatto tantissimi danni alla ricerca costante dell’approvazione maschile, sentivo il bisogno di essere validata dagli uomini. Guardando indietro do a loro gran parte della responsabilità nel senso che si trattava sempre di uomini più grandi e quindi secondo me avevano ben chiaro che cosa stessi cercando di fare, ossia cercare la loro approvazione. Sapevano di essere in una posizione di potere, estremamente manipolatoria. Questa è una cosa che guardo adesso con gli occhi di una quasi trentaduenne ripensando a dieci-quindici anni fa. Forse è per questo che mi porto dietro questa rabbia, che poi è una rabbia nei confronti del genere maschile, perché vedo accadere così spesso a così tante donne le stesse storie, che sono davvero simili. Allora penso che o sono tutti idioti e non se ne rendono conto oppure c’è un’intenzione dietro i loro comportamenti e questo mi fa salire il sangue al cervello. Di solito succede al genere femminile, è più raro il contrario. Quindi è vero che non sono discriminata per tante ragioni, però essere una donna è già sufficiente per vedere sparire il privilegio di essere considerata un essere umano. Rimango consapevole del fatto che sono estremamente privilegiata, quando però si tratta della mia discriminazione ho tante storie da raccontare. Per questo bisogna tenere conto del fatto che ci sono persone più discriminate e meno privilegiate, però non è neanche il caso di fare la gara. Non bisogna invalidare le altre persone, le loro emozioni e il loro dolore.

Mi viene in mente che essere donne espone potenzialmente alla paura. Che rapporto hai con questa emozione?

Io ho iniziato a girare da sola la sera da quando ho preso il mio cane, perché va portato fuori prima di andare a dormire. L’ho abituato a determinati orari proprio perché ho paura, però il fatto di avere un cane – tra l’altro un cane maschio, nero – aiuta. Lui sente la mia paura e sente le intenzioni delle persone che passano. Non abbaia a tutti, lo fa in maniera selezionata. Qualche tempo fa c’era un uomo che mi stava guardando in maniera insistente, il mio cane ha abbaiato e lui ha risposto: «non ho ancora fatto niente». Quel ancora mi ha terrorizzata, perché ho pensato che faccio bene ad avere paura. Il mio problema è che ogni volta che provo paura poi succede qualcosa che mi conferma che avevo ragione. La paura è qualcosa che non vorrei avere, perché vorrei non ci fosse una buona ragione per provarne. Finché una ragione c’è, allora bene, perché è un campanello d’allarme. Ascoltare la mia paura mi salva la vita, ma è triste che io possa fidarmi così tanto di lei.

Di tanto in tanto online ritorna questo argomento di discussione: «se sei un uomo e stai camminando dietro una donna per strada accelera, superala, perché ti assicuro che lei ha paura». E quanti uomini sento rispondere: «ma io non farei mai niente, non è colpa mia se hai paura». Questo è non voler vedere. Se non hai intenzione di fare niente, purtroppo, me lo devi dimostrare. L’innocenza fino a prova contraria funziona molto bene nei tribunali ed è giusto che sia così, ma nella vita di tutti i giorni, con le emozioni, non esiste l’innocenza fino a prova contraria. Per quanto possa razionalmente dirmi che quell’uomo non ha fatto niente, emotivamente non funziona, perché la mia prima reazione è percepire un pericolo. Se io fossi dall’altra parte farei tutto quello che è in mio potere per far capire a quella persona che, no, io non sono un pericolo, ma siccome comprendo molto bene perché possa pensarlo cambio strada. A volte la sera quando cammino da sola per strada alcuni ragazzi accelerano il passo e mi superano, so che quello è un messaggio e non è stato fatto per caso. Lo apprezzo molto e mi verrebbe voglia di dire: «grazie», però tanti altri ritengono più importante il loro autocertificarsi bravi ragazzi che non provare a far stare meglio l’altra persona. E io di quelli ho paura.

Spesso il femminismo viene criticato in quanto ismo, ma credo sia fondamentale comprendere che si tratta di uno strumento di conoscenza. Proprio rispetto al privilegio, capire di essere o non essere privilegiati è uno dei tanti modi per aderire alla realtà e il femminismo è uno strumento utile per farlo. Quanto è stato importante per te?

Per me è stato centrale. Anche perché senza il femminismo non avrei conosciuto tutte le donne che ho conosciuto e che mi hanno aiutata a diventare la persona che sono oggi e che spero di diventare domani. Ogni tanto si dice che dovremmo cambiargli nome perché in questo modo forse confonde. Abbiamo spiegato il significato di femminismo in tutte le salse, non è un problema di comprensione è un problema di quanto ti piace quello che hai ascoltato. Questa è una cosa che facciamo tutti come esseri umani: quando diciamo: «non ho capito» in realtà vogliamo dire: «ho capito ma non mi piace». Il femminismo è bene che continui a chiamarsi in questo modo tanto è il messaggio che non piace, a molti uomini non piace la parità.

Per quanto riguarda me, è finito il tempo di fare da balia agli adulti. Per tanti anni ho parlato di femminismo ma l’intento era quello di essere apprezzata. Non censuro più niente del mio disagio forte rispetto al genere maschile, il che non significa che non abbia rapporti con gli uomini. Fanno parte della mia vita, quelli che sono anche sensibili e intelligenti. Quelli tossici non li voglio. Basta pensare al modo migliore per dire qualcosa così da non urtare il maschio, bianco, etero, cis.