body politics

Body politics. “Non tutti i corpi hanno lo stesso potere politico”, Francesca Anelli

Corpi stanchi della loro invisibilità, esigenti di un riconoscimento, sono diventati corpi politici. Ne abbiamo parlato con Francesca Anelli, attivista transfemminista small fat, la cui divulgazione ha assunto tinte politiche e sociali a partire da un’esigenza personale.

Non si definisce «un’attivista soprattutto rispetto ai temi legati alla body positivity o alla fat liberation perché» – come precisa – «non faccio parte di un gruppo strutturato di attivismo, come invece accade per altri temi», ma il suo contributo merita sicuramente più di qualche riflessione. Abbiamo parlato del sistema di controllo sociale che tende a rigettare tutti quei corpi considerati non conformi, dunque di body politics, di posizionamento sociale e privilegio, di linguaggio inclusivo, di automatismi sociali marginalizzanti e grassofobia.

Come e perché inizi a fare divulgazione su questi temi?

Sono una persona che ha avuto delle esperienze relative al controllo del corpo, più precisamente allo sguardo degli altri sul mio corpo. Sono cresciuta come una persona grassa, il mio corpo poi è cambiato anche, purtroppo, in seguito a dei problemi di disturbi alimentari. È un percorso che nasce da un’esigenza personale, dalla ricerca di una causa che mi permettesse di analizzare ciò che mi succedeva con uno sguardo più sensibile rispetto alla questione e poi ho iniziato a parlarne sui social.

Body positivity, body shaming, body politics sono tutte questioni socio-culturali intorno alle quali si fa ancora molta confusione. A cosa ci riferiamo quando parliamo di body politics?

A tutto ciò che ruota attorno al controllo del corpo, all’immagine e alla percezione sociale che abbiamo del corpo e quindi sostanzialmente a come il mondo guarda i corpi.

Si fa molta confusione perché non c’è ancora grandissima consapevolezza di quanto il corpo sia un punto centrale nel posizionamento che una persona ricopre all’interno della società. Non soltanto in riferimento al fat liberation, ma anche rispetto a tanti altri ambiti che vanno dalla disabilità all’avere un corpo trans o visibilmente queer.

Il corpo contribuisce all’identità in senso politico: dice come il mondo ti percepisce e in quale categoria ti inserisce, generando quindi privilegi o discriminazioni.

E nel caso specifico delle discriminazioni di corpi considerati non conformi?

Anche in questo caso, spesso si fa molta confusione tra questioni relative al body shaming e alla discriminazione dei corpi non conformi perché non è ancora chiaro che discutere di body politics, di body positivity o di fat liberation significa discutere in primis di un sistema di oppressione verso i corpi non conformi.

Mentre quando si parla di body shaming parliamo di un fenomeno che affonda le sue radici sicuramente in questo sistema di oppressione, che genera delle gerarchie rispetto ai corpi, ma non riguarda oppressioni sistemiche specificamente politiche.

Fare una distinzione tra le due cose non significa voler essere puntigliosi: se non si capisce che la natura dei due fenomeni è diversa, non si riesce neanche a trovare una soluzione adeguata. E questo è anche il motivo per cui spesso si sente parlare di body positivity in termini di self love, accettazione del proprio corpo. L’aver interiorizzato questi concetti sicuramente può aiutare sotto l’aspetto del body shaming, ma se subisci una discriminazione sistemica puoi amarti quanto vuoi, ma non risolverai il problema.

Ciascuno di noi è portatore di un proprio posizionamento sociale, ma quanto di questo posizionamento dipende attivamente dalle nostre azioni e decisioni e quanto invece dipende dalla percezione e dalle definizioni sociali? Insomma, qual è la “percentuale” di attività e passività all’interno di un posizionamento sociale?

Alcune cose nascono con te, ad esempio il fatto di essere una persona bianca che nasce in una famiglia benestante rientra tra le componenti passive: nasci così e hai questo privilegio. Stessa cosa ma in senso contrario, se nasci nera in una famiglia povera.

Ovviamente questo è un discorso che si intreccia al classismo e all’idea del “farsi da sé”, che in alcuni casi ha avuto certamente una realizzazione concreta, ma in generale rimane un mito anche piuttosto tossico. Non si può avere controllo sulla famiglia in cui si nasce, ma esiste comunque una responsabilità rispetto al fatto che ogni fortuna “di nascita” è definita politicamente dall’oppressione di classe. 

Il privilegio è qualcosa che si ha in dono senza aver fatto niente, il percorso ovviamente sarà più duro per chi parte da più indietro ed è rallentato da qualcosa. La posizione sociale che si occupa è in buona parte determinata da una serie di fattori su cui non si ha un intervento diretto, come la famiglia in cui si nasce, l’etnia o il colore della pelle. Ci si può sicuramente distaccare da un determinato condizionamento culturale ma questo comunque influenzerà il percorso di vita.

Alcune cose possono cambiare anche sul corpo stesso, ad esempio una persona che passa da essere grassa a non esserlo più cambierà il suo privilegio. Altro caso ancora, quello dei corpi che vivono una transizione sociale e/o medicalizzata e per questo motivo sperimentano gradi diversi di privilegio e discriminazione. Come le persone transmasculine, nel caso di persone passing, che raccontano di aver fatto esperienza di un livello di privilegio maggiore rispetto a quando avevano un aspetto femminile, per quanto i corpi trans siano in ogni caso non privilegiati.

E nei casi inversi? Quanto una percezione sociale negativa riesce a determinarci?

La teoria del privilegio è uno strumento utilissimo per comprendere il mondo, perché riesce a modificarne la visione, ma se diventa dogmatica si scade nel problema opposto, rischiando di cristallizzare delle identità che sono unicamente frutto della società.

Se considero il privilegio come qualcosa che mi appartiene e basta – a prescindere dalle mie azioni o dalle situazioni in cui mi posso ritrovare – e lo guardo in maniera fissa e dogmatica senza tener conto dei diversi contesti in cui uno stesso privilegio può assumere rilevanze diverse, rischio di rafforzarlo. La teoria del privilegio va utilizzata come uno strumento per mettere in discussione la realtà e guardare alle identità come qualcosa di fluido.

Qualche esempio?

Il famoso maschio etero cis è una categoria socialmente costruita e ciò che accumuna le persone di questa categoria è il loro privilegio dato da una società patriarcale. Al cambiare della società – si spera – che questo privilegio verrà man mano meno, quindi pensare che questo maschio etero cis sarà sempre lo stesso maschio etero cis è limitante perché non permette alle persone che fanno parte di quella stessa categoria privilegiata di mettersi in discussione e quindi contribuire al cambiamento.

Ben venga un maschio etero cis che decide di sperimentare gonna, trucchi e smalto: nel suo caso, riconoscere di avere un privilegio deve servire a far capire che ogni tipo di sperimentazione in questo ambito sarà maggiormente supportata dalla società perché ne è al vertice. Un uomo gay cis che si mette lo smalto sarà percepito dai media in maniera molto più negativa e sarà molto più facile che si ritrovi in una condizione di oppressione.

Un esempio pratico: Harry Styles con abito femminile sulla copertina di Vogue viene celebrato per aver sfidato la mascolinità tossica, eppure le persone queer lo fanno da decenni e vengono discriminate per questo. Questa consapevolezza non deve limitare Harry Styles o chi per lui a sperimentare con il genere, deve al contrario spingere le persone che godono del suo medesimo privilegio a portare luce su questo tipo di discriminazione.

Poche parole per delineare un ambito sterminato: mito della bellezza e grassofobia. In quale relazione stanno?

Torniamo sempre all’idea del controllo del corpo. Il mito della bellezza e la grassofobia si inseriscono nell’ambito del controllo del corpo delle persone oppresse. Il mito della bellezza tende a tenere le donne, soprattutto, al loro posto. Serve a mantenerle subordinate.

E anche la grassofobia si inserisce perfettamente in questo contesto, perché strettamente correlato a quello della bellezza c’è anche il mito della magrezza, un altro modo per mantenere il controllo su persone oppresse dalla società.

Tutto ciò, tra l’altro, si intreccia con uno sguardo molto coloniale del mondo, con il concetto di dominio patriarcale occidentale. Il mito della bellezza di cui stiamo parlando è il mito della bellezza occidentale, che insieme al mito della magrezza, si allontana dal corpo percepito come selvaggio ed estraneo.

Di fronte ad una persona grassa, o più in generale di fronte ad un corpo non conforme, spesso subentrano giudizi convenzionali, quindi morali, che conducono all’associazione dell’aspetto fisico alla personalità. Ad esempio, una persona grassa viene molto facilmente considerata una persona pigra e poco incline a mantenere uno stile di vita sano. Sembra che dietro l’aspetto fisico si celi una colpa che sconfina nell’etica, perché è così difficile rompere questa associazione?

Tendiamo a fare troppi automatismi e semplificazioni. Ci insegnano che se mangi tanto ingrassi, che esiste un collegamento diretto tra la forma fisica e la quantità di cibo ingerita. Questo automatismo è talmente radicato da diventare una reazione istintiva, a tal punto che appena vediamo una persona grassa ci siamo già fatti un’idea su di lei ed è la stessa cosa che avviene con una persona razzializzata o disabile.

Alle persone che si discostano dalla norma etero cis patriarcale è tolta la possibilità della complessità che concediamo invece a chi non se ne discosta. Le persone che rappresentano un’alterità rispetto alla norma vengono lette secondo questi automatismi.

E per l’ennesima volta è lo sguardo del vertice che guarda l’altro, semplificandolo. Ed è un meccanismo difficilissimo da scalfire, se non dando voce alla diversità. Per uscirne l’unico modo è far sì che le persone vedano sempre più alternative, tutto il range possibile che esiste tra le persone grasse.

Capire che le persone grasse possono fare mille cose diverse, avere mille motivi per essere grasse e soprattutto avere mille motivi per cui non conta che siano grasse, perché è solo una caratteristica come l’essere magre. Quindi l’unico modo per rompere questa associazione è sbloccare l’automatismo che deriva da tutti gli sguardi parziali sulla diversità.

Stando alla rappresentazione mediatica, noi vediamo persone magre che fanno e sono qualunque cosa: camerieri, ingegneri, sportivi, alcune che mangiano moltissimo, altre che mangiano pochissimo. Abbiamo accettato che le persone magre possano essere tutte queste cose, le persone grasse invece no, perché le vediamo sempre in un unico ruolo, quello di chi ha perso la volontà di vivere e quindi mangia perché non ha la forza di ribellarsi.

Oppure persone grasse che stanno chiuse in casa a fare lavori umili o fissi davanti al computer, i nerd, soprattutto per quanto riguarda gli uomini. Questo unico modello che nasceva da un pregiudizio ha alimentato ancora di più questo stesso pregiudizio, diventando un automatismo. 

Attraverso l’uso politico del corpo, il personale ha dovuto farsi pubblico, per restituire al corpo il suo linguaggio: una narrazione più reale e meno iperbolica, più autentica e inclusiva. Chiunque si faccia portavoce delle diverse manifestazioni e modalità espressive dell’uso politico del corpo (dal dibattito alla divulgazione al mostrare il proprio corpo) assume una grande responsabilità perché deve essere in grado di saper comunicare bene il corpo, per far sì che questo possa disporre della sua più autentica rappresentazione. Vedi un miglioramento nei margini di inclusività? E quali sono invece gli errori più diffusi?

Passi in avanti ne sono stati fatti e se ne continuano a fare, perché essere rappresentato è forse la cosa più potente e quindi grazie ai social media molte persone che prima non avevano alcuna visibilità adesso possono esprimersi.

Ovviamente la visibilità più massiccia, come quella di grossi canali social o altri media, resta in mano a persone che hanno corpi conformi proprio perché le logiche del successo comunicativo seguono le strutture di potere della società. Se la società fa fatica ad accettare corpi grassi, farà dunque più fatica ad accettare una influencer grassa o la accetterà fin tanto che non metterà troppo in discussione lo status quo.

L’equilibrio non si è spostato, ma sicuramente le cose sono migliorate: adesso le persone grasse o in generale le persone con corpi non conformi possono parlare per sé, senza intermediari.

Rispetto agli errori che si possono fare, il più grande è di non tener conto della gerarchia di potere: se, comunicativamente parlando, una persona vuole parlare dell’oppressione dei corpi deve innanzitutto tenere conto del suo posizionamento sociale per capire quale sia il privilegio, dunque il potere, di cui gode nello spazio pubblico.

Ad esempio, io sono una persona small fat nel fat spectrum, per cui mi trovo nel punto più vicino allo standard della magrezza. Non sono così grassa da essere totalmente rigettata dalla società. Questo mi conferisce un potere di cui le persone più grasse non godono, per cui quando parlo di questi argomenti arrivo con maggiore facilità al pubblico perché vengo percepita come meno minacciosa, meno problematica.

Se non mi rendo conto di questa cosa posso rischiare di invisibilizzare le persone che sono più grasse di me. Il rischio si presenta quando cerchiamo di universalizzare la nostra esperienza, che di per sé ha un valore politico, ma non tutti i corpi hanno lo stesso potere politico.