Libia

Dalla Libia «sono scappato tante volte e sono stato arrestato tante volte»

Si sorride del dolore. Per nascondere la vulnerabilità. Per pudore. Per la soddisfazione di averlo attraversato. Si sorride del dolore. Dakarai sorride con gentile disincanto e lo fa di continuo.

Il nome è di fantasia, ma a raccontarci l’essere migranti è un ragazzo ghanese di 27 anni. È ormai in Italia dal 2017, ma il Ghana lo aveva lasciato due anni prima. Il viaggio è stato molto lungo, anche rispetto agli altri ragazzi incontrati nel progetto SAI, perché – ci spiega – «dovevo lavorare per poter affrontare questo viaggio. Eravamo tre ragazzi, siamo rimasti bloccati in Niger perché non potevamo superare le frontiere: ne ricordo sei o sette. Non avendo i documenti, dovevamo pagare per poterle attraversare». Dal Ghana hanno superato il Burkina Faso, poi «dal Niger alla Libia abbiamo attraversato il deserto e ci è voluta quasi una settimana. Dal Ghana per arrivare in Libia sono passati sette mesi».

Dakarai, forse perché è in Italia da più tempo, sembra molto consapevole del suo viaggio, della sua storia. Riesce a parlarne di più, forse ha imparato ad accettare l’inaccettabile, cerca di «non pensare più alle cose brutte, perché non sono accadute soltanto a me». Sembra in qualche modo aver rimodulato anche i suoi progetti in base al riscontro esterno, «oggi mi sento più calmo, non rimugino sulle cose e ascolto di meno i giudizi delle persone».

Antonella Spagnoli, operatrice sanitaria del progetto SAI, ci spiega che Dakarai proviene da un altro centro di accoglienza, dove è stato lasciato per diversi anni abbandonato a se stesso. Motivo per cui ha iniziato a muoversi da solo, ha conosciuto sia il territorio che la lingua in autonomia. Ci racconta che il loro rapporto è stato «in salita, ma è cambiato man mano che acquisiva fiducia nei miei confronti. Si è trovato di fronte una persona che non gli prometteva mare e monti, ma soltanto ciò che si poteva fare. Si è preso del tempo per osservarmi e capire se effettivamente poteva fidarsi di me. Le sue aspettative sono state tradite molte molte volte. In questo modo le pareti divisive si inspessiscono».

La Libia, «sono scappato tante volte e sono stato arrestato tante volte»

Cosa significa essere migrante, ce lo dice a voce bassa, riassumendo in poche battute un pugno di anni che necessiterebbero invece di solo ascolto e comprensione.

Libia Dakarai (nome di fantasia) nel progetto SAI di Ceccano. Fotografia di Camilla Cerroni

Sono andato via dal Ghana per tante ragioni. Ho preso il diploma nel mio paese e lavoravo come carrozziere, ma i miei genitori volevano farmi studiare. Sono partito insieme ad altri due ragazzi, ma non abbiamo calcolato correttamente i soldi di cui avevamo bisogno, per questo siamo rimasti bloccati alla seconda frontiera in Niger. Abbiamo dormito nelle stazioni o per strada a volte, accanto a noi passavano le macchine, mentre i militari ci sorvegliavano.

Arrivati in Libia, sono rimasto lì per qualche mese. Non avevo la percezione esatta del tempo che passava, vedevo alternarsi il giorno e la notte. Ho provato ad attraversare il mare, ma mi hanno arrestato: ero sempre chiuso, mangiavamo due volte al giorno, pranzo e cena.

Uno dei capi aveva bisogno di persone per lavorare e si dice che i ghanesi siano bravi muratori. Ho iniziato a lavorare per poter uscire da lì. Le strade sono due: o paghi o lavori. Siamo andati a lavorare in tre, senza essere pagati e con la promessa che saremmo stati lasciati liberi. Dopo due mesi siamo scappati. Io sono scappato tante volte e sono stato arrestato tante volte. In Niger ti fermano alla frontiera, in Libia ti arrestano: non ti fanno passare e non ti fanno tornare indietro. In Italia la polizia ti chiede i documenti per controllarti, in Libia ti arrestano soltanto perché sei nero e chiedono soldi per liberarti. Io non ho pagato per liberarmi, ma altri sono rimasti in prigione.

Sono stato picchiato perché non capisco l’arabo. Ho provato a partire dalla Libia per arrivare in Italia tre volte. La prima volta mi hanno detto che sarei arrivato in Italia, ma in realtà cercavano soldi per il riscatto. La seconda volta è andata male perché abbiamo incontrato altri libici che hanno tolto il motore alla nostra nave e la barca ha raggiunto la costa alle cinque della mattina. Soltanto il capitano sapeva nuotare: è uscito per cercare aiuto e altre persone hanno provato a seguirlo, ma sono morte.

Ho riprovato a scappare per la terza volta viaggiando su un gommone carico di persone, quella volta siamo stati soccorsi da una nave tedesca. Arrivati in Italia hanno fatto scendere la metà di noi perché la nave era troppo piena, poi l’altra metà. Il viaggio è stato intenso, mi ha cambiato, ma se dovessi rimettermi in viaggio non lo rifarei più. Ricordo che ho iniziato ad essere felice solo quando ho visto la nave tedesca: in quel momento ho capito che sarei arrivato in Italia, che il mio viaggio era finito.