Nel progetto SAI. L’incontro con le operatrici

La storia delle persone migranti finisce dove inizia il pregiudizio, il pressappochismo e la faziosità dell’informazione. Per parlarne, fuori da tutto questo, siamo state ospitate dal progetto SAI (Sistema Accoglienza e Integrazione), ex Sprar, del comune di Ceccano: l’incontro con le tre operatrici, Fabiola Malizia, Alice D’Annibale e Antonella Spagnoli, apre la serie di storie e interviste raccolte durante la giornata trascorsa all’interno del centro.

Fabiola Malizia è l’educatrice del progetto SAI: il suo ha bisogno di essere un supporto globale, «è indispensabile l’attitudine all’apertura». Gestisce i corsi di lingua italiana, le convenzioni con la scuola statale e la sfera burocratica, quindi richiesta di permessi, proroghe, ricorsi e documenti.

Alice D’Annibale è l’assistente sociale: segue l’intero processo di integrazione sociale, dunque i rapporti e i servizi sul territorio, tra cui le richieste di residenza e dei codici fiscali, l’orientamento sul mercato del lavoro e l’avvicinamento ai corsi professionali. «Il percorso con le persone che arrivano qui comincia ovviamente instaurando un rapporto, a partire dal quale viene organizzata una progettualità pensata in maniera individuale».

operatrici progetto SAI Fabiola Malizia, Alice D’Annibale e Antonella Spagnoli. Fotografia di Camilla Cerroni

Antonella Spagnoli è l’operatrice sanitaria e – oltre al suo ambito di competenza – interviene, in sinergia con l’assistente sociale sull’orientamento nei rapporti con il territorio, «affinché loro diventino capaci di trovare il loro percorso in autonomia, che insieme all’integrazione e all’inclusione sono i presupposti del progetto SAI. È indispensabile il rispetto nella relazione: non devono assolutamente sentirsi presi in giro, altrimenti vengono a mancare i presupposti stessi della relazione e non andremmo avanti».

Come funziona il progetto SAI?

Antonella: è un progetto che si occupa di seconda accoglienza. I ragazzi arrivano già con un documento elettronico (ritirato o richiesto in questura) e sotto diverse tipologie di protezione, quindi status di rifugiato, sussidiaria e casi speciali (ex umanitaria). Il nostro lavoro comincia proprio dal loro inserimento in ciascuno dei quattro ambiti di competenza: educativo, sanitario, assistenza sociale e orientamento legale.

Immediatamente dopo, costruiamo un piano educativo individuale, sulla base del loro background, del bagaglio acquisito nel corso della prima accoglienza e anche delle prospettive future. Il nostro è un supporto che cerca di essere un ponte, capace di garantire un continuum di senso nella vita di ciascuno di loro. Una volta alla settimana, ad esempio, qui apriamo uno sportello sociale totalmente gratuito, dove ci capita di aiutare ragazzi e ragazze che sono usciti dal progetto SAI e che magari continuano ad avere ancora difficoltà con la lingua.

Fabiola: La seconda accoglienza prevede una durata di sei mesi, è un ulteriore periodo che il governo concede per l’integrazione sul territorio. I sei mesi però possono essere prorogati se il piano individuale in cui viene inserita la persona non è concluso.

Alice: Sì, perché lo scopo è l’integrazione totale sul territorio.

Cosa dobbiamo inserire nella parola integrazione?

Antonella: parlerei piuttosto di inclusione. L’integrazione lascia sempre un po’ al margine il migrante, inclusione invece significa abbattere le differenze di lingua, di religione, di colore. E per riuscirci abbiamo imparato a non dare nulla per scontato, avvalendoci anche del supporto di professionisti. Ad esempio sulla questione della transculturalità ci confrontiamo con un’antropologa. È indispensabile perché ci aiuta a dare maggior senso alle storie dei ragazzi e delle ragazze, che provengono da etnie e usanze spesso molto diverse tra loro.

Fabiola: in ogni cultura esistono punti di contatto con la nostra. Più ascoltiamo le loro storie e più ci rendiamo conto che non c’è nulla di così lontano da noi. Un’altra figura necessaria per il nostro lavoro è l’etnopsicologo, perché ci fornisce una chiave di lettura differente, attraverso cui interpretare persino gli atteggiamenti più semplici, che di norma fraintenderemmo. Secondo alcune culture africane, ad esempio, è sinonimo di rispetto non guardare negli occhi la persona con cui si sta parlando e abbiamo dovuto capirlo e impararlo per poter costruire un’interazione consapevole.

Quali sono i limiti della prima accoglienza?

Antonella: Il decreto Salvini del 2018 ha stroncato anche quel poco che prevedeva la prima accoglienza, con il risultato che sono molti i ragazzi che arrivano alla seconda accoglienza senza aver svolto nemmeno un corso di italiano. Anche se in parte il decreto Salvini è stato modificato e il corso di apprendimento della lingua italiana reintrodotto.

Abbiamo avuto esperienza con centri di prima accoglienza pre e post decreto e le differenze sono sostanziali, soprattutto per quanto riguarda i servizi garantiti ai richiedenti asilo. Sono scomparsi i corsi di formazione, i corsi di lingua italiana. Attualmente i centri di prima accoglienza rispondono esclusivamente alle necessità primarie, dunque il cibo, la casa, il documento e la possibilità di uscire per cercare lavoro da soli.

La durata della prima accoglienza, tra l’altro, può essere anche molto lunga: dai sei mesi ai due anni, se va tutto bene, perché si arriva anche a sei o sette anni. Prima del decreto Salvini, l’ordinamento giuridico per i richiedenti asilo prevedeva i tre classici gradi di giudizio, dopo il 2018, invece, ai richiedenti asilo è stato tolto un grado di appello e quindi, nei casi di un parere negativo da parte della Commissione, possono fare ricorso. Nel caso in cui l’esito fosse negativo, possono ricorrere soltanto in Cassazione o presentare la cosiddetta “reiterata”, ossia una nuova richiesta di asilo. 

Qual è la risposta del territorio?

Antonella: anche in questo caso, come accade in altri, fa paura ciò che non si conosce. I primi inserimenti nelle case avvenivano sotto gli occhi di tutto il vicinato, che ci guardava con una certa diffidenza, poi però quando il quartiere ha iniziato a conoscere le persone questa diffidenza è venuta meno.

Alice: il pregiudizio però lo riscontriamo ancora adesso, anche a causa della narrazione dei media che va nella direzione opposta a ciò che sarebbe necessario, ossia la sensibilizzazione del territorio.

progetto SAI Nel progetto SAI di Frosinone. Fotografia di Camilla Cerroni

Fabiola: una cosa che noto di frequente è che quando questi ragazzi e ragazze arrivano hanno gli occhi più belli del mondo, brillano di speranza e gratitudine. Si spengono man mano che incontrano l’ostilità degli altri, perché si scontrano con il pregiudizio e l’ignoranza del territorio.

Quali sono le difficoltà maggiori che riscontrate?

Antonella: sicuramente la burocrazia. In ambito sanitario capita, ad esempio, di imbattersi anche nel dottore o nella dottoressa affatto inclusivi o di scontrarsi con la problematica dell’aderenza al farmaco: i ragazzi e le ragazze, che arrivano qui, il male lo percepiscono tale soltanto se è evidente, quindi fin quando non insorgono i sintomi la loro tendenza è quella di rifiutare la cura. Tra l’altro molti di loro si ammalano durante il tragitto, perché subiscono le peggiori violenze, sessuali e fisiche, uomini e donne indistintamente, fino poi ad arrivare in Libia dove vengono imprigionati. Prigioni, per giunta, finanziate anche dallo Stato italiano, nonostante un rapporto dell’Amnesty International in cui si stabilisce che la Libia non è affatto un posto sicuro. Se arrivano da noi con una malattia di origine infettiva o sessuale è perché l’hanno contratta durante il loro viaggio. Per non parlare poi delle donne, partite dal Paese di provenienza un anno prima, che arrivano incinta di tre o quattro mesi. Quelle gravidanze sono frutto di violenze sessuali, avvenute in Niger, in Ciad o in Libia.

Fabiola: tolta la burocrazia, la difficoltà in cui ci imbattiamo ogni giorno è l’acquisizione delle giuste chiavi di lettura, senza le quali non potremmo interpretare correttamente alcuni atteggiamenti. È indispensabile per noi comprendere il perché. Lo stesso problema dell’aderenza al farmaco, di cui parlava Antonella, è collegato anche alla mancanza di fiducia e alla diffidenza e riusciamo a superarla soltanto nella relazione, dimostrando loro che non sono in pericolo e che si possono fidare di noi.