la vita di un'altra

La vita di un’altra. La ricomprensione di un corpo attraverso il diabete

Poi arriva il giorno in cui ti svegli e non sai che quel giorno che sta per iniziare, quel giorno che è ancora innocuo e trasparente, si riempirà di troppe tinte, di troppe parole, movimenti improvvisi e respiri interrotti. Frammenti, istanti, mozziconi di vita che ad ogni rintocco di orologio scaveranno via qualcosa della tua identità, lasciando sempre più vuoto. Spazio che nel suo buio rimarrà ancora inconoscibile per lungo tempo, si rivelerà man mano a tratti con la paura nei muscoli e il coraggio sulla punta delle dita.

Per Jessica Zanardo (lavitadiunaltra) quel giorno era ottobrino ed era di cinque anni fa. Arriva la diagnosi di Diabete di Tipo 1. Arriva il giorno in cui si apre la crepa tra se stessa e il suo corpo, quel giorno in cui l’impossibilità di essere sembra avere la meglio sulla possibilità di scegliere chi essere e come essere nei giorni importanti e nei giorni messi lì, un po’ a caso.

È il giorno in cui il tetto sopra la testa sembra non riparare un granché, che apre porte e finestre a La vita di un’altra, una parentesi quadra di vita che Jessica racconterà poi in un libro e nel suo blog, ma solo dopo aver lasciato che il tempo degli sbagli avesse seminato il giusto smarrimento. Solo dopo essersi concessa il tempo della ricomprensione e della distanza tra lei e il suo «pezzo mancante», riesce a scrivere una lettera d’amore al suo corpo ritrovato.  

«Mi chiedevo se fossi l’unica a sentire quello che stavo sentendo, una forte solitudine e un forte isolamento. Volevo sapere se fossi l’unica diabetica di Tipo 1 a sentire queste cose. Il blog personale e il libro forse sono nati insieme. Sul blog pubblicavo pensieri che avevo scritto per il libro e arrivava una grandissima risposta da parte delle persone. Non volevo la parola “diabete” nel nome, né volevo mettere il mio nome, così ho pensato al mio percorso e La vita di un’altra era il nome giusto perché un’altra donna è entrata a far parte della mia vita così tanto che c’è una Jessica prima del diabete e una Jessica dopo il diabete».

“Questo corpo, in realtà, io non lo volevo più, lo vedevo come una grandissima sconfitta”

«Sono rimasta a fissare un muro per due ore in una stanza di ospedale, ero lì da sola. Ho pianto e ho guardato il muro. Non avevo ben chiaro cosa fosse, ma me lo avevano detto: “la mia vita sarebbe cambiata”». Subito dopo l’esordio e la diagnosi è subentrata la mancata accettazione, «io questa malattia non la volevo», e il primo periodo lo ha vissuto come se non esistesse, come se dietro una diagnosi di una malattia non si celassero i suoi sintomi.

«In quel periodo ho tolto anche la terapia perché pensavo che potessi battere la malattia in un altro modo. Non sono andata in diabetologia, non ho fatto le visite, ho tolto l’insulina. Cercavo di gestire tutto tramite l’alimentazione e l’attività fisica. Sono arrivata a pesare 43 chili, perché l’iperglicemia costante e non gestita porta al dimagrimento».

«È stato un percorso molto impegnativo e questo corpo, in realtà, io non lo volevo più, lo vedevo come una grandissima sconfitta. È stata un’autodistruzione interna ed esterna. In quel periodo avevo allontanato anche tante persone della mia vita. Sono arrivata al punto di non vedermi più, di non sentirmi più».

“Tutto è stato una chiusura per non sentire la malattia e non vederla. Evitavo di guardare anche gli specchi”

Come si accetta qualcosa che non si ha la forza di vedere? Come si comunica con chi il lessico dello smarrimento non lo conosce? Come si abbraccia un dolore che aprirà tagli profondi, difficili da far guarire? La prima reazione di Jessica è stata quella di far crollare i ponti tra la sua vita e il diabete, tra lei e quel dolore che andava rimandato ad ogni costo.

«Ho allontanato le persone che facevano parte della mia vita perché non capivano quello che mi stava succedendo, in realtà ero anche io che non lo permettevo loro. Ero diventata molto dura, volevo guarire e fare di testa mia. Gli altri stavano bene, non avrebbero compreso che cosa provavo. Non volevo sentire consigli o frasi di circostanza e volevo affrontare il diabete da sola, anche perché sapevo che quello che stavo facendo non andava bene e il confronto con le persone portava inevitabilmente alla luce qualcosa che non avrei dovuto fare. Io volevo continuare su quella strada lì. Tutto è stato una chiusura per non sentire: per non sentire la malattia e non vederla nemmeno attraverso gli occhi degli altri. Evitavo di guardare anche gli specchi. Avevo i nervi completamente scoperti, ero brusca e non mi interessava molto di me. Anche nelle relazioni con l’altro sesso, è stato un periodo in cui non avevo consapevolezza di ciò che stavo facendo, non avevo cura di me. C’era solo tanta confusione, tanto cibo, tanta festa e tante persone estranee. Cercavo queste perché non conoscevano la mia storia e potevo evitare di raccontare quello che mi era successo». 

“I primi anni prendere sonno era difficile”

E poi c’è la parantesi graffa dell’esistenza, quella che raccoglie gli spicchi di vita delle parentesi tonde e gli affacci più corposi delle quadre. E quando si raccoglie per vivere consapevolmente si raccoglie tutto, non si lasciano fuori gli schiaffi né le chiavi di volta. Jessica fa parte di una striscia di esistenza, popolata da persone che per viverci dentro hanno dovuto far pace con «la paura di morire per un’ipoglicemia».

«Quella paura me la porto ancora adesso. I primi anni prendere sonno era difficile, le ipoglicemie notturne sono quelle più difficili perché se non ti svegli è un problema. La paura di morire ti accompagna e le ipoglicemie severe te la fanno sentire. Non è qualcosa a cui pensi tutti i giorni, ma è comunque quel velo che senti dietro la testa. La notte è sempre un po’ più difficile».

Insieme alla paura della morte, la Jessica dell’esordio è scesa a patti anche con la rinuncia, e come lei moltissime persone ancora adesso che «dopo 10-15 anni di diabete ancora rinunciano a tante cose per paura, per poca consapevolezza, per vergogna, per il diabetologo o la diabetologa sbagliati, per la poca cultura intorno alla terapia psicologica».

“La scrittura e il rapporto con il corpo fisico mi hanno ricordato che c’ero”

«È come l’elaborazione di un lutto, ci vuole tempo. La cosa difficile non è stata tanto ricevere la notizia, ma integrarla nella quotidianità. Vedere che al tuo corpo manca un pezzo fa dubitare sia del corpo che della persona. Il più grande cambiamento è stato imparare ad accettare di avere quel pezzo mancante e comprendere che se biologicamente manca un pezzo, al livello personale non manca niente, perché impari a gestire questa mancanza facendoci i conti tutti i giorni. Ma all’inizio quel pezzettino mancante, quel vuoto lo senti. Pian piano, con la progressiva presa di coscienza che questa malattia c’era, ho capito che dovevo iniziare ad integrarla nella mia vita, che dovevo integrare l’insulina e vedevo che il mio corpo man mano tornava a stare bene, ritornavano le forme e la mia femminilità. Il contatto con me stava ritornando. Dalla sera che ho ricominciato con l’insulina, ho ripreso a scrivere e anche questo ha permesso il contatto. La scrittura e il rapporto con il corpo fisico mi hanno ricordato che c’ero. Questa presa di coscienza, oggi, mi porta a vedere cosa mangio indipendentemente dal Diabete di Tipo 1, cosa che dovrebbero fare anche i normoglicemici. Ho preso coscienza di me anche grazie al diabete. Definisco la scrittura terapeutica perché mi ha ridato la vita e gli occhi per vedere. Quando ho ripreso l’insulina sono tornata a vedere meglio, perché l’iperglicemia causa anche scompensi alla vista, mi sono chiesta “che cosa è successo? Che cosa mi sono fatta?”. La scrittura per me è stata un tornare indietro e capire cosa fosse successo e riscrivere la storia dal momento dell’esordio. È stato uno scavare per comprendere».

“Vedo il mio corpo non più come qualcosa da proteggere ma come un veicolo per essere felice”

Jessica ha ricompreso il suo corpo «con il tempo, con la pazienza e con l’amore. Dopo questi anni di malattia che non avrà fine – a meno che non trovino la cura – ho capito che queste tre cose vanno a braccetto con la presa di coscienza, con l’accettazione, con la consapevolezza».

Dopo la fase dell’allontanamento dalle persone che componevano la sua quotidianità, c’è stata la scelta dei compagni di viaggio e dei compagni di condivisione da integrare nella vita di adesso, quella della ricomprensione e della consapevolezza. «Gli amici ormai sanno tutto. Io stessa sia nella vita che sul blog parlo del diabete in modo molto ironico. La malattia fa parte di me e adesso anche di loro. Il mio T3, che è il mio compagno Nicola, l’ho conosciuto tramite un progetto che abbiamo fatto insieme sul diabete, quindi è arrivato prima al diabete che a me. Lui ha iniziato a informarsi tantissimo e anche io ho iniziato a parlare moltissimo dei T3, perché in qualche modo diventano anche loro diabetici di riflesso vivendo a contatto con un T1. È una persona speciale per me, perché non si tira mai indietro e mi sprona sempre a fare cose nuove, come lo sport. Lo scorso sabato abbiamo fatto 110 chilometri in bicicletta con una glicemia perfetta, è stato commovente. In due sicuramente è un bel diviso e pesa meno. Sono fortunata ad avere queste persone al mio fianco, si sente che ci sono. Il mio corpo ha avuto per tutti questi anni delle modifiche molto forti e non è da molto che ho iniziato a vederlo in maniera positiva, c’è voluto tanto tempo. Nell’ultimo anno, soprattutto negli ultimi mesi, vedo il mio corpo non più come qualcosa da proteggere ma come un veicolo per essere felice. Più riesco a prendermene cura, più di riflesso io sono felice. L’ho fatto, provando varie esperienze, percorsi, sport. Ci sono riuscita sbagliando, prendendo delle strade che non andavano bene per me, avendo delle glicemie orrende, sbagliando un sacco. È stato l’unico modo per capire qual era il mio limite, quanto potevo spingere, quanto potevo prendere dal mio corpo. Cosa che non avrei mai fatto senza Jack. Jack è il mio diabete, l’ho chiamato così perché lo psicologo mi aveva detto di dargli un nome e una forma, uno spazio in casa, per iniziare a parlare con lui. E da lì ho iniziato a vedere questa malattia fuori da me, a farci pace e a fare la sua conoscenza. In una giornata di quelle terribili mi sono detta una frase davanti allo specchio ed è una frase che dico sempre alla community: “non sei una cattiva diabetica, ma sono solo cattive giornate”. Me lo sono detta perché ne avevo bisogno e avevo bisogno di lasciar andare».  

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