La casa in collina

“La casa in collina” di Pavese ci ricorda che non tutto è bianco e nero, neanche in guerra

Fuori dalla porta il fragore delle bombe e agli occhi una città, quella di Torino, ferita dalla violenza di una guerra che sembra non avere fine. Dentro di sé, invece, l’inadeguatezza di un’esistenza che non riesce a trovare un luogo adatto a sé, frastornata dall’infinito movimento per la ricerca di una pace che non c’è e non arriverà mai, a tal punto da compiersi nel suicidio.

Corrado, infatti, è Cesare. Manca sicuramente il piccolo Dino nella realtà, ma sono ben presenti invece le altre tensioni, personali ed esistenziali, che porteranno Pavese alla continua ricerca di una pace quasi impossibile, perfettamente descritta nel suo diario personale.

Ne La casa in collina il protagonista, un insegnante torinese, si rifugia sulle colline circostanti per sfuggire ai bombardamenti che giorno dopo giorno devastano la città e qui passa il tempo in compagnia di altre persone in fuga. 

Tra queste ritrova un suo vecchio amore non del tutto superato, Cate, ora mamma del piccolo Dino che potrebbe essere suo figlio, anche se non lo saprà mai con certezza. Il protagonista rimane qui fino alla retata dei nazisti che lo costringe a fuggire e a rifugiarsi in un convento, per poi fuggire nuovamente.

In questo continuo movimento, fisico e spirituale, Corrado non troverà mai la spinta necessaria con cui prendere parte allo scontro armato insieme ai partigiani, quegli stessi combattenti nelle cui fila non prenderà mai parte neanche Cesare, che sarà poi però logorato dai sensi di colpa: molti suoi amici perderanno la vita nella lotta al nemico invasore e lui stesso, intellettuale di spicco, vorrà e dovrà trovare una sorta di difesa personale per quella che molti non aspettarono a definire vigliaccheria.

Proprio l’incapacità di assumersi la responsabilità – della guerra e della genitorialità – è la protagonista assoluta di una delle opere più riuscite e, a mio avviso, più complete di Pavese.

Corrado è consapevole del proprio limite: l’incapacità di prendere parte attivamente ad una vita che in quegli anni lo obbliga a imbracciare il fucile e uccidere il nemico, fascisti e nazisti. Ma il nemico è un essere umano, esattamente come noi e i cadaveri, una volta distesi a terra, non hanno più bandiere né colori:

«Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante».
«E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero».

Questa è la conclusione del romanzo e ci dice moltissimo sulla personalità e soprattutto sulla sensibilità di Pavese, che l’ha scritto tra il 1947 e il 1948, mentre l’Italia era impegnata a ricucire le proprie ferite e nel Paese l’impianto culturale e intellettuale era dominato dall’antifascismo che si apprestava a raccontare con tutte le proprie forze cosa la guerra aveva rappresentato, in particolar modo attraverso l’esperienza dei partigiani che avevano messo a repentaglio la propria vita per la libertà.

Nonostante ciò, Pavese non si pone limiti di alcun tipo e mette nero su bianco riflessioni che gli costeranno le accuse di codardo e vigliacco, in un rapporto con gli intellettuali comunisti che non sarà mai splendido, anche a causa della sua passione per il mito antico e il mondo irrazionale, tant’è che nel suo diario, il 15 febbraio 1950 scrive:

«Pavese non è un buon compagno. […] Mi sono impegnato nella responsabilità politica che mi schiaccia».

Ciò che resta alla fine del romanzo, dunque, è la luce che l’autore fa sulle debolezze dell’essere umano, in particolar modo sulle sue, che non gli consentirono di uccidere altre persone, anche se queste non si sarebbero fatte alcuno scrupolo, similmente a quanto cantava De Andrè ne La guerra di Piero.

Pavese, in conclusione, racconta con questo libro i suoi limiti e, probabilmente, cerca anche di realizzare un sistema di difesa che però servirà a ben poco: non sarà mai accettato e incluso al completo dai suoi colleghi e non riuscirà nemmeno mai a superare né i sensi di colpa, né l’inadeguatezza.

Di questo si tratta, in fondo, l’incapacità di adeguarsi a un mondo che non ha mai sentito suo, probabilmente sia per incapacità personali, sia perché dall’altra parte nessuno ha mai voluto fargli spazio. Diviene dunque ancora più eloquente il messaggio che ha lasciato prima di togliersi la vita:

«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».