"Stoner", una storia senza alcuna straordinaria rivelazione

“Stoner”, una storia senza alcuna straordinaria rivelazione

William Stoner è un uomo come tanti: spedito dai suoi genitori a studiare agraria, si innamora della letteratura e decide di proseguire gli studi in quel campo. Diventerà professore nella stessa università che lo accoglie da giovane, sposerà una donna che non lo vuole e a cui resta legato infelicemente per tutta la vita. Uno dei suoi più cari amici morirà in guerra. I genitori gli sembreranno per la maggior parte della sua vita da adulto poco più che estranei e moriranno nella vecchia fattoria di famiglia senza lasciare dietro di sé molti ricordi, solo un vago senso di inadeguatezza.

Non succede nulla di interessante o di eclatante in Stoner, eppure a detta di molti è uno dei più bei romanzi americani mai scritti.

C’è qualcosa, nella prosa scarnificata di John Williams, che rende Stoner un romanzo disperato e disperante. Qualcosa che ci riporta alla disarmante ordinarietà del nostro quotidiano, che respinge fermamente quel carattere di presunta unicità nel quale crediamo di essere immersi, e che anzi spesso crediamo sia il faro che guida le nostre esistenze. Stoner riduce la vita a quel che è: una lunga serie di tappe più o meno obbligate, senza grandi picchi in alto né grandi picchi in basso. Difficoltà forse, e incertezze. L’infanzia, la scuola, l’università, gli amici che muoiono, il senso di inadeguatezza in alcuni contesti, le passioni celate e quelle svelate, il sesso vissuto come un goffo mistero, l’incardinamento all’interno di status sociali ben noti, avere a che fare con la madre di tua moglie, con il tuo capo, con il tuo collega, con la malattia dei tuoi genitori e la loro morte. Accadono molte cose, eppure non accade mai nulla di straordinario in Stoner. Il viaggio dell’eroe è piuttosto il viaggio di un anti- Sancho Panza, che invece che la promessa di ottenere un castello accetta con reticenza il prestito del suocero, pur di comprare una casa all’altezza dello status sociale di provenienza della moglie – che la renda non felice, ma meno infelice.

Stoner è probabilmente un romanzo sulla fatica delle campagne e senza dubbio un romanzo sull’amore non corrisposto, sulla tenacia e, come in molti hanno scritto, uno dei grandi romanzi sociali americani. Ma al di là delle sue possibili tematizzazioni, la sua potenza è insita nella capacità di mostrarci che non c’è alcun disvelamento, alcuna straordinaria rivelazione, nessuna avventura nelle nostre vite, solo le nostre vite, che non siamo degli eroi, siamo quello che siamo: persone normali che fanno cose normali, e che spesso lo fanno insieme ad altri, ugualmente ordinari come noi. È per questo che ci inventiamo un sacco di frottole pur di provare emozioni forti, pur di dare un senso alla vita. Stoner ce la restituisce così, privata del senso, clamorosamente sbilanciata verso il basso: l’agro con appena una punta il dolce, il fiele con una percentuale piuttosto bassa di zucchero. Facendoci provare un languore strano all’altezza dello stomaco e una compassionevole tenerezza: ché pure non sono sentimenti forti, ma che sanno essere a modo loro totalizzanti. Svelando quante storie ci raccontiamo pur di vivere e, per legge del contrappasso, mostrando il fianco a una citazione di un immenso autore irlandese, che con le sue opere cercava di dire dello stesso mitico incantamento alla ricerca del senso in cui siamo immersi:
“We always find something, eh Didi, to give us the impression we exist?”
“Yes, yes, we’re magicians”[1].

 

[1] Beckett, Aspettando Godot

Recensione di John Williams, Stoner, edizioni Oscar Moderni Cult pp 277. Prima edizione americana 1965