grassofobia

Grassofobia. «I pazienti devono sostenere il peso delle terapie, non quello (infondato) della colpa della malattia», Edoardo Mocini

Nel racconto complesso e crudo dei corpi, più volte abbiamo scelto di soffermarci sul racconto dei corpi grassi e lo abbiamo fatto attraverso le storie di chi ha voluto raccontarsi, come nel caso di Sara, o attraverso lo storytelling di evastaizitta. Abbiamo parlato anche delle difficoltà relative alla percezione o al rifiuto del corpo nei casi di DCA con la psicoterapeuta Alessandra Moreschini.

Questa volta con Edoardo Mocini, medico specialista in Scienza dell’Alimentazione, siamo tornati sui nodi della cultura grassofobica più difficili da sciogliere, così da raccontare questi corpi attraverso le parole di chi li incontra quotidianamente in maniera autentica nelle loro fragilità, storie e obiettivi, lontano dalle stigmatizzazioni e dalle semplificazioni sociali.

Il suo approccio terapeutico sposta il focus dal peso alla salute dei pazienti e delle pazienti, perché «il danno più grande della diet culture è quello che porta le persone, trovandosi in questo stato di invivibilità, ad essere disposte a tutto pur di scendere di peso e questo tutto non fa bene alla salute nella gran parte dei casi».

Nella divulgazione su Instagram ripeti spesso che è importante saper scindere il concetto di peso da quello di estetica così come capire che la salute della persona non è riducibile al suo peso. Quali altri fattori vanno considerati?

La salute di una persona non dipende esclusivamente dalla sua salute organica. Se ci rifacciamo alla definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la salute è un completo stato di benessere organico, psicologico e sociale, non la mera assenza di malattia.

Il peso è un indicatore di salute fra tanti, si utilizza nella valutazione della salute della persona, ma non si può ricondurre la valutazione clinica di un paziente esclusivamente al peso. Nella nostra società la diet culture, mascherata come ricerca di salute, si è imposta con l’idea che meno peso abbiamo meglio è. In realtà, quando una misura diventa un obiettivo si perde di vista il focus principale che è la salute. Gestire esclusivamente il peso non vuol dire tutelare la salute delle persone.

La diet culture ha costruito dei falsi miti in materia di alimentazione. Quali sono i più pericolosi o comunque i più scorretti?

Uno dei più diffusi è sicuramente la carbofobia, l’idea che i carboidrati facciano male o facciano ingrassare (cosa ovviamente falsa). È l’apice della fissazione per l’esclusiva componente nutrizionale, la fissazione per calorie e nutrienti. Le stesse politiche europee stabiliscono di dover informare il consumatore delle componenti nutrizionali, che va bene, ma il consumatore ha poi gli strumenti per interpretare quelle etichette?

Forse bisognerebbe spostare in parte il focus dalla componente nutrizionale dell’alimentazione alla creazione di un pattern alimentare, magari basato sulla dieta mediterranea, alla cui base c’è la convivialità e la stagionalità. Elementi che in fondo non hanno a che fare in maniera diretta con la parte nutrizionale degli alimenti, ma che forniscono delle regole generali che, se applicate, permettono di stare bene anche dal punto di vista nutrizionale.

Ad esempio: “mangia anche insieme alle persone care”,  “rispetta la convivialità”, “vivi la stagionalità” in modo da ruotare su tutti i frutti e tutte le verdure. Le prime due sono regole che permettono una buona alternanza tra alimenti della quotidianità e alimenti della “festa”, che magari non sono perfetti dal punto di vista nutrizionale ma che rappresentano eccezioni e ci consentono di imparare a godere di alcuni alimenti durante le feste così da non cercarli nella quotidianità. Questi sono esempi banali ma danno regole generali che permettono di avere anche un miglior apporto nutrizionale. Invece noi siamo molto concentrati – e in parte dipende anche da alcuni professionisti – sull’aspetto delle calorie o su quello dei nutrienti, quando invece è molto più utile costruire la dieta e lo stile di vita nel suo complesso.

Esiste un forte pregiudizio riguardo alle patologie alimentari: si tende a sminuirle dal punto di vista medico e ad inserirle in una cornice colpevolizzante e moralista sotto il profilo sociale.

Sì, esiste meno per quanto riguarda i disturbi del comportamento alimentare anche se purtroppo molte persone li reputano ancora dei capricci.

Verso le persone con corpi grassi e verso le persone affette da obesità il pregiudizio, però, è sconvolgente. A mio parere, è l’ultima categoria di persone discriminata in una maniera che la società considera “accettabile”. Dal punto di vista scientifico sappiamo con certezza che l’obesità è una patologia multifattoriale e che le cause che portano ad un eccesso adiposo, anche quando causato da uno squilibrio calorico, sono tantissime.

La causa non è la pigrizia, l’indolenza o la golosità, ma un ventaglio di cause: genetiche, biologiche, sociali, economiche, psicologiche, psichiatriche, ortopediche e così via.

C’è un ventaglio infinito di possibili storie, mentre invece la rappresentazione stereotipica dell’obesità racconta una persona che ha mangiato troppo o che si è mossa troppo poco, semplicemente perché le andava.

La rappresentazione dei corpi grassi o considerati non conformi è sicuramente stigmatizzante, non tiene conto dell’interezza e della complessità di una persona: l’essere grassi diventa la caratteristica definitoria. Quali sono gli effetti che riscontri nei tuoi pazienti?

Un contesto sociale in cui il corpo grasso è così fortemente stigmatizzato predispone il paziente a fare qualunque cosa per uscire da questa “situazione” nel minor tempo possibile.

Succede quello che dicevo prima: il peso, che è una delle possibili misure dello stato di salute, diventa invece l’unico criterio, mandando in tilt il percorso, anche perché si genera una “domanda” alla quale il Servizio Sanitario Nazionale non è in grado di rispondere per offrire delle soluzioni. Se il 50% della popolazione è in sovrappeso e un 10% è costituito da persone con obesità o meglio con BMI alto (perché la diagnosi con BMI è molto impropria), è ovvio che il SSN dovrebbe fare un investimento massivo per prendersene cura in maniera organica o per prevenire attraverso l’educazione nutrizionale. Ma siccome non lo fa si crea la domanda, con il risultato che un’enorme quantità di persone si trova in una situazione che in alcuni casi può rappresentare un rischio per la salute e che contemporaneamente la società reputa una colpa. Un cortocircuito in cui alla fine a rimetterci è salute delle persone.

L’insostenibilità di questa situazione deriva dal contesto sociale, da cui la diet culture e le pratiche incongrue. Il danno più grande è quello che porta le persone, trovandosi in questo stato di insostenibilità ad essere disposte a tutto pur di scendere di peso e questo tutto non fa bene alla salute nella gran parte dei casi.  

Quale tipo di approccio utilizzi nei casi di pazienti disposti a tutto?

Quando mi viene detto “voglio scendere di peso”, rispondo che non faccio scendere di peso le persone. Mi capita di fare una battuta, se il solo fine fosse far scendere di peso basterebbe tagliare un braccio, no? Io non voglio che scendano semplicemente di peso, voglio che stiano meglio. Può darsi che nella gestione dello stato di salute, nella valutazione diagnostica e poi nella proposta terapeutica si possa anche scendere di peso, ma non deve essere l’obiettivo ultimo.

L’obiettivo è individuare dei punti di fragilità nello stile di vita e nelle terapie in atto e cercare di rimuovere gli ostacoli che si frappongono tra noi insieme – cioè tra me e il paziente o la paziente – e l’obiettivo. Finché si tiene il peso come obiettivo è molto difficile raggiungerlo perché il peso, da solo, è un pessimo indicatore sia dello stato di salute che del dimagramento, perché la composizione corporea non segue il peso. Ad esempio una persona che si allena molto può addirittura salire di peso, perdendo massa grassa e aumentando quella magra. Sostanzialmente cerco di spostare il focus dal peso alla salute e magari dal peso ideale si arriverà ad un concetto più ampio che è quello del “miglior peso”.

Il miglior peso per una persona non è quello che porta il rapporto peso-altezza a 22,5 – quella è statistica. Il miglior peso è il compromesso di salute biologica, psicologica e sociale, ovvero il peso in cui sta meglio, che potrebbe anche essere quello di partenza!

Prima parlavi dell’inadeguatezza del Servizio Sanitario Nazionale nel rispondere al problema, quanto è carente allo stato attuale?

Lo è enormemente, ma in generale ha delle grandi difficoltà nella gestione dei pazienti cronici. La situazione di un paziente con obesità o con DCA, anche se non è sempre cronica, è comunque di medio-lunga durata. Gli ospedali, lo abbiamo visto nell’ultimo anno, riescono a rispondere bene nel trattamento dell’acuto, ma la gestione del cronico richiede tempi e mezzi che spesso non sono all’altezza della situazione.

Abbiamo uno dei migliori SSN al mondo ma in alcuni ambiti clinici le risorse sono insufficienti. È difficile fare delle sedute di fisioterapia, allo stesso modo è difficile avere delle visite di dietoterapia, manca un’efficace gestione del cronico.

Mi sembra di capire che parte del tuo lavoro sia anche preservare l’identità dei pazienti e delle pazienti che rischia di essere appiattita sugli stereotipi creati della cultura grassofobica. Quanto è importante il sostegno psicoterapeutico in questo percorso?

È fondamentale. Nel caso di persone con DCA è imprescindibile, in questi casi non seguo proprio pazienti che non accettano di fare anche psicoterapia. Nel caso di persone che hanno problematiche alimentari ma non specificamente diagnosi DCA, ma c’è da parte mia un sospetto di disturbo del comportamento alimentare, consiglio sempre e comunque un sostegno psicoterapico.

Immagino appunto che la mancata accettazione induca a quella volontà di fare di tutto pur di scendere di peso, di cui parlavi prima, e che questo abbia una rilevanza importante nel percorso che fate insieme. 

Nel mio caso la divulgazione che faccio su Instagram funziona come una sorta di introduzione al mio pensiero, quindi i pazienti che vengono da me alcune cose le hanno già in parte interiorizzate. Capita spesso, comunque, che debbano essere smontati dei falsi miti. A volte quando chiedo il motivo della visita ai pazienti e alle pazienti, mi rispondono di non riuscire più a guardarsi allo specchio e la mia risposta è “capisco questa situazione, la comprendo, ma prendiamo in considerazione che il non riuscire a guardarsi allo specchio possa in parte dipendere dal fatto che viviamo in una società grassofobica. Non deve essere per forza così, ma prendiamolo in considerazione”.

Altra cosa molto importante che tengo a dire ai miei pazienti e alle mie pazienti è che devono sostenere il peso della patologia e delle terapie, non quello (infondato) della colpa della malattia. Pesano troppo tutte e due insieme. Io posso fare le migliori proposte terapeutiche e supportarli per tutto quanto mi sia possibile, ma la terapia poi la portano avanti loro e il peso della colpa della malattia devono lasciarlo lì. Se non ce la fanno, a maggior ragione, un percorso psicoterapico può aiutare.

Potrei avere una percezione sbagliata, ma rispetto alla bulimia e all’anoressia, a cui accennavi prima, mi sembra che queste vengano inserite all’interno di una narrazione pietistica, mentre invece l’obesità sia raccontata attraverso discorsi colpevolizzanti e accusatori.

In parte, ma anche nei confronti del DCA, in alcuni casi purtroppo anche da parte della famiglia che vive momenti di disperazione e frustrazione, ci può essere la sensazione che si tratti di una sorta di capriccio o di un tentativo di attirare l’attenzione. Quindi non sempre viene compreso, allo stesso modo rispetto all’obesità, parte del mondo clinico se non acquisisce una narrazione colpevolizzante ne acquisisce una pietistica, del tipo: “le persone con obesità hanno tanti problemi psicologici, prima va curata la testa”. Anche questa è una narrazione sbagliata, semplicistica e pietistica. Io non voglio passare questo concetto.

Quindi come racconti le persone con obesità?

Come persone. Persone con tutte le sfumature del mondo che hanno una condizione clinica molto complessa che alcuni chiamano patologia, altri sindrome. È molto difficile che ci sia un percorso uguale ad un altro che le abbia portate ad avere questa patologia. Possono essere simili, ma ogni percorso è unico come lo sono le persone.

In questo senso anche la rappresentazione dei corpi grassi sui media è indicativa.

La rappresentazione stereotipica del corpo grasso è uno spunto di riflessione, anche per far capire alle persone che il loro “non riesco più a vedermi allo specchio” forse dipende anche dal fatto che non esiste alcuna rappresentazione di quel corpo. È chiaro che non ti ci vedi, non esisti, non ci sei, accendi la tv e non ci sei. Sono tutti magri e quando sono grassi fanno solo ridere, uomini o donne che fanno comicità, che mangiano, che vivono con pigrizia. Sembra impossibile che esista una donna con un corpo grasso che vive una vita piena e che non fa riferimenti al suo essere grassa. Non per forza tutto deve essere riconducibile a quella caratteristica, non lo accetteremmo nel caso di una persona nera, lo troveremmo profondamente riduttivo della sua persona. Lo accettiamo nel caso delle persone grasse perché in fondo crediamo sia colpa loro.

La cultura della dieta è uno degli slogan più intrusivi della società dei consumi e non fa che rafforzare stereotipi e canoni di bellezza irreali e irrealizzabili. Quale potrebbe essere una lettura utile per decostruirla e quindi depotenziarla?

Per esempio non considerando la dieta qualcosa che si può trovare su un giornale, ma come uno strumento clinico molto complesso. Non è qualcosa che si fa a cuor leggero, è qualcosa di potente. Il Minnesota Starvation Experiment, ad esempio, ha dimostrato le conseguenze psicologiche del taglio di calorie. Una dieta ipocalorica ha un impatto sulla vita delle persone, a volte può essere necessario farla, ma va fatta in un contesto di sicurezza e controllo clinico, in un contesto che non valuti come unico indicatore di salute o di successo di un’eventuale terapia il numero su una bilancia, ma che metta al centro della valutazione – come in ogni ambito clinico – la persona, i suoi bisogni, le sue esigenze e le sue caratteristiche uniche.