death education e pedagogia

Death Education e pedagogia. «I bambini riescono a parlare di morte già a tre anni», Anna Spiniella

Anna Spiniella, (pedagogiadelvento) è educatrice e pedagogista. Durante la laurea in Scienze dell’Educazione incontra la letteratura per l’infanzia e l’adolescenza. Da circa dieci anni si occupa di death education e pedagogia, lavorando anche attraverso gli albi illustrati ed è educatrice in un hospice pediatrico a Milano, Casa Sollievo Bimbi (Associazione VIDAS). «Mi occupo della relazione, che è il fulcro della pedagogia, quindi anche di lutto perché ha a che fare con la relazione che cambia e si trasforma dopo la morte».

«I bambini riescono a parlare di morte già a tre anni»

«Indipendentemente dal fatto che si sia verificato o meno un lutto all’interno del nucleo famigliare, è più frequente, ad esempio, che incontrino un uccellino morto sul marciapiede, i bambini riescono a parlare di morte già a tre anni. Questa è l’età delle grandi domande esistenziali a cui i genitori spesso faticano a dare risposte oggettive. Le domande dei bambini in questa fase evolutiva sono molto semplici, si ha la possibilità quindi di affrontare con loro la questione in maniera dolce, soprattutto se l’oggetto delle domande riguarda un uccellino sul marciapiede. È vero che può esserci del turbamento emotivo, ma è minimo se si confronta a quello che potrebbe esserci nel caso di un lutto. Il mio consiglio è quello di affrontare l’argomento, a prescindere dall’età, quando ne abbiamo l’occasione, cioè nel momento in cui è il bambino a porci la domanda. I bambini ci pongono sempre delle domande, siamo noi che facciamo fatica ad accoglierle e poi ci ritroviamo, come è successo in questo periodo a causa del Covid, ad affrontare l’argomento quando il bambino è alle scuola primaria e quindi a dover rispondere a domande di una pesantezza diversa.

Ripeto, i bambini sono pronti ad avere le risposte quando pongono le domande e saranno pronti a capirle e a coglierle nella misura del loro livello cognitivo. È importante utilizzare termini semplici, inequivocabili e concreti, legati alla spiritualità ma possibilmente slegati dalla religiosità. È necessario parlare di spirito perché quando una persona muore ciò di cui si sente la mancanza è la presenza di uno spirito. Si può parlare di spiritualità anche nei casi in cui la famiglia non è religiosa, ma le persone religiose, a loro volta, dovrebbero essere in grado di ricondursi a uno stato di concretezza perché il bambino è molto pratico in questa fase dello sviluppo. Immagini come “è volato in cielo”, “è andato in paradiso” o tutte le affini disorientano il bambino.

Non si parla mai di cimiteri, eppure è importante per il bambino sapere quanto meno che il corpo è lì, lo aiuta a comprendere dov’è fisicamente quella persona. Poi, in base all’orientamento religioso, possiamo anche aggiungere dov’è – secondo noi – lo spirito della persona morta, sottolineando però che quella è una nostra fede, una nostra convinzione, e che la sua può essere diversa dalla nostra.

Dall’altro lato, in una società sempre più atea come la nostra, spesso i genitori mi dicono di essere fermamente convinti che dopo la morte non ci sia nulla, assolutamente nulla, e quindi mi chiedono cosa fare perché non possono dirlo al figlio o alla figlia. Non serve arrivare a mentire, ma si può dire semplicemente loro “non so cosa ci sia dopo la morte, potremmo anche parlarne insieme”».

«Riusciamo a dare una ritualità al lutto portando i bambini alle cerimonie»

«Molti genitori mi dicono di non riuscire a portare i propri figli alle cerimonie perché non sentono di poter gestire la situazione. Dobbiamo sapere che in questo modo stiamo privando il nostro bambino di un passaggio importante: se un bambino rimane a casa durante il funerale di un nonno, di un fratello, di uno zio o di qualsiasi persona a prescindere dalla prossimità del legame, lo stiamo allontanando da un processo che potrebbe essere più naturale per lui, se vissuto in prima persona.

Ai bambini non traumatizza l’essere presenti, il partecipare e il condividere perché durante i funerali si crea un senso di comunità, che difficilmente, ai giorni nostri, riusciamo a trovare in altre occasioni.

Spesso i genitori si trovano in una condizione di forte spaesamento e in questi casi consiglio di riproporre a loro volta la domanda: di fronte alla domanda del bambino, gli si può chiedere perché secondo lui l’uccellino è fermo e non si muove più. Verbalizzare è fondamentale, anche quando non si ha la risposta alla domanda che pone il bambino, quindi: “io la risposta a questa domanda non ce l’ho”.

Far capire dunque al bambino che anche noi siamo all’interno di un processo di ricerca e che anche noi adulti non abbiamo risposte a tutte le domande. Se questo viene dichiarato in uno stato di tranquillità emotiva, al bambino non crea spaesamento, anzi lo aiuta a capire che siamo tutti in un processo di ricerca e che nessuno di noi ha effettivamente certezze su questo argomento, ma che ognuno di noi può avere delle idee. Non fantasie, ma idee che rimandano a una fede spirituale, non religiosa.

Va bene avere paura della morte, non invece provare angoscia, perché a differenza della paura, che ha dei limiti e dei confini, l’angoscia è legata ad una non conoscenza e potrebbe sfociare in disturbi perché non riusciamo a gestirla. È indispensabile saper definire la morte, senza lasciar spazio a fantasie spettrali».

«Dobbiamo rispondere a una domanda piccola esposta con una frase piccola»

«È vero che il bambino è pronto a parlarne già a tre anni, ma è anche vero che il nostro approccio cognitivo da adulti è completo, sappiamo tutto sulla morte, ma questo tutto il bambino non lo vuole sapere. Bisogna ascoltare la domanda e dare una risposta il più breve, concreta e precisa possibile, rimanere legati alla domanda, a ciò che il bambino vuole davvero sapere.

Non ha bisogno dello “spiegone esistenziale” perché i bambini attraversano diverse fasi di sviluppo anche rispetto a questo: inizialmente, dai 3 ai 5 anni, il bambino inizia a comprendere il concetto di cessazione degli funzioni vitali e, se la sua comprensione è limitata a questo, noi non dobbiamo spingerci oltre. Il suo sviluppo deve procedere in autonomia, un passo alla volta.

Per questo si fanno progetti di death education solo con professionisti che hanno questo tipo di formazione, ovvero i tanatologici. Il rischio è quello di andare ad anticipare le fasi di sviluppo creando angoscia e traumi. Un bambino che si è fermato alla cessazione degli organi vitali deve raggiungere in autonomia i concetti di irreversibilità e universalità della morte, non può farlo qualcun altro per lui, perché non è detto che sia pronto a sentirselo dire.

Non sono concetti che vanno anticipati, tranne nei casi di lutto di persone prossime, come un amico, la mamma, il papà. La fase dell’irreversibilità e dell’universalità solitamente vengono raggiunte dopo dal bambino, tendenzialmente dai 6 ai 10 anni. È una consapevolezza che non è detto che i bambini piccoli abbiano e non è detto che sia bene che loro abbiano. Se ne parlano con amici e coetanei va bene, perché è una relazione tra pari, però non dobbiamo essere noi a sostituirci: dobbiamo soltanto rispondere a una domanda piccola esposta da un bambino con una frase piccola, che deve essere personale ma composta da poche parole.

Gli stessi albi illustrati vanno maneggiati con cura, ecco perché il nome del laboratorio in cui leggiamo e commentiamo albi illustrati è Fragile, maneggiare con cura: dobbiamo conoscere in profondità il bambino a cui lo stiamo leggendo e sapere cosa sa e cosa non sa della morte. Solitamente infatti faccio formazione agli insegnanti, perché soltanto loro possono conoscere la conformazione della classe e i bambini che ne fanno parte. All’albo illustrato, che è uno strumento molto delicato, non va delegata la competenza educativa».

«Se il tabù sulla morte è enorme, quello relativo al lutto perinatale è ancora più grande perché è legato alla questione della definizione della vita»

«Ho investito molto sul Master, seguito all’Università di Padova, Death studies & the end of life for the intervention of support and the accompanying. In quanto pedagogista mi occupo delle relazione, aiutando gli adulti a migliorare la gestione delle loro relazioni durante la fase del lutto.

Attraverso il Master ho realizzato un project work sul lutto perinatale, occupandomi solo ed esclusivamente delle mamme e dei papà, perché nel lutto perinatale sono coinvolti anche genitori alla prima gravidanza. Per questo, mi sono avvicinata all’Associazione gestita da Claudia Ravaldi, Ciao Lapo, che si occupa appunto di lutto perinatale. È un tema che mi sta molto a cuore, tra l’altro, come si usa dire, sono anch’io una bambina arcobaleno, cioè una seconda primogenita perché mia madre ha perso un bambino prima di me.

Sono riuscita a comprendere meglio cosa abbia potuto vivere mia madre agli inizi degli anni Novanta quando, forse ancora più di adesso, il lutto perinatale era un tabù. Ora se ne sta iniziando a parlare, dando una dignità alla perdita perché si riconosce dignità alla relazione, che non è per tutti uguale. In alcune donne e in alcuni uomini si crea una relazione con l’embrione e quindi poi il lutto va accolto ed elaborato. Torniamo sulla ritualità: il lutto perinatale è un terreno scivoloso, perché non si sa bene cosa fare, non si conoscono i diritti della coppia, alcuni ospedali lo dichiarano, altri no. In realtà, fin dai primissimi giorni, si può anche scegliere di avere il prodotto del concepimento e di consegnarlo a un’agenzia funebre per la sepoltura.

Non significa che per tutti debba essere così, ma è una possibilità e quasi nessuno lo sa, Ciao Lapo fa molta divulgazione anche su questo piano. Dare un luogo, uno spazio fisico a queste persone nel proprio albero genealogico vuol dire unire tanti piccoli pezzetti fondamentali per la costruzione della propria identità. Ad esempio, io non mi sento la primogenita, ho sempre avvertito la sensazione di avere qualcuno prima di me.

Le nostre famiglie sono costellate da queste perdite, però non se ne parla: se il tabù sulla morte è enorme, quello relativo al lutto perinatale è ancora più grande perché è legato alla questione della definizione della vita. È la società, addirittura, a decidere per una coppia quando è giusto stare male e quando invece è esagerato. Quando anni fa facevo la tata mi capitava di parlare molto con le mamme riscontrando che il tabù sul lutto perinatale e la discriminazione nei confronti del dolore altrui, più in generale, è un problema che fonda le sue radici nell’empatia, perché non riusciamo a entrare in relazione con quel dolore e a connetterci con la persona che sta soffrendo. Entrare in empatia con chi sta soffrendo un dolore che un giorno potremmo vivere anche noi è difficilissimo, quindi ci blocca nella relazione, portandoci a non fare quel passo verso l’altro».

Casa Sollievo Bimbi

«Sono educatrice in un hospice pediatrico, Casa Sollievo Bimbi, e mi occupo dei bambini ricoverati presso la struttura, delle famiglie, dei fratelli e delle sorelle di questi bambini. Siamo spesso a contatto con la morte, nonostante l’hospice pediatrico sia diverso da quello per gli adulti, che è sostanzialmente accompagnamento al fine vita.

Casa Sollievo Bimbi però non è soltanto accompagnamento, ci sono anche altri servizi: come la presa in carico e valutazione di bambini con patologie inguaribili, prescrivibili alle cure palliative pediatriche. Vengono ricoverati – anche bambini molto piccoli – nel caso in cui viene fatta una diagnosi o vengano messi presidi supporto alla respirazione e all’alimentazione, e i genitori hanno bisogno di tempo per essere formati e per elaborare la diagnosi di un peggioramento. Abbiamo un’altissima percentuale di bambini ricoverati per questi motivi. Sostanzialmente sono tre le tipologie di ricovero: di rivalutazione o presa in carico delle cure palliative pediatriche, di sollievo, di accompagnamento al fine vita.

Nel primo caso si parla di una presa in carico olistica, perché è insieme spirituale, medica, sociale, educativa e riabilitativa. Non è meramente assistenziale. Nel secondo caso, invece, il bambino viene preso in custodia da noi per periodi brevi, come magari una o due settimane, per dare modo ai genitori di fare le cose più disparate, dall’operazione chirurgica alla vacanza o stare semplicemente a casa senza avere h24 un’altra persona di cui prendersi cura. Non è un servizio a cui si accede a cuor leggero, al contrario, e viene sfruttato soprattutto d’estate da famiglie che magari non hanno un unico figlio e che quindi hanno bisogno di tempo per dedicarsi ai fratelli e alle sorelle.

Infine, l’accompagnamento al fine vita, ovviamente, è la parte più complicata. Arrivano bambini da tutta Italia, come malati oncologici e malattie rarissime. In questi casi sostanzialmente siamo presenti in stanza, ma nella giusta misura. Lo definiamo il processo dello stare. Quando entriamo in stanza, entriamo in casa loro, parliamo di persone che rimangono fuori casa per moltissimi mesi, a volte fino a un anno e quindi quella stanza diventa la loro casa. Cerchiamo di non farli sentire soli, anche se i loro cari sono a chilometri e chilometri di distanza, infatti spesso sono presenti soltanto mamma, papà e bambino o bambina. A meno che non siano persone di Milano e in questi casi capita che vengano anche amici e parenti. Però manca la dimensione del “vengo e faccio compagnia” come invece può accadere in ospedale. In hospice si entra in punta di piedi».