Spesso abbiamo scelto di raccontare il dolore fisico che alcune persone sperimentano durante la quotidianità prestando ascolto alle loro parole con l’obiettivo di renderlo visibile e, soprattutto, legittimo. Abbiamo parlato di endometriosi attraverso la storia di Gloria, della necessità di de-stigmatizzare le mestruazioni problematizzando la normalizzazione del dolore mestruale con Chiaradicecose, del silenzio assordante provocato dall’assenza di un figlio, reso insopportabile dallo stigma che circonda l’infertilità.
Oggi, con Federica Nisi, scegliamo di far luce su una sindrome di cui si parla ancora troppo poco, riflettendo su corpo e vulvodinia. Oltre ad essere accompagnata da questa condizione – «perché non mi piace utilizzare il termine “soffrire”, è qualcosa che ti accompagna per tutta la vita o solo per una parte» – Federica (@just_a_little_scream) si occupa di divulgazione da anni. Con lei abbiamo cercato di comprendere cos’è la vulvodinia, come si modifica la vita delle persone che ce l’hanno e perché è necessario chiedere a gran voce i propri diritti in un Paese dove l’esistenza di patologie e sindromi croniche è riconosciuta sulla carta, ma i pazienti e le pazienti si trovano a dover affrontare il percorso di cura in solitudine.
Ti va di raccontarci la tua esperienza con la vulvodinia?
Ho iniziato a stare male nel 2009, allora c’era un solo forum che parlava di vulvodinia e io non avevo la minima idea di cosa mi stesse succedendo. Ho continuato a stare male per quattro anni, nei quali mi è stata diagnosticata anche l’endometriosi, un periodo in cui sono stata il primo medico di me stessa, perché come tutte le persone che hanno una patologia o una sindrome non riconosciuta dal Servizio Sanitario Nazionale ho dovuto fare autodiagnosi.
Una ginecologa mi ha prescritto il primo farmaco dicendomi che obiettivamente non sapeva cosa avessi perché i miei esami erano a posto. Da lì ho iniziato a fare delle ricerche su internet rendendomi conto che quel farmaco veniva prescritto per la vulvodinia. Osservavo i sintomi scoprendo mano a mano di averli tutti, ma all’epoca c’erano tante voci, tante storie disperate e io non avevo la forza di leggerle per cercare di ricavare qualcosa che potesse aiutarmi. Avevo già il mio carico emotivo, non riuscivo ad assorbirne altro.
Nei quattro anni precedenti alla diagnosi, scoperta grazie a una dottoressa specializzata, mi sono sentita sola come non mai perché avevo un compagno che non comprendeva fino in fondo la mia condizione. Io stessa non capivo, le mie amiche non capivano. Non ho mai avuto tabù, ne parlavo con tutti cercando una mano però mi rendevo conto che quando dicevo, ad esempio, «stasera non riesco ad uscire perché sto male» molte persone si allontanavano. Ho perso tantissime amicizie. Dopo la diagnosi il mio compagno mi ha detto: «stai tranquilla, risolviamo tutto» e quella frase mi ha fatto accapponare la pelle perché avevo già capito, infatti dopo una settimana mi ha confessato che non sapeva se ce l’avrebbe fatta.
È a partire da questa solitudine che hai scelto di avvicinarti alla divulgazione aprendo il tuo profilo social?
La cura che mi era stata prescritta mi faceva peggiorare, sono passati altri due anni prima di incontrare il medico che ha individuato il percorso terapeutico adatto a gestire la sindrome. Una volta intrapreso, le cose hanno iniziato ad andare meglio ma continuavo ad avvertire un forte senso di solitudine. Pensavo continuamente che non esisteva un posto dove le persone potessero incontrarsi e parlare, era tutto online. A quel punto ho proposto alla dottoressa da cui ero in cura di costituire un gruppo di auto mutuo aiuto, il “Gruppo Ascolto Vulvodinia”, con il quale organizzavamo incontri mensili nell’associazione di cui lei faceva parte. Questo è stato il mio primo passo verso la divulgazione e l’aiuto tra pari. Tutto è nato dalla solitudine, non volevo che nessun altro si sentisse come mi ero sentita io o che vivesse l’inferno che io ho vissuto per quattro anni: non riuscivo più a sedermi, a mettere gli slip, a mangiare.
A partire da questa esperienza ho deciso di iscrivermi al corso di laurea in Scienze dell’Educazione con l’idea di scrivere una tesi sull’impatto sociologico che la vulvodinia ha sulle persone, perché almeno in Italia non ci sono studi in merito. In contemporanea, un anno e mezzo fa, ho iniziato la divulgazione sui social. In questi anni ho studiato tanto, ho letto molte ricerche internazionali, perché credo che la conoscenza sia la forma di tutela più grande che abbiamo. Mi sono resa conto che di questa sindrome non si parlava o lo si faceva in maniera tragica. Io mi colloco a metà strada tra il catastrofismo e l’ottimismo utopico: sono realista. Ho seguito il desiderio di creare un posto dove si potesse approdare e comprendere che, sebbene non esista una cura definitiva, molte persone sono migliorate, qualcuna è guarita. Che poi dipende come si intende la parola guarigione: è difficile pensare di tornare alla vita di prima, ne ho sentite un paio forse di storie così, ma riuscire a eliminare i farmaci o ad avere una qualità di vita migliore è un aiuto importante.
Puoi aiutarci a capire che cos’è e come si manifesta la vulvodinia?
La vulvodinia non è né una malattia né una patologia, è una sindrome. È caratterizzata da una varietà di sintomi che si verificano insieme, di solito, sebbene possano anche emergere a distanza di tempo l’uno dall’altro. Mentre la malattia ha una causa isolabile, univoca e accertabile i sintomi della vulvodinia non sono ancora stati ricondotti ad un’unica causa. L’eziopatogenesi, ossia lo studio delle cause e dei meccanismi di funzionamento, è ancora in corso di studio perché manifestandosi in maniera differente non si è ancora capito bene come funzioni.
Colpisce la vulva, ma può colpire parti della vulva differenti. I sintomi più comuni sono riconducibili a una sensazione di spilli, bruciore, scariche elettriche, dolore durante i rapporti e abrasioni, anche se le mucose non hanno segni visibili. L’80% delle persone avverte un dolore localizzato: si parla di vestibolodinia se riguarda la parte che va dal clitoride all’ingresso vaginale, ma può essere circoscritto al clitoride quindi parliamo di clitoridodinia, all’uretra quindi uretrodinia, al coccige, all’ano.
Tanti anni fa si pensava che la vulvodinia fosse un’infiammazione e la chiamavano vestibolite, ma poi si è capito che è un problema neuropatico: il sistema nervoso periferico centralizzato si sensibilizza per ragioni sconosciute e avverte ogni stimolo come doloroso. Il dolore origina di solito dal contatto, ma può diventare spontaneo e cronicizzare – perché succeda bastano sei mesi.
Quali sono le cause individuate fino ad ora?
Diversi studi hanno individuato come cause infezioni vaginali, come ad esempio la candida, cistiti ricorrenti pregresse, traumi come una caduta sul coccige, un pap test troppo invasivo o l’episiotomia, ossia il taglio che può essere effettuato durante il parto. Nel mio caso tutto è partito dall’assunzione di un antibiotico facente parte della classe dei fluorochinoloni. La vulvodinia è una sindrome multifattoriale, perché tanti fattori possono concorrere in diversa misura a generarla. Con il passare del tempo, di solito, si instaurano delle comorbidità perché il sistema nervoso non funziona più come dovrebbe e i muscoli all’interno del pavimento pelvico si contraggono in risposta al dolore, infatti quasi tutte le persone con vulvodinia hanno l’ipertono del pavimento pelvico per questa ragione.
La contrattura dei muscoli non permette un’ossigenazione corretta dei nervi e si instaura un circolo vizioso che rende necessaria la riabilitazione del pavimento pelvico. A volte è necessario un percorso farmacologico, sebbene l’approccio migliore sia quello multidisciplinare. Il farmaco principe per il dolore neuropatico della vulvodinia è nato per la depressione, ma in dosi minime agisce come neuromodulatore del dolore bloccando il segnale doloroso e permettendo, così, al sistema nervoso di reimparare a reagire agli stimoli in modo corretto.
Spesso vengono prescritti integratori a base di acido alfa-lipoico e, ovviamente, la riabilitazione del pavimento pelvico da parte di ostetriche o fisioterapisti e fisioterapiste specializzate a trattare l’ipertono. È importante dire che la vita cambia, bisogna seguire delle norme comportamentali: indossare biancheria di cotone bianco, non utilizzare detergenti intimi ma solo acqua, assorbenti di cotone naturale usa e getta o lavabili, non stare sedute a lungo. La vulvodinia non significa soltanto non riuscire ad avere rapporti, alcune persone con dolore localizzato alla clitoride ad esempio riescono ad averli, ma è logico che anche quello è importante.
A proposito di sessualità, spesso si sente dire che la vulvodinia è paura del sesso. Perché è importante correggere questa affermazione?
Perché non è una sindrome su base psicologica. Suppongo che una persona che ha subito traumi sessuali, violenza o abuso potrebbe svilupparla e questo ovviamente ricade sul fisico. In tanti anni, forse, mi è capitato una volta di sentire una situazione del genere, ma è importante dire che si tratta di una sindrome fisiologica. La paura del sesso è riconducibile al vaginismo che ha basi psicologiche. Questo non gli dà meno dignità di essere, ma considerare in maniera sbagliata le cause e la struttura di una sindrome o una malattia porta a non gestirla in maniera adeguata.
Per intenderci, ho fatto tre anni di psicoterapia e ciononostante i miei dolori non sono spariti. Non ho più avuto le crisi di panico per il fatto di stare male, ma questa è un’altra cosa. Anche nel caso del vaginismo, oltre al percorso psicologico, si fa la riabilitazione del pavimento pelvico ma non è come quella per l’ipertono correlato a vulvodinia. È importante capire che non si tratta di paura dei rapporti, se non si riesce ad averli è perché si sta male.
La vulvodinia non è riconosciuta dal SSN. Cosa comporta questa invisibilità? E quanto grava su chi si trova a convivere con questa sindrome?
Alcune persone affrontano situazioni drammatiche. Le spese sono private per cui dallo specialista ci si va a pagamento e spesso non lo si trova nella propria regione, quindi bisogna pagarsi anche quelli che io chiamo i “viaggi medicina”. Ci sono migliaia di motivi per cui le persone fanno fatica a spostarsi: i soldi, banalmente, oppure non si ha la possibilità di prendere un giorno di ferie. Economicamente tutto questo è devastante, ma comporta delle conseguenze importanti anche a livello lavorativo: oltre ad aver perso dei lavori, nonostante spiegassi sempre cosa avevo e mi assentassi una volta al mese, sono stata chiusa nell’ufficio dal mio capo che ha voluto sapere cosa avessi nei dettagli. Venivo trattata come una reietta. Quando ero lì ero super produttiva, ma a loro non interessava. Andare a lavorare, poi, è uno sforzo devastante.
Io per fortuna non ho figli a cui badare ma questa sindrome ti porta una stanchezza considerevole, perché il corpo è impegnato a gestire la sofferenza e i farmaci non sono certo caramelle. Ho sempre ricevuto le visite del medico della mutua a casa e mi sono rifiutata ogni volta di dire che avevo la cistite, presentavo la mia diagnosi anche a chi ignorava cosa fosse. È importante far capire questo alle persone con vulvodinia perché finché diranno «ho la cistite» potrà essere più semplice, ma non arriveranno dati all’Inps in cui compare la vulvodinia, ad esempio, e non lo saprà la classe medica.
Federica Nisi
Una sindrome del genere produce una rottura autobiografica: non sei più la persona di prima, anche se molti continuano a pensare e sperare di tornare indietro. A questo serve il percorso psicologico, per gestire la propria vita nonostante questa sindrome. Per capire che la vita è diversa, alcune cose non si potranno più fare, altre sì, altre ancora in maniera differente. Giungere a queste consapevolezze da soli è molto difficile. Alcune persone si ritrovano a dover compiere delle scelte, quindi a privilegiare le visite dallo specialista per stare bene fisicamente e si curano a pezzi o addirittura non si curano. Ho conosciuto chi non aveva la possibilità di curarsi, persone con compagni e compagne che vogliono avere rapporti a tutti i costi. Non tutti sono così, però molti e molte lo sono. Bisognerebbe educare la società a capire che il sesso non è il centro del mondo, per questo con il nostro gruppo organizzavamo incontri per iniziare a pensare a una sessualità diversa, per instaurare una comunicazione con il partner o la partner. Io consiglio sempre, quando si fanno le visite, di andare insieme.
Come accennavi, in questi anni hai studiato molte ricerche internazionali. Com’è la situazione della ricerca in Italia?
Gli studi in Italia sono stati condotti prevalentemente da due specialisti. A mio parere quando si fa ricerca deve esserci un coro di voci per differenziare gli ambiti di indagine, che infatti all’estero sono più variegati. All’università la vulvodinia non viene insegnata, quindi i medici escono dalle specializzazioni – ginecologia, urologia e neurologia sono quelle interessate – senza avere la minima idea dell’esistenza di questa sindrome.
I pochi specialisti che la trattano nel modo corretto sono cinque o sei e si sono formati autonomamente, dopo essere ritrovati di fronte a persone che presentavano gli stessi sintomi ma esami sempre perfetti. La vulvodinia si diagnostica per esclusione e con lo swab test (il test del cotton fioc). Tutte le terapie ad oggi conosciute sono il frutto di prove su persone che hanno questo disturbo.
Credi che ci sia una ragione culturale alla base della poca attenzione che viene riservata alla vulvodinia in ambito accademico?
In Italia siamo indietro anni luce perché siamo un paese conservatore, basti pensare a quanti obiettori di coscienza lavorano negli ospedali pubblici. Una volta sono andata a fare un tampone vaginale in un ospedale di Torino e dopo due settimane, tornata lì per il controllo, mi sono sentita dire dall’infermiera: «di nuovo qua?». Come personale sanitario non puoi permetterti una domanda del genere. Si tratta di una forma mentis, siamo duri alle novità.
A livello sanitario esistono dei bias pesantissimi. La cosiddetta sindrome di Yentl, ad esempio, consiste nel sottovalutare i disturbi di chi ha un apparato genitale femminile: pensano sempre che tu sia stressata o in fase ormonale. Questo termine è stato coniato da una cardiologa americana, Bernardine Healy, la quale si è resa conto che i sintomi a livello coronarico delle donne venivano sottostimati. La cosa positiva è che da lì è nata la medicina di genere, perché i farmaci sono da sempre testati sul modello umano maschile.
Le conoscenze delle donne, di fatto, vengono sottostimate. Io stessa ho la vulvodinia e mi occupo di attivismo da anni, ma nonostante sappia di cosa parlo durante le visite ricevo frasi infelici. L’ultima volta ho detto che farò la tesi sulla vulvodinia e la risposta è stata: «sì, ma non fissatevi troppo». A una persona che scrive una tesi sul cancro non verrebbe detto questo, credo. Dare maggior peso ad alcune malattie rispetto ad altre non è corretto. Ho sentito frasi del tipo: «signora, rimanga gravida e vedrà che le passa tutto» oppure «è tutto nella tua testa». Non c’è l’umiltà di riconoscere l’impossibilità di prestare aiuto o quella di ricorrere a una consulenza. La cosa più brutta che mi hanno riportato è stata questa frase: «prenditi un bicchiere di vino, vedrai che ti rilassi e riuscirai ad avere rapporti».
Nel corso di questi anni, da quando ti occupi di divulgazione, hai notato particolari errori comunicativi?
Da parte del personale sanitario mi capita di sentire delle inesattezze, forse perché fa moda parlare di vulvodinia e lo fanno nonostante non siano persone formate nel merito in maniera adeguata. Ho sentito un ginecologo molto preparato nella cura dell’endometriosi dire che gli antidepressivi vengono prescritti perché le persone con vulvodinia sono depresse, ma anche ostetriche che negano l’esistenza di questa sindrome, oppure persone che consigliano di inserire l’uovo di cristallo nella vagina per guarire. Penso che non abbiamo bisogno di tuttologi e tuttologhe, bisognerebbe parlare di ciò che si conosce per evitare di essere scorretti e trasmettere messaggi sbagliati. Le persone, naturalmente, si fidano dei medici e della loro professionalità, per questo dovrebbero mettersi una mano sulla coscienza. Sono contraria ai professionisti che scelgono di diventare influencer passando tutto il giorno a fare video. Mi viene spontaneo chiedermi: quando trovano il tempo di visitare le persone o di aggiornarsi? Tendo a diffidare di un professionista che sta tutto il tempo sui social. In ogni caso la modalità espressiva mi interessa relativamente, è il contenuto ad essere sbagliato.
Per le persone private noto una confusione tra portare la propria testimonianza e fare divulgazione. Alcune persone hanno iniziato a raccontare la propria esperienza facendo anche cose carine, dissacranti, poi da lì hanno deciso di intraprendere la strada della divulgazione dietro la richiesta di aiuto da parte di alcuni utenti, e non sempre in maniera corretta. La responsabilità sta anche qui: l’obiettivo è aiutare ma raccontare la propria storia è una cosa, dare consigli è un’altra e presuppone studio. Bisogna maturare esperienza nel gestire anche il rapporto tra pari. L’aiuto, talvolta, sta nel raccontare la propria vita indirizzando le persone che necessitano di informazioni mirate verso le associazioni che se ne occupano. È necessario saper fare un passo indietro.
In termini di percentuali, invece, quante sono le persone che soffrono di vulvodinia in Italia?
Ad oggi i numeri parlano di donne e sono circa il 16%. Credo però che la percentuale sia molto più alta un po’ perché molte non hanno la diagnosi, un po’ perché c’è ancora quel senso di vergogna nel dirlo. Colpendo persone di età diverse ognuna vive un rapporto differente con la propria intimità e sessualità, poi dipende dal contesto culturale in cui una persona è cresciuta. Ho conosciuto persone che non conoscevano la differenza tra vulva e vagina, che non sapevano dire dove sentivano dolore. Vorrei dare gli strumenti a chi ne ha bisogno per capire, innanzitutto, cosa sta dicendo il medico e poi anche cosa le sta accompagnando. Spetterebbe ai medici il compito di informare, tuttavia bisogna essere realisti: è un po’ come andare in guerra senza le armi mentre gli altri hanno il bazooka.
Una cosa che mi preme dire è che le varie associazioni si sono arroccate sul discorso “genitali femminili uguale donne”, ma è necessario cambiare il linguaggio e iniziare a parlare di persone. Alcuni professionisti della classe medica non sanno cosa vuol dire essere uomini trans o cosa significa la sigla LGBTQIA+. Bisogna lavorare sull’inclusione affinché sia possibile evitare la marginalizzazione, la segregazione e l’autosegregazione, perché giustamente se ho genitali femminili ma non mi riconosco nel genere femminile è molto difficile prendere parte a un gruppo in maniera attiva senza sentirmi giudicato.
Abbiamo parlato di invisibilità, ma c’è una legge depositata alla Camera per riconoscere la vulvodinia come disturbo invalidante. Cosa ne pensi?
La legge attualmente depositata non è completa a mio avviso. Ringrazio perché finalmente qualcuno ha fatto dei passi, ma in realtà nel 2014 il Consiglio dei Ministri ha scritto in un documento ufficiale, consultabile sul sito del Ministero della Salute, che sono stati stanziati dei fondi per malattie invalidanti come endometriosi, vulvodinia e cistite interstiziale. Il riconoscimento in realtà c’è, ma poi a questo è seguito il vuoto assoluto. Bisogna pretendere cose per le quali abbiamo diritto. Poter fare visite a livello del Servizio Sanitario Nazionale, che si faccia ricerca e si formi il personale medico, che possa essere prevista l’invalidità perché esistono persone che non traggono beneficio dalla terapia o sperimentano un miglioramento, ma non guariscono.
A proposito di riconoscimento, vorrei aggiungere che la voce di tutte e tutti è importante. Abbiamo assistito a un grande clamore mediatico, anche giustamente, perché un personaggio molto conosciuto ha detto di avere la vulvodinia e la lotta per i diritti è stata collegata a una persona, mentre invece ci tengo sempre a dire che tutte le persone, che magari non dicono una parola ma partecipano ai gruppi o prestano aiuto a qualcuno, hanno fatto un passo per avvicinarci a questo riconoscimento.
C’è qualcosa che senti l’esigenza di dire prima di salutarci?
Ci tengo a dire una cosa sui LEA, i Livelli Sanitari di Assistenza: viviamo in uno Stato in cui il Servizio Sanitario Nazionale si basa su una logica universalistica, equitaria e ugualitaria, ma i LEA ad oggi sono tutto tranne che questo. Nel 2017 sono stati rivisti e aggiornati con l’inserimento dell’endometriosi, prevedendo un aggiornamento annuale che però da allora non ha più avuto luogo. Dunque viaggiano su domanda espressa: senza richiesta non c’è assistenza. Parliamo di sindromi e patologie che non sono rare: ci sono 30.000.000 di donne e una percentuale del 16% vuol dire che più di 4.000.000 hanno la vulvodinia.
I piani per la cronicità esistono, tuttavia ci sono tante parole sulla carta senza un controllo sull’effettiva attuazione. Si fanno le campagne per la fertilità, ma se ho un dolore alla vulva come posso pensare di avere un figlio? La vulvodinia non causa infertilità perché non agisce a livello dell’apparato riproduttivo. Se faccio fatica ad avere rapporti, però, le campagne per la maternità non hanno senso di esistere perché non esiste la prevenzione. Un altro problema è l’autonomia regionale, ad esempio in Lombardia in fase di vaccinazione per la Covid-19 chi aveva l’endometriosi era considerato un soggetto fragile e ha potuto prenotarsi prima di persone che vivono in altre regioni. Io abito in Piemonte e non ho potuto farlo.
Dovrebbe esserci uniformità, ma ancora esistono regioni più ricche di altre e questo è assurdo: siamo una nazione, non uno stato confederato. Il diritto alla salute deve essere previsto per tutti i cittadini e le cittadine dello Stato italiano, ma tagliando su sanità, lavoro e istruzione – i tre diritti fondamentali – non si può far altro che virare verso derive segreganti.