Il carcere replica se stesso. La spettacolarizzazione della colpa e il marchio del capro espiatorio

Il carcere replica se stesso. La spettacolarizzazione della colpa e il marchio del capro espiatorio

Tra tutti gli istituti sociali, il carcere è il più restio al mutamento, mantenendo inalterata l’intenzione punitiva che lo struttura dalle origini, la spettacolarizzazione della colpa. Nel tentativo di adattare la sua fisionomia alle aspettative e ai riflessi del sentire comune, l’urgenza di individuare un capro espiatorio non è mai stata destrutturata, al contrario si è imposta come lo scopo prioritario della condanna penale, a discapito di qualunque altra funzione.

Ospedali, istituti psichiatrici, centri per tossicodipendenti, RSA, REMS, scuole, centri sportivi, qualsiasi luogo di aggregazione sociale come lo conosciamo oggi ha subìto progressivamente un’evoluzione dettata dal cambio dei paradigmi culturali. In ogni istituto è riflessa la coscienza collettiva costruita intorno a palafitte etiche e culturali che hanno saputo reinventarsi man mano che il loro controllo sul pensiero individuale incontrava le prime battute d’arresto.

Per gli istituti penitenziari invece non si è mai avvertita la necessità di ripensarne il movente e l’intenzione: ancora oggi incarnano il modello punitivo che la gran parte della società si aspetta e desidera, come se non potesse esistere alcuna alternativa.

L’elemento intrinseco al concetto di pena che più di ogni altri le consente di mantenersi inalterata è quello della spettacolarizzazione che, dal canto suo, ha invece saputo evolversi, sopravvivere alle trasformazioni sociali e lo ha fatto senza essere riconosciuta e messa in discussione: la spettacolarizzazione ha cambiato il suo registro linguistico e il suo approccio alla scena continuando però a ricoprire un ruolo chiave nella feticizzazione della condanna penale.

La stasi in cui versa il sistema penitenziario lo autorizza a procrastinare il suo ripensamento e a mimetizzarsi nell’imbellettamento della spettacolarizzazione che accontenta chi si approccia alla questione penitenziaria come ad un’installazione teatrale, mentre in realtà mortifica chi lo vive in prima battuta.

Il carcere che replica se stesso: corsi e ricorsi storici della spettacolarizzazione

Era il 1975 quando Michel Foucault descriveva minuziosamente l’ultima esecuzione capitale della Francia monarchica sotto il re Luigi XV, riconoscendo nella spettacolarizzazione la componente ineliminabile del concetto di pena e dunque della sua funzione. Il servo Robert-Francois Damiens, condannato a morte il 2 marzo 1757 fu l’ultimo condannato a morte per squarciamento di fronte a una platea disgustata ma allo stesso tempo affasciata dalla sua tragica fine.

Nella carne aperta del condannato, Foucault individuava non soltanto la ragione deterrente della pena ma la necessità di soddisfare la fascinazione di un popolo che identificando il male con il corpo del capro espiatorio, attraverso uno scambio catartico, si liberava delle proprie responsabilità.

La spettacolarizzazione non nasce per incutere terrore, almeno non soltanto, in essa è condensato il potere assoluto della macchina giustizialista. Dalla tarda modernità abbiamo smesso di assistere alle eviscerazioni: il capro espiatorio è ora chiamato a rispondere delle sue responsabilità rimanendo nell’assoluto nascondimento. La colpa viene raccontata passando dall’estrema visibilità del patibolo alla totale invisibilità delle celle in cui chi vi è recluso scompare e viene dimenticato dal resto della società.

Dalla condanna a morte alla condanna fino alla morte, che in Italia si prefigura come l’unica strada possibile per chi è condannato in via definitiva all’ergastolo ostativo, la spettacolarizzazione della disfatta del colpevole ha mantenuto invariata la sua essenza, cambiando solamente il bersaglio da colpire: dalla mortificazione del corpo a quella della persona nella sua interezza.

Del resto, lo stesso Foucault nelle lezioni al Collège de France del 1972-1973, ricostruendo l’evoluzione storica delle strategie punitive, individuava quattro fasi: dalla prima dell’“escludere”, a quella del “riscatto”, fino alla fase del “marchiare” e in ultimo quella del “rinchiudere”.

Se nella società greca arcaica punire significava esiliare, nascondere per dimenticare, allontanare il deviante affinché non contaminasse il tessuto sociale, il passaggio successivo fu fortemente connotato dal senso retributivo della pena, nel quale il riscatto, l’ammenda, equivaleva al risarcimento del danno subìto. La terza fase, che si estende dal Medioevo fino al XVIII secolo, segna un momento di cesura importante perché sceglie di marchiare indelebilmente il colpevole, a differenza dell’esclusione della prima fase, la cui intenzione era la salvaguardia della società e a differenza del riscatto, la cui attenzione verteva sui danni prodotti dal reato fine a stesso. Ecco che il bersaglio dell’esecuzione diventa il soggetto responsabile e l’atto del punire viene ridotto al punire per punire. Da quel momento in poi, dal reato è impossibile riscattarsi, al contrario deve essere ricordato come un tratto distintivo di chi lo ha commesso.

L’ultima fase del “rinchiudere” rende socialmente accettabile il marchio. È l’espressione punitiva della nostra epoca per la quale «il castigo è passato da un’arte di sensazioni insopportabili a una economia di diritti sospesi», come perfettamente sintetizzava Foucault.

Nel sistema penale della modernità occidentale, lo spettacolo così sfacciato del patibolo non trova più giustificazione a esistere, almeno in parte. Viene quindi sostituito dalla dimensione pubblica dei dibattiti e della sentenza che, mentre stigmatizzano il capro espiatorio, sollevano il giudice dalla vergogna di punire il condannato.

L’abolizione del supplizio pubblico non corrisponde alla sospensione delle torture: la sofferenza sia fisica che psicologica non scompare, è semplicemente nascosta e celata dalla formalità della legge. Non importa che sia rispondente ai criteri di una giustizia che non si professa come meramente punitiva, è indispensabile che la pena mantenga il suo marchio indelebile anche nell’età contemporanea: l’ergastolo, la pena fino alla morte.

Il fallimento della rieducazione. La condanna penale ha senso quando valorizza l’esistenza di chi è recluso

Eliminati il patibolo, il sangue, la platea che guarda il colpevole morire illudendosi che con esso sarebbero morte anche le colpe, cambia progressivamente anche lo scopo manifesto della condanna penale: da deterrente e retribuzione, la funzione della pena inizia ad assumere una funzione rieducativa e correttiva.

Questa nuova espressione della punizione mentre nasce cova già in sé il suo stesso fallimento: nessun uomo può essere rieducato come se fosse sprovvisto di un vissuto, come se fosse un foglio bianco sul quale scrivere una storia dimentica del proprio trascorso. La volontà punitiva che ha posto le basi dell’imprigionamento si è consolidata a tal punto da diventare paradosso e contraddizione di se stessa.

L’intransigenza della detenzione pretende che ad essere imprigionato sia l’essere umano nella sua interezza così da poterlo predisporre a una correzione totalizzante, eppure solo una minima percentuale delle persone detenute riesce a essere inserita in attività formative e professionalizzanti, ma nella sostanza nulla della quotidianità del recluso è predisposto allo scambio con l’esterno. La prigione viene percepita come un luogo a sé stante, completamente estraniata dalla socialità, anziché esserne considerata come una delle sue tante manifestazioni, motivo per cui il tasso di recidiva in Italia si avvicina al 70 per cento.

Il termine rieducazione tradisce l’essenza obsoleta del carcere, tutta la stasi che lo ha visto imperturbabile di fronte ai mutamenti sociali. Il carcere che ripensa se stesso sa accogliere il vissuto intero degli uomini, sa includere qualsiasi reato e proprio a partire dalla sua comprensione riesce a restituire valore alla vita della persona, consapevole che autenticità e buio, soprattutto nei luoghi di reclusione, rappresentano due facce della stessa medaglia.