carcere e diritto alla sessualità

Carcere e diritto alla sessualità. Il vuoto legislativo come scelta politica

Parlare di carcere e diritto alla sessualità suggerisce un inevitabile rimando al corpo. Il carcere, lungi dall’essere intrinseco alla società, è un prodotto culturale concepito nel tentativo di immaginare pene più umane, come si usa dire, e la sua comparsa implica un’idea di punizione nei termini di rappresentazione simbolica: non è più possibile essere testimoni diretti del dolore che sfigura il volto del condannato, offrendolo in sacrificio come soluzione finale, ora bisogna immaginare quella sofferenza sperando che possa operare come deterrente. Il carcere è un “non luogo” che nutre l’immaginario impegnandosi a non lasciare spazio ai corpi ‒ al corpo ‒ sociali.

Nonostante questo tentativo di rimozione, il corpo continua ad essere presente nell’assenza. La società moderna, trasferendo il potere in una dimensione oscena, lo addomestica nella totale invisibilità e illude i cittadini che la personificazione del male sia confinata al di là del muro. Se precedentemente alla nascita del carcere il reo veniva offerto in sacrificio al fine di ristabilire l’equilibrio turbato dal torto commesso, la nascita della prigione ha reso impercettibile quel corpo che, però, non ha smesso di essere reclamato dalla collettività: quasi come un coro che riproduce il modello della tragedia greca si invoca il nome dell’indagato, colpevole o presunto tale, pur essendo egli il grande assente.

Quelli delle persone detenute sono corpi trattenuti in uno spazio, plasmati dal contesto. Rieducare, dunque, fa rima con addomesticare ed è proprio in questo binomio che, forse, diventa possibile decifrare l’enorme vuoto legislativo italiano in materia di carcere e diritto alla sessualità nonché all’affettività.

Carcere e diritto alla sessualità: il contesto legislativo

A differenza di altre nazioni – 31 Stati appartenenti al Consiglio d’Europa su 47 riconoscono il diritto alla sessualità per le persone detenute – in Italia la regolamentazione in materia di sessualità e affettività in carcere versa in una situazione di stallo da decenni. Il giurista Andrea Pugiotto, nell’ambito di un suo articolo accademico, parla di «apparente anomia», che in realtà configura un «dispositivo proibizionista». La sessualità, di fatto, è l’unico aspetto che elude la normativizzazione all’interno delle carceri, il che si traduce in una scelta precisa più che in una mancanza.

La riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, sostituendo il vecchio ordinamento fascista risalente al 1930, ha rappresentato una vera e propria rivoluzione copernicana: il carcere, da quel momento, non è più considerato un fine ma un mezzo attraverso cui nel rispetto della persona detenuta e della sua dignità la si accompagna verso un percorso che dovrà tendere al reinserimento sociale. A proposito di diritto alla sessualità e all’affettività, tale ordinamento prevede che «il trattamento del condannato e dell’internato sia svolto agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia» (art. 15) e che «particolare cura sia dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire la relazione dei detenuti e degli internati con le loro famiglie» (art. 28). carcere e diritto alla sessualità Fotografia di Francesco Formica

I rapporti affettivi, dunque, dovrebbero essere coltivati attraverso gli strumenti previsti da tale ordinamento quali telefonate, colloqui, permessi premio. Esistono però delle limitazioni, impossibili da ignorare, che in alcuni casi rendono questa possibilità un beneficio concesso secondo particolari requisiti. Proprio l’art. 18, comma 3, dell’ordinamento penitenziario, dispone che «i colloqui si svolgano in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia». I permessi premio, poi, introdotti dalla Legge Gozzini nel 1986, non possono essere richiesti da tutta la popolazione detenuta poiché ne restano escluse le persone in attesa di giudizio, nonché i detenuti definitivi in regime di 4-bis e 41-bis.

Le ragioni di sicurezza che inducono al controllo disciplinano ogni momento della vita delle persone detenute. Gli incontri testimoniano parole spezzate e gesti interrotti; la richiesta implicita è la capacità di essere pronti ai sentimenti nello spazio di un’ora, sei volte al mese, incoscienti – o malauguratamente consapevoli – di essere corpi ai quali non è concessa la fuga dallo sguardo

Carcere e diritto alla sessualità: uno sguardo alle proposte

A seguito di un ricorso presentato da una persona detenuta risalente al 2012, il Tribunale di Firenze ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale in merito all’art. 18 dell’ordinamento penitenziario facendo riferimento, tra gli altri, agli artt. 2, 27 e 32 della Costituzione secondo i quali, nel generico rispetto del principio di rieducazione, «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», oltre ad orientare il trattamento alla risocializzazione e a tutelare la salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività». La Corte Costituzionale, chiamata ad esprimersi nel merito, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità dell’art. 18. Permettere alle persone detenute di curare le proprie relazioni intime e affettive è «una esigenza reale e fortemente avvertita» che trova «una risposta solo parziale nel già ricordato istituto dei permessi premio», tuttavia il controllo visivo da parte degli agenti di polizia penitenziaria, rispondendo a un principio generale di sicurezza, non è volto a impedire l’intimità, semmai rappresenta una conseguenza indiretta. I cosiddetti “permessi d’amore”, quindi, dovrebbero essere disciplinati dal legislatore poiché «occorrerebbe individuare i relativi destinatari, interni ed esterni, definire i presupposti comportamentali per la concessione delle “visite intime”, fissare il loro numero e la loro durata, determinare le misure organizzative».

L’intervento legislativo era stato evocato anche alla fine degli anni Novanta di fronte alla proposta di legge da parte di Alessandro Margara, il quale aveva evocato l’opportunità di dedicare apposite unità abitative all’interno delle carceri nelle quali poter passare fino a ventiquattro ore insieme ai propri cari. Il Consiglio di Stato, allora, aveva dichiarato che il compito di adeguare la normativa allora in uso doveva essere il risultato, di nuovo, di una decisione parlamentare. Il dibattito sulle “camere dell’amore” è tornato in auge nel 2015 con gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, quando i membri della commissione avevano individuato una possibile soluzione nello strumento della “visita” al posto del “colloquio”, tuttavia la riforma penitenziaria del 2018 non ha dato attuazione ai propositi espressi.

Carcere e diritto alla sessualità: lo stato attuale del dibattito

Nel 2021 l’Università di Cassino e del Lazio Meridionale ha condotto un lavoro di ricerca cofinanziato dalla Presidenza del Consiglio Regionale del Lazio, all’interno di quattro istituti penitenziari, con l’obiettivo di approfondire il discorso relativo all’affettività nelle carceri italiane. L’indagine, come reso noto dalla Consigliera regionale Marta Bonafoni, ha dato il via all’approvazione in Consiglio di una mozione relativa alla “Tutela delle relazioni affettive e della genitorialità delle persone ristrette”, con l’auspicio di poter «allineare l’Italia ai Paesi europei in cui già esistono modalità più ampie di contatto delle persone detenute con i propri familiari e una maggiore tutela del loro diritto all’affettività e alla sessualità, andando così finalmente a colmare questo ritardo che grava sulle spalle della popolazione ristretta nelle carceri italiane».

Discutere in merito al carcere e diritto alla sessualità vuol dire, prima di ogni cosa, interrogarsi sulla propria idea di umano. «Parlando a vanvera di risocializzazione la nostra civiltà autorizza (e di fatto incita) una vita sessuale di giovani umani ridotta a masturbazione meccanica e sfinita. Come nelle gabbie dei mandrilli celibi. Davanti alle quali si dice alle scolaresche di voltarsi un momento dall’altra parte», scriveva Adriano Sofri in un articolo intitolato Il sesso del prigioniero mandrillo. Considerare la sessualità – intesa nella dimensione più ampia dell’affettività – eccedente rispetto alla persona, spogliarla dell’incontro con l’Altro, allora, fa venire da chiedersi: è possibile costruire umanità nella dis-umanizzazione?