accompagnamento alla morte

L’accompagnamento alla morte. «Un morire da vivo», con Antonella Filastro

Quella con Antonella Filastro, psicoterapeuta e direttrice dell’IPUE, Istituto di Psicologia Umanistica Esistenziale “Luigi De Marchi”, è stato incontro, scambio e racconto rispetto all’accompagnamento alla morte. «Il confronto con la finitezza e con la morte, che di solito è un confronto angoscioso e angosciante, di disperazione, può non essere così. Dipende molto da come hai vissuto la tua vita, se alla tua vita hai dato un senso oppure no. Parlare di morte è parlare di vita e dunque di amore».

Dietro le connotazioni culturali e i rituali sull’elaborazione della morte, si cela l’universale radice dell’umanità: fragile e caduca nella sua essenza. Nella sospensione e nella precarietà della vita, nell’ineliminabilità della morte, si offre la possibilità della consapevolezza. E del conforto che ne consegue.

Qual è la storia e l’obiettivo dell’Istituto di Psicologia Umanistica Esistenziale?

L’Istituto è stato fondato da Luigi De Marchi, nel 1986, come prima scuola di approccio integrato. De Marchi è stato uno dei pionieri della psicologia umanistica italiana: ha portato in Italia il pensiero di Wilhelm Reich, ha aperto la scuola di bioenergetica di Alexander Lowen e tutto questo ha avuto anche sul suo piano personale e umano una significativa ricaduta, proprio sulla morte della donna da lui tanto amata, Daniela. A lei ha dedicato Scimmietta ti amo, un libro interamente incentrato sulla morte e sull’amore.

Quello della scuola è un approccio integrato, in cui bioenergetica e sfera umanistico-esistenziale convergono. Uniamo la riflessione sull’angoscia di morte, la dimensione verbale di Carl Rogers, con il setting umanistico centrato sull’empatia, la capacità di ascolto e l’accettazione incondizionata del paziente con la dimensione corporea, lavorando attraverso la bioenergetica e la mindfulness. Nel setting il paziente sente di poter rivivere i suoi vissuti insieme al terapeuta, che diventa compagno di viaggio. Sono vissuti inerenti alla morte, alla malattia, al dolore, che cerchiamo di rendere consapevoli tramite un lavoro sul qui e ora. Per farlo ci avvaliamo anche di laboratori teatrali che aiutano a liberare l’espressività corporea.

Attraverso quale processo la morte diventa una consapevolezza che smette di angosciare, ma che, al contrario, rasserena?

L’angoscia di morte nel pensiero di De Marchi si scatena nel momento in cui l’essere umano prende consapevolezza del destino di morte, quindi con l’elevazione della coscienza, intorno ai tre anni. Irvin Yalom, invece, ci dice che questa angoscia subentra nel momento in cui l’uomo si confronta con i dati di fatto dell’esistenza, ovvero la morte, la malattia, la libertà, la solitudine o l’isolamento. Altra analisi ancora è quella di Viktor Frankl, che riconduce l’angoscia di morte alla perdita di significato, causa della brama di potere e di piacere.

L’unico processo percorribile per lavorare sulla paura della morte è l’adozione di una visione aperta, proattiva verso la vita, verso il futuro. La persona, che arriva in terapia, angosciata, completamente ferma e schiacciata dall’angoscia, ha bisogno di essere aiutata a individuare le sue risorse, i suoi punti di forza, le sue motivazioni esistenziali.

Partiamo dalle risorse anche di fronte ad un paziente oncologico, perché esistono delle risorse che possiamo attivare, così da spostare il suo focus dalla malattia alla vita. Ricorriamo ad esperienze corporee specifiche che attivano i processi metabolici e l’energia trattenuta fino a quel momento dall’angoscia e dalle paure, come ad esempio il training respiratorio, che espande il respiro e supera la compressione.

Quando il paziente gode di buona salute e inizia il suo percorso di recupero, lo si accompagna verso la progettualità, nei pazienti che hanno invece un tempo breve di fronte a loro, si procede con la dignity therapy. È un protocollo fondamentale perché aiuta a mantenere alta la dignità, quella sensazione che potremmo definire come un morire all’impiedi, un morire da vivo e non da morto. Si occupa della continuità del , fino alla fine: io continuo ad essere quello che sono nonostante la mia immobilità corporea. Continuo ad essere la persona di sempre fino alla fine. Noi terapeuti dobbiamo garantire questo alla persona che sta per morire.

In questo processo di accompagnamento alla morte e acquisizione della consapevolezza non si va quindi semplicemente a eliminare l’angoscia, le si dà un senso…

Sì, le si dà un senso. La paura della morte non si può togliere: si può familiarizzare con lei, parlandone. Come fanno gli allievi della mia scuola, confrontandosi con le dimensioni esistenziali dell’umano.   

Sulla scia di Heidegger, prendersi cura della morte vuol dire risignificare la vita stessa, esserci. La nostra società invece sembra percorrere il tragitto inverso: viviamo arrivando totalmente impreparati alla morte perché ci rifiutiamo di pensarla.

De Marchi parlava di due tabù, il sesso e la morte. La cultura della nostra società è difensiva, in realtà pensare alla morte è indispensabile perché permette di rimodulare la vita, le si dà significato, appunto. Il compito del terapeuta è quello di stare insieme al paziente, di stargli accanto dentro questi vissuti forti, senza interpretare e senza spiegare: con l’atteggiamento fenomenologico di chi partecipa al qui e ora e attraversa insieme al paziente il suo pianto e il suo dolore.

Molti ragazzi, in fase di colloquio, mi dicono che questa scuola li spaventa, io rispondo che al contrario rafforza e fa crescere. Come primo obiettivo c’è empowerment esistenziale. Facciamo tanta pratica e tanti laboratori, proprio perché al quarto anno si è pronti a lavorare con pazienti oncologici, neurologici, traumatizzati dalla morte, persone cioè che portano vissuti e sfide esistenziali importanti.

Cos’è morire?

La morte è ciò di cui abbiamo parlato finora: la finitezza, di fronte alla quale ognuno di noi si aggrappa a delle difese, come la filosofia, la religione, la politica e l’arte. Dimensioni nelle quali si ricerca l’immortalità. Il morire è un lasciare, lasciare, lasciare. Un lasciare che accade. Si può morire anche vivendo. Si possono lasciar morire delle parti di sé, così come però si può permettere loro di rigenerarsi e di rinascere. Il morire è una linea che continua ad andare avanti, tra abbandono e recupero.

Rispetto alla morte il nodo più difficile da sciogliere è l’accettazione della finitudine.

Sì, esatto. Come ha scritto anche Luigi Grassi, il malato terminale non ha paura della morte, ha paura del dolore e di essere lasciato morire da solo. Io, ad esempio, ho accompagnato alla morte De Marchi, il mio maestro, ed è un vissuto che mi porto dentro.  La sua è stata una morte bellissima, prima di morire mi ha detto: “Sono sereno adesso, sono sereno perché ci sei tu” e mi ha stretto la mano, l’ho stretto anche io, finché non ha riaperto gli occhi per dirmi: “Nellì adesso lascia questa mano, lasciami andare.” A quel punto ho fatto un passo indietro.

Con il rischio forse di sovrainterpretare, associo a questa paura della sofferenza e della solitudine, nel momento prima della morte, il desiderio o la necessità di avere dei figli, proprio perché questi rappresentano un prolungamento di se stessi e quindi un modo per rimanere vivi, anche dopo la morte.

Sono d’accordo con te, spesso le persone proiettano tutto sui figli, fino al punto di non trovare più un senso nella loro stessa vita. Non c’è consapevolezza del proprio vivere, spesso. Ma l’esistenza è anche dolore, come ci insegna Albert Camus con il Mito di Sisifo ed è attraverso questo dolore che è possibile una visione proattiva e creativa della vita.

In cosa consiste la terapia della dignità a cui faceva riferimento prima?

Il suo fondatore è Max Chochinov. È un protocollo breve di tre sedute, inizialmente pensato per i malati terminali. Adesso viene utilizzata anche in psichiatria, la stiamo sperimentando sui pazienti con demenza, grazie all’Università di Ferrara, Luigi Grassi è il pioniere in Italia della terapia della dignità. L’obiettivo è la conservazione della dignità.

Quando un essere umano è dipendente dagli altri e sente di aver perso il suo ruolo, non si sente più riconosciuto ed entra in uno stato depressivo, in quello stato cioè che lo porta a decidere di non reagire. In questo protocollo invece noi chiediamo al paziente quali siano i ricordi che hanno dato senso e significato alla sua vita: attraverso la narrazione di quello che è stato, si possono recuperare le esperienze in cui si è sentito orgoglioso di sé, al massimo della vitalità.

Si fa riemergere la parte positiva, quindi risorse e potenzialità. In altre parole, si recupera la persona che si è riusciti a costruire nell’arco di tutta un’esistenza, recuperandone la parte di senso e di significato. Preservare la continuità del sé è un modo per restituire e conservare la dignità, che il paziente sente di aver perso a causa della malattia. Così torniamo al “sei quello che crei” di Sartre: nel momento in cui il paziente vive la fase terminale della malattia spesso dimentica quello che era e ciò che ha fatto, quindi possiamo recuperare tutto questo e lo lasciamo sotto forma di documento, un vero e proprio lascito. Le tre sedute vengono registrate e trascritte, il paziente infatti deve rilasciare il suo consenso. Terminato il protocollo si costruisce il documento e poi viene letto al paziente, che deciderà a chi lasciare la sua legacy, se al terapeuta, a una persona cara o a chiunque scelga.

C’è una storia che l’ha particolarmente colpita?

Sì, quella di Maria. È stata una persona molto impegnata nel sociale, ha avuto una vita veramente piena. Colpita dalla SLA, ha deciso di essere aiutata, perché si vergognava di mostrarsi, si copriva, era molto attenta alla conservazione della sua dignità.

Mi comunicava questa vergogna con il suo linguaggio non verbale, ma allo stesso tempo mostrava la voglia di relazionarsi e di stare insieme. Mi raccontava che portava il cibo ai senza tetto, che metteva a disposizione la sua casa per farli lavare – non a caso due di loro venivano sotto la sua finestra dell’ospedale per salutarla – e, in questo racconto, si è sentita sollevata. Mi ha detto: “sono stata una grande donna, una donna che ha dato”. Concluso il protocollo ho continuato ad andarla a trovare e ho notato che da quel giorno il suo atteggiamento corporeo è cambiato, aveva riacquisito maggior cura di sé.

Come l’ha cambiata tutto questo?

Il confronto con la morte dei bambini, soprattutto in Africa, mi ha aiutato a riorganizzare le mie priorità, insieme a tutti gli altri, seppur con sofferenza e dolore, per pensare a bellissimi percorsi di vita. Il confronto con i ricordi altrui mi aiuta a essere più presente a me stessa, sono cresciuta nell’ascolto e nell’empatia.

È uno stare diverso.

Hai detto bene, è uno stare diverso. E anche l’esserci del terapeuta è un esserci diverso nella costruzione del setting.