tossicodipendenza e carcere

Tossicodipendenza e carcere. La necessità di garantire «un continuum tra un prima e un dopo»

Rispetto al problema tossicodipendenza e carcere, Anna Pilato, assistente sociale al Ser.D di Frosinone che lavora da più di 20 anni all’interno delle strutture detentive, ci ha offerto una panoramica ampia e dettagliata sulla questione, soffermandosi sul rischio e sull’incidenza della recidiva e mettendo a confronto i possibili percorsi che una persona tossicodipendente e detenuta può intraprendere. 

«È indispensabile considerare il periodo del carcere non come una parentesi staccata dalla vita ma come un continuum tra un prima e un dopo. In questo modo la persona riesce a mantenere una sua identità nel tempo, visto che, per ovvi motivi, è limitata nello spazio. È nel tempo che è importante assicurare una continuità, perché la persona che entra in carcere ha una storia. Magari è stata seguita da altri servizi o ha intrapreso varie attività, che vanno conosciute e tenute in considerazione. Se il periodo detentivo viene inteso – come è giusto che sia – come un’opportunità di riabilitazione e rieducazione, ci si deve impegnare ad aiutare la persona ad inserirsi nel dopo, riallacciando i contatti con i familiari, con i servizi lavorativi e soprattutto con i Servizi Sanitari, per continuare il lavoro terapeutico relativo alla dipendenza da sostanze. È questa la parte fondamentale del nostro lavoro».

Come lavora il Ser.D in carcere?

L’utente viene segnalato alla UOC (Dipendenze e Psicopatologie nel circuito penitenziario) del DSMPD di Frosinone, operante all’interno del carcere, dal medico del carcere e dalla psicologa dei nuovi giunti, ossia dal personale sanitario che si occupa della visita medica di ingresso del detenuto. Se questi riscontrano problematiche legate all’uso di sostanze – non necessariamente una dipendenza in quanto la valutazione poi la fa il nostro Servizio, lo segnalano al Ser.D, che a quel punto apre un processo di valutazione proprio per capire la consistenza del problema. Allo stesso modo viene fatta una richiesta di visita psichiatrica in caso di problematiche di salute mentale.

Per andare più nello specifico, per il Ser.D il detenuto viene visto dal medico che apre una cartella sul SIRD (Sistema Informativo Regionale Dipendenze) e raccoglie la storia della persona in merito alla problematica tossicomanica, procedendo alla presa in carico. Successivamente l’utente viene assegnato a un’equipe psico-sociale di riferimento.

tossicodipendenza e carcere Anna Pilato con Chiara Formica e Alessia Lambazzi, presso il Ser.D di Frosinone. Fotografia di Francesco Formica

Come assistente sociale, dopo aver fatto un colloquio di accoglienza con l’utente e aver raccolto la sua storia anamnestica, la prima cosa che faccio è chiedere informazioni ai servizi di provenienza, proprio perché – come dicevo prima – la persona non è staccata dalla sua storia. Inizia così un processo di valutazione per approfondire quali sono i rapporti con i servizi, la famiglia, il lavoro, ma anche le vicissitudini legali da cui non possiamo prescindere per capire la posizione giuridica del detenuto.

A partire da tutto ciò, cerchiamo di sviluppare la progettualità più utile e perseguibile, a seconda delle situazioni terapeutiche e giuridiche. Nei casi di una condanna che supera i sei anni, o quattro anni nei casi di recidiva, si può predisporre soltanto un percorso intramurario, se la condanna è inferiore, invece, possiamo pensare anche a una misura alternativa, come affidamento al Ser.D di residenza o affidamento terapeutico in comunità o ancora affidamento ai Servizi Sociali UEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna). Ovviamente la progettualità e la realizzabilità di ciascun percorso viene valutata in équipe con medico-psicologo e assistente sociale di riferimento del soggetto.

Nel caso di una richiesta di misura residenziale, ad esempio, cerchiamo di capire quale potrebbe essere la comunità più adatta, in base alla sua condizione, per sostenere lo specifico percorso di recupero individualizzato, perché le comunità non sono tutte uguali: variano in base al programma, che può essere pedagogico-riabilitativo, terapeutico-riabilitativo e specialistico in comorbilità psichiatrica (doppia diagnosi). Ne parliamo poi con la persona detenuta, perché la scelta della comunità è presa dall’équipe ma va necessariamente condivisa, tenendo conto di vari fattori, tra cui anche la lontananza dai familiari che potrebbero andarla a trovare.

tossicodipendenza e carcere Anna Pilato presso il Ser.D Frosinone. Fotografia di Francesco Formica

A quel punto si invia la richiesta alla comunità, che dopo una serie di colloqui decide se accoglierlo. In tal caso la comunità rilascia apposita disponibilità e programma che, assieme al certificato di dipendenza costituisce la documentazione necessaria per presentare l’istanza al giudice. Anche il percorso in comunità viene seguito dal nostro Servizio, perché siamo l’Ente che sostiene economicamente la retta. Rispetto a quanto riguarda invece eventuali richieste di permessi, o di attività lavorative o quanto comunque non strettamente terapeutico la competenza passa all’Uepe di riferimento.

Come dicevo prima, la UOC non si occupa solamente di persone detenute che hanno problemi di sostanze, ma anche di persone che presentano patologie mentali, quindi di detenuti che vivono difficoltà nell’adattamento al contesto o che hanno reazioni di depressione o disorientamento dovuti a eventi traumatici, come può essere un lutto, una separazione o simili.

È un importante lavoro di sostegno nei confronti di tutta la popolazione carceraria, di tutte le persone che accusano momenti di fragilità. Sotto questo punto di vista si lavora molto con l’area educativa, anche elaborando progetti diversi. Quest’anno, per esempio, le nostre psicologhe hanno lavorato in un progetto sulle emozioni, in un altro sul craving e un altro ancora sui maltrattanti. Lo scorso anno è stato finanziato dalla comunità europea il Progetto Conscious, finalizzato alla prevenzione della recidiva nel caso di soggetti maltrattanti, che spesso sono ragazzi alla prima detenzione, denunciati dalle loro famiglie esasperate per le continue richieste di soldi e per i maltrattamenti fisici. È fondamentale in questi casi lavorare sul controllo degli impulsi.

Quali sono le criticità maggiori che riscontrate nelle persone detenute con tossicodipendenza?

Diverse criticità, spesso legate a richieste incongrue come il rilascio di certificati prima ancora di effettuare una valutazione o criticità relative allo stabilire la giusta terapia, nel caso in cui la persona segua anche una terapia farmacologica. Spesso in questi casi le difficoltà maggiori sono dovute alla terapia e al suo aggiustamento: a volte i detenuti tendono a chiedere dosi sempre maggiori di terapia, innescando quasi una contrattazione con il medico, prima di arrivare a fidarsi e ad affidarsi. Una volta presa in carico, la persona si sente sotto certi aspetti maggiormente sostenuta, perché può accedere, oltre ai colloqui con gli educatori, anche a quelli con il personale del Ser.D.

Superate le resistenze a volte la detenzione può diventare un’opportunità per cessare l’uso delle sostanze e prendere in considerazione un percorso di riabilitazione, con la possibilità di trascorrere il resto della pena in una struttura sanitaria riabilitativa, come una comunità terapeutica.

C’è qualcosa che si ripete nella storia di una persona detenuta con tossicodipendenza?

Sì, purtroppo le recidive. Legate spesso al fallimento del reinserimento: una persona che magari non ha una formazione scolastica e lavorativa o che proviene da una storia familiare segnata dalla tossicodipendenza o che conosce soltanto le leggi della strada, spesso quando esce non trova lavoro, non ha dove andare e ritorna sulla strada, per poi rientrare in carcere. È un po’ la teoria della porta girevole.

Sicuramente se una persona esce a fine pena senza che ci sia stata la possibilità di investire su di lei, umanamente e professionalmente, i rischi della recidiva aumentano esponenzialmente. In un percorso di comunità, invece, si lavora sotto il profilo personale, umano, di motivazione al cambiamento e spesso in alcune strutture viene offerta anche la possibilità di formazione lavorativa. Va da sé che in questo modo le possibilità di reinserimento crescano.

Anche in carcere a volte vengono fatti dei progetti di gruppo o viene offerta la possibilità di prendere il diploma di scuola media e superiore, qualcuno si è iscritto all’università. Più alla persona detenuta vengono offerti stimoli ed opportunità, più diminuisce la probabilità di recidiva, se ciò non accade, e quindi se la persona esce “così com’è entrata se non peggio”, allora il periodo della detenzione si riduce a essere meramente un tempo da trascorrere con una pesantezza infinita. Il risultato è solo l’abbrutimento della persona reclusa, perché la legge del carcere è dura, è una legge di sopraffazione.

Quanto è diffuso il problema della dipendenza da farmaci in carcere, magari anche in quelle persone che precedentemente non avevano avuto problemi con la tossicodipendenza?

È frequente e capita anche perché – come accennavo prima – chi riceve la terapia, in cambio di soldi o di sigarette magari, può riuscire a venderla e quindi anche altri iniziano ad assumere farmaci: rimanere storditi può aiutare a non pensare, a non fare i conti con se stessi e con i propri problemi. Sotto questo punto di vista siamo molto attenti, l’assunzione della terapia avviene alla presenza di una guardia che controlla, però problemi di questo tipo con chi prende una terapia psichiatrica possono verificarsi.

Cosa significa questo lavoro sotto il profilo umano, oltre che professionale?

Per questo lavoro è molto importante la competenza professionale, come assistenti sociali fa parte della nostra formazione lavorare con persone in difficoltà in qualsiasi contesto si trovino, ma è importante anche una motivazione di base, la disponibilità a mettersi in gioco con l’altro, a scommettersi. Personalmente ho una mia filosofia di vita e di lavoro, parafrasando una frase di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, che mi ripeto spesso: “lavora come se tutto dipendesse da te con la consapevolezza che niente dipende da te”.

Devi lavorare come se tutto dipendesse da te, senza nessun alibi dettato dalla sfiducia e dalle difficoltà, cercando al tempo stesso di evitare il burnout che si rischia di fronte alle ricadute e alle rispettive frustrazioni o sensi di fallimento. Devi avere la consapevolezza che niente dipende da te perché i fattori in gioco sono tanti: quelli giuridici, familiari, personali ma anche quelli legati alla libertà della persona che può decidere o non decidere di curarsi. Puoi togliere a una persona reclusa la libertà fisica, ma non la libertà di decidere, la libertà di aderire o no a un progetto di cambiamento per la sua vita.