Ser.D di Cassino

L’incontro con gli operatori del Ser.D di Cassino. Il lavoro di prevenzione e la prospettiva del curante

Il nostro lavoro muove dall’esigenza di riportare al centro le esistenze poste al margine. In-esistente è esistere dentro qualcosa nonostante il tentativo di strozzare la voce all’interno di categorie prestabilite. Da qui la scelta di affrontare il tema della tossicodipendenza confrontandoci con operatori e utenti, con l’intento di raccontare l’autentico che eccede i confini del socialmente accettabile.

Siamo stati accolti dagli operatori del Ser.D di Cassino e abbiamo chiacchierato per più di un’ora seduti in circolo nella struttura: un’immagine simbolica che rimanda al desiderio di portare dentro ciò che solitamente, per abitudine o per scelta, è destinato a stare fuori. Di questo lungo confronto restituiamo i temi nodali soffermandoci sulle parole del direttore DSMPD e primario del Ser.D di Cassino della Asl di Frosinone, Filippo Morabito, del medico del servizio, Alessandro Ricci, e della psicoterapeuta Anna Castellana.

Con loro abbiamo riflettuto sulla centralità della prevenzione – che inevitabilmente ha acceso i riflettori sugli adolescenti con le loro risorse e fragilità – e affrontato la prospettiva del curante a partire da un interrogativo: come ci si relaziona con la frustrazione derivata da un tentativo di cura che fallisce?

«Nessuno mi ha insegnato in che modo si lavora con gli adolescenti, sono stati loro a insegnarmi come entrare in sintonia», Anna Castellana

«Anni fa, assieme a un docente dell’Università della Sapienza, abbiamo strutturato un progetto in merito alle aspettative sul futuro degli adolescenti. Un lavoro immane, una ricerca-intervento molto accurata che ha portato in luce una serie di elementi significativi rispetto all’immaginario sul futuro dei ragazzi che frequentavano le scuole del distretto D. I partecipanti potevano avvantaggiarsi dell’intervento di cura già nel momento in cui vi prendevano parte, grazie a una serie di momenti di aggregazione all’interno delle classi che permettevano ai ragazzi di sperimentarsi con strategie di coping nuove rispetto alle loro modalità consuete di relazione. Gli operatori della Comunità “Exodus” lavoravano in sinergia con il Ser.D di Cassino attingendo alla somma  destinata al progetto dal Fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga, con l’obiettivo di lavorare sull’inclusione dei ragazzi a partire dai loro bisogni.

Ser.D di Cassino Ser.D di Cassino. Anna Castellana. Fotografia di Francesco Formica

Dopo circa tre anni di ricerca e una pubblicazione, la priorità del nostro dipartimento e della Regione Lazio ha cominciato a orientarsi su una prevenzione secondaria e terziaria rispetto alle tossicodipendenze. L’attività di prevenzione primaria, cioè quella svolta nelle scuole nel momento in cui il disagio veniva fuori come difficoltà relazionale più che come agito, non è apparsa più fondamentale, dunque non abbiamo potuto applicare la formazione acquisita se non in maniera sporadica e personale.

Il nostro è un servizio territoriale: un conto è aspettare che qualcuno arrivi un conto è spogliarsi del camice, andare in giro, fare vigilanza davanti alle discoteche, partecipare a iniziative proposte dai ragazzi come osservatori. Andare verso significa cambiare abito, quindi porsi in una maniera diversa, consentire al setting di assorbirti come una parte di sé. Solo in quel caso è possibile proporre un intervento che non sia espulsivo, magari lo scontro avviene comunque ma nella consapevolezza – da parte dei giovani – di poter affermare sé stessi, non con l’idea di rifiutarti.

Alcuni ragazzi ancora ricordano quell’esperienza dove non era prevista nessun tipo di appartenenza, semplicemente la capacità di mettere a servizio della comunità le proprie risorse personali ed essere presi in considerazione per quello. I ragazzi si auto producevano e noi dovevamo stare al loro passo, questa era una rivoluzione. Il lavoro di anni fa era un potenziale incredibile per  entrare in queste relazioni complesse con gli adolescenti e poter intercettare il bisogno di aiuto che non viene espresso, perché il problema con loro è che non chiederanno mai aiuto ma segnaleranno di essere in difficoltà. È certo che nella mia storia personale questa esperienza ha prodotto un cambiamento, ma non ha potuto dare i frutti che avrebbe dovuto dare»

«In Italia si rincorre l’emergente», Filippo Morabito
Ser.D di Cassino Ser.D di Cassino. Filippo Morabito. Fotografia di Francesco Formica

«In Italia, nell’ambito della tossicodipendenza ma anche della salute mentale, è come se si andasse rincorrendo l’emergente. Adesso l’emergente è il gioco d’azzardo, una dipendenza per cui sono state strutturate delle linee di intervento e di finanziamento da parte del governo e della regione. C’è, secondo me, una grossa fetta di giovani adolescenti che ha una grande predisposizione al gioco d’azzardo e questo è un problema di cui bisogna tener conto, perché se non li intercettiamo ora li ritroveremo nei nostri servizi tra qualche anno. È una patologia che riguarda la soddisfazione del piacere e afferisce, in qualche modo, alla cultura».

«La tossicodipendenza è la via perversa del piacere», Alessandro Ricci

«Gilberto Gerra, Responsabile delle nazioni unite per il contrasto delle tossicodipendenze, è autore del libro Drogati si nasce? Percorsi nell’infanzia-adolescenza prima della tossicodipendenza, un testo nel quale si afferma che l’evoluzione della tossicodipendenza nasce in età infantile. L’autore dimostra che eventuali traumi, agiti in termini di violenza e abusi, determinano la non maturazione del sistema delle endorfine, il che porterebbe in età adolescenziale allo sviluppo della tossicodipendenza – soprattutto in riferimento all’uso di eroina – nel tentativo di cercare all’esterno il benessere che non si riesce a trovare dentro di sé.

Ser.D di Cassino Ser.D di Cassino. Alessandro Ricci. Fotografia di Francesco Formica

L’incontro con l’eroina, quindi, si inserisce nella mancanza strutturata a causa di traumi subiti in età infantile: la tossicodipendenza, a mio modo di vedere, è “la via perversa del piacere”. Da qui la fatica di costruire per i nostri pazienti un processo di cura che nasca dall’abbandono dell’uso della sostanza passando per la terapia agonista legale e, nello stesso tempo, strutturare un intervento psico-pedagogico che permetta di ricostruire le proprie forme di benessere. È un percorso notevolmente faticoso portato avanti negli anni, con processi complessi e psicoterapia prolungata. Tutto questo occupa gran parte della nostra attività all’interno del Ser.D».

«Qui lavoriamo molto sulla nostra onnipotenza», Anna Castellana

«Nella relazione con un paziente tossicodipendente si cambia prospettiva. Un paziente con patologie legate alla salute mentale, a mio modo di vedere, ha un atteggiamento piuttosto subalterno rispetto al ruolo dell’operatore. I tossicodipendenti spesso non rispettano i ruoli e per loro è funzionale dato che non si sentono patologici. Il curante non deve attribuire troppa importanza a questo aspetto, perché se si intraprende un braccio di ferro nella relazione non si instaura nessuna relazione.

Quando scopro che una persona mi ha mentito, ad esempio, riporto l’episodio nella relazione terapeutica. All’inizio pensavo: “è stato lui a chiedermi di essere curato”, dopo qualche anno ho visto in questo una chiave di volta e, per lavorare, parto da lì. La prima domanda allora è diventata: “perché questo paziente ha avuto bisogno di mentirmi?”, quindi significa che ho incluso me nella relazione con lui. Questo atteggiamento ha cambiato tutto. È rarissimo che il paziente menta con me, perché non ha bisogno di farlo. Capisce che la relazione è al di là di quello che è o non sa di essere».

«La nostra frustrazione si combatte attraverso la relazione con il paziente stesso», Alessandro Ricci

«All’inizio della mia attività al Ser.D di Cassino mi arrabbiavo. Prima lavoravo come medico angiologo, incontravo i pazienti e restituivo la mia diagnosi insieme alla mia bella prescrizione, dopodiché tornavano e mi raccontavano come era andata. Giunto al Ser.D, ancora, individuavo la mia bella diagnosi con la mia bella prescrizione, ma i pazienti una volta tornati avevano fatto tutto il contrario di quello che avevo detto. Adesso dico che sicuramente hanno dato molto di più loro a me che io a loro: nel corso del tempo ci hanno insegnato la relazione. La nostra frustrazione, quindi, si combatte attraverso la relazione con il paziente stesso.

Mi scopro a fare il medico angiologo in maniera completamente diversa da quello che avrei fatto se non fossi stato al Ser.D. Se non ti metti in gioco fino in fondo, con i nostri pazienti non hai possibilità di cura. Qui si passa dalla “cura” al “prendere in cura”,  dunque a una relazione dinamica, di scambio. Mi sento un medico migliore oggi. E non è importante se i pazienti guariscono o no, perché a volte – per alcuni – l’unica possibilità di vita è assumere la sostanza».