Con Nicola Favata, psicologo clinico e dello sport, ci siamo avvicinati al tema della percezione e della riappropriazione del corpo sia in relazione ai trascorsi emotivi che allo sguardo altrui.
lopsicologoinbicicletta – è così che si definisce – racconta l’essenza di un percorso iniziato come un gioco e diventato poi «un pezzetto di identità». Se 12 o 13 anni fa, ai tempi dei primi anni universitari, era «un mezzo di sopravvivenza, con il tempo è diventato un mezzo di esplorazione, viaggi e scoperte». È un pezzetto di identità che coniuga vari elementi, dalla realtà professionale all’attività sportiva, fino all’adozione di uno stile di vista ambientalista e minimale che ricalca, in chiave contemporanea, la figura del professionista che qualche secolo fa si spostava con cavallo e carrozza.
Attraverso l’esperienza di chi con il corpo lavora – sia da un punto di vista sportivo, prestazionale, formativo ed educativo, sia come cura della persona, legata alla sofferenza e al dolore – abbiamo riflettuto sulle dinamiche che portano o allontano una persona dal «sentirsi a casa nel proprio corpo».
Qual è la concezione del corpo intorno a cui si sviluppa e su cui agisce la psicologia dello sport?
Credo sia importante curare la differenza che intercorre tra corpo fisico e corpo sensoriale. Lo sport è l’insieme dei movimenti che lo costituiscono. Movimento come gesto. Il punto centrale, la struttura fondante. Non possiamo limitarci a pensare al gesto come unica e assoluta rappresentazione di una reazione nervosa, di un’azione stimolo o un’equazione di leggi unicamente biomeccaniche.
Il gesto è la risposta del corpo a un mondo che lo impegna. La psicologia dello sport – per come io la intendo – lavora anche e soprattutto su questo versante. Il gesto è il veicolo delle mie intenzioni, che hanno il potere di determinare la mia direzione. Perché muoversi è scegliere. È scegliersi. Scegliere quell’insieme di gesti che ci restituisce l’unità del corpo. Non nella sua prospettiva anatomica ma nella sua possibilità di essere nel mondo, di partecipare al mondo.
Quanto e come riesce a influire l’impegno fisico, quindi lo sport, nella relazione che la persona intrattiene con il suo corpo?
Come dicevo, tra me e il gesto c’è un’intenzione. C’è un legame. Posso impegnare il mio fisico, posso impegnare il mio corpo, posso dare continuità a questa posizione solo se sono capace di sintonizzarmi e di legare il senso che accompagna e alimenta il mio movimento, il mio muovermi nel mondo.
E il senso è la colonna portante della motivazione: un motivo (un senso) che anticipa la mia azione. È un lavoro continuo non sul come ma sul perché. Ed è qui che si fonda la nostra comunicazione trasversale tra l’io corporeo, biologico (sede dei bisogni di sopravvivenza), l’io psichico (sede dei bisogni di auto-percezione, che organizzano e nutrono la nostra identità e che rispondono alla domanda “chi sono io?”) e l’io sociale (sede dei bisogni di autorealizzazione, che rispondono alla domanda: “chi è l’altro?”).
È in questa dialettica che noi possiamo inserire il principio dell’impegno non solo fisico, ma anche emotivo e narrativo, abbattendo il dogma che vede l’impegno come dovere. Per noi impegnarsi è possibilità, è coinvolgimento emotivo verso il mondo, verso sé stessi e verso l’altro.
Quali possono essere le cause che rendono un corpo inattingibile e quali le dinamiche che ne consentono la riappropriazione?
In ogni momento avvengono dei piccoli miracoli dentro di noi. All’interno del nostro corpo, ad esempio, le ferite vengono riparate, i germi nocivi vengono combattuti ed espulsi, il cibo viene trasformato in energia e nascono nuove cellule, la temperatura corporea viene costantemente regolata e mantenuta. Questo ci dimostra che il nostro cervello è capace, attraverso la percezione e l’analisi dei segnali, di guidare le nostre azioni senza necessariamente pensarle. Proprio in questo momento, mentre ci confrontiamo su questi temi, all’interno del nostro corpo c’è una comunicazione costante tra cervello e corpo.
Quando siamo in grado di riconoscere questa “saggezza”, possiamo sperimentare il corpo come un essere vivente, vivo e vitale. In continua evoluzione. Fonte di intelligenza e informazioni. E possiamo, quindi, riconoscere che l’energia che ci restituisce è un supporto continuo per il nostro funzionamento e la nostra crescita. Fisica, mentale ed emotiva.
Tuttavia, per molti di noi, il corpo è stato oggetto di critica, delusioni, frustrazioni, traumi fisici, traumi affettivi, malattie e molto altro ancora e se questo è successo è possibile che si perda parte della fiducia nell’intelligenza innata del corpo, fino ad avere difficoltà a sentirsi a casa nel proprio corpo. A vivere il proprio corpo. Un mio paziente una volta mi disse: «in presenza del dolore io mi separo da me».
Riappropriarsi di sé vuol dire riappropriarsi del proprio modo di abitare la propria casa. Il proprio corpo. La propria storia. La propria quotidianità. Le proprie emozioni. Riappropriarsi è lavorare sulla separazione che il dolore tende ad alimentare.
Nei casi in cui, quindi, il corpo viene percepito come una gabbia, come un involucro dal quale si vorrebbe fuggire per non sentirlo più, è necessario ricominciare a prendersi cura di sé. Come?
Come dicevo prima, il dolore va inteso come espressione di un sintomo. Questo a sua volta è l’espressione di una coazione a ripetere sempre gli stessi schemi. Un mio professore ci diceva spesso che “il principio della cura e del prendersi cura sta nel cercare di trasformare un funzionamento ripetitivo in un funzionamento creativo”.
È un lavoro sulla nostra dimensione narrativa, emotiva e senso-motoria e consiste nel cambiare la maniera in cui una persona parla del proprio modo di essere, in cui pensa al proprio modo di essere. Lo costruisce, lo rappresenta e lo sente attraverso i movimenti, le posture, i gesti. Le reazioni. Le emozioni.
La psicoterapia senso-motoria, ad esempio, si concentra principalmente su tre fasi: sviluppare le risorse e valorizzare i punti di forza, affrontare i ricordi e muoversi in avanti. Qui il linguaggio non si esprime solo attraverso combinazioni di segni, ma soprattutto attraverso il ritmo del corpo. Una persona non si porta dietro solo il ricordo del passato, del dolore, del trauma, ma anche il suo lessico. E noi sappiamo che le parole, spesso, valgono più per quello che evocano che per quello che possono significare. Per essere creativi, anche in un ambiente terapeutico, trasformativo e di crescita, dobbiamo espropriarci di quello che crediamo di essere senza sapere ancora che cosa potremmo essere. Solo allora passiamo dalla ripetizione all’invenzione.
Quanto incide lo sguardo degli altri nella definizione e nel riconoscimento del proprio corpo?
Winnicott, tra i più grandi luminari della psicologia evolutiva, diceva: «sapete cosa vede un bambino negli occhi di sua madre? Se stesso». Lo sguardo è comunicazione. È uno dei principi attivi fondanti del legame. Comunicare significa mettere in comune. Stabilire un rapporto con qualcosa.
E l’esser con implica necessariamente un lavoro sulla giusta distanza e la volontà di stabilire un legame. Quindi sì, lo sguardo dell’altro ha la sua portata nel generare in me quel gioco di vicinanza-distanza anche rispetto al rapporto che ho con il mio corpo, con il mio essere al mondo attraverso il mio corpo. Sappiamo che l’altro, con la sua presenza, con il suo posizionarsi con noi nella sua comunicazione, mobilita in noi il nostro mondo emozionale, il nostro corpo emozionale.
È importante comprendere che la comunicazione non è solo linguaggio verbale e che il linguaggio analogico, quello dei gesti, del corpo, è più potente del linguaggio delle parole. Ti faccio un esempio di vicinanza e riconoscimento che ho letto qualche anno fa in un articolo di cui non ricordo il titolo: nel tango l’inciampo non è un errore, ma la sorgente di un nuovo movimento inatteso e liberato dal ritmo. Per essere creativi bisogna amare l’inciampo: quello che è nuovo viene dall’ostacolo.
L’esperienza del dolore e della sofferenza – emotiva e fisica – lascia segni sul corpo e sulla capacità di relazionarsi ad esso? Quali?
Ne Il corpo, uno dei libri di testo che custodisco con più cura e attenzione, Umberto Galimberti scrive: «quando la parola tace, è il corpo a incaricarsi direttamente del messaggio». Ad incorporarlo, aggiungo io. Restituendolo al soggetto – e al mondo – nelle sue più svariate forme. Qui, la scienza della psicosomatica, ormai da diversi decenni, ci restituisce punti di congiunzione che mettono in rilievo la continua dialettica tra corpo, mente e vissuti emotivi. Solo per citare alcuni esempi, i disturbi della sfera alimentare (anoressia e bulimia), stanchezza, dermatite psicosomatica, i disturbi nell’apparato gastrointestinale (gastrite psicosomatica, colite spastica psicosomatica, ulcera peptica) o nell’apparato cardiocircolatorio (tachicardia, aritmie, cardiopatia ischemica, ipertensione essenziale).
E i vissuti positivi?
I vissuti positivi ci permettono di lavorare sul “movimento in avanti”, di cui accennavo prima. Uno degli obiettivi che ci poniamo in terapia è quello di rivolgere ed aumentare il piacere e la soddisfazione nella vita, partecipando più pienamente al mondo e, in particolare, alle relazioni.
Vediamo il vissuto positivo come uno dei principi attivi che non dobbiamo trascurare, ma al contrario alimentare, con costanza, nonostante le avversità o le contratture che la vita ci può mettere davanti, perché i vissuti positivi sono una delle nostre basi d’appoggio sicure.
In tutto questo la fiducia ci permette di sostenere e spostare la nostra attenzione al modo in cui il corpo, ma non solo, può servire come risorsa nell’arricchire le nostre vite tutti i giorni. Imparando ad utilizzare i nostri corpi in modi nuovi che sfidano gli schemi del passato, come per esempio protendersi verso gli altri per cercare un contatto o scoprire i movimenti che ci aiutano a giocare, esplorare il mondo e affrontare nuove sfide.