giuseppe perrone

Un cammino lungo 28 anni. L’ergastolo ostativo e il reinserimento nella lettera di Angelo

A scrivere questo contributo sono quattro mani, quelle di Angelo Moscato, detenuto nel reparto di Alta Sicurezza del carcere di Parma, e Luisa Di Bagno, tutor universitaria nel carcere di Rebibbia. Raccontano il raggiungimento di un traguardo, quello della laurea magistrale in Giornalismo e cultura editoriale, connotato dai limiti e dai filtri che il contesto carcerario comporta o impone.

«Un lungo cammino detentivo che dura da 28 anni, senza conteggiare sei anni di liberazione anticipata per aver mantenuto un buon comportamento all’interno dei diversi istituti penitenziari.

La storia di Angelo è un paradosso e ci fa conoscere la realtà dell’ergastolo ostativo da dentro: il reinserimento destinato a scontrarsi con delle leggi che, il più delle volte, non permettono nemmeno di usufruire di un permesso premio, neanche se si tratta di poche ore per la discussione di una tesi di laurea. A prevalere non è il reinserimento del detenuto, nemmeno nel caso di un percorso degno di nota.

Assistere alla sua tesi di laurea è stato emozionante, Angelo ha raccontato uno spaccato ben diverso da quello che spesso viene raccontato da persone che il carcere non lo conoscono da dentro, avvalendosi di stereotipi e pregiudizi. La realtà invece sotto tanti aspetti è tragica, come dimostra la sua tesi: lo stigma del carcere e sui detenuti gli stereotipi; i pregiudizi e la disinformazione. Ben novanta pagine, nelle quali molti sono i punti che invitano a riflettere su un sistema giuridico e penitenziario che andrebbe rivisto perché i dati ci dicono che un sistema così giustizialista non paga e non riesce a migliorare la situazione drammatica che si vive dietro le sbarre.

Del loro peso ne ha parlato durante la sua esposizione, attraverso il suicidio di Antonella, una ragazza di Verona. È diventato un caso mediatico, perché il magistrato di sorveglianza ha voluto manifestare il suo cordoglio inviando una lettera al suo funerale e che fosse letta ai suoi familiari. Diceva che se una giovane di 27 anni si toglie la vita in carcere è un fallimento per tutto il sistema, mettendosi in prima linea.

Chi riesce a superare le difficoltà e finisce di scontare la sua pena, purtroppo, spesso non ha avuto modo di acquisire competenze utili per riaffrontare il mondo libero. Spesso viviamo nell’ozio forzato e dopo 20 o 30 anni trascorsi in questo modo, quali persone possono essere restituire alla società? È un disastro giuridico e penitenziario! Far vivere nella repressione senza speranza non paga, la cosa più grave alberga nel fatto che la condanna a vita confligge con l’art. 27 della Costituzione,  “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione”. Nella realtà di dentro si evince però che non esistono molte possibilità, non ci sono aperture verso una vita da uomo libero. Si vive di speranza, sistematicamente corrosa dalla politica che consuma il lume della speranza in nome della sicurezza.

Eppure, la Costituzione parla di diritti, non di “vendette nascoste”. Se non è un percorso di reinserimento quello di un ragazzino entrato a 20 anni con la licenza media, e che oggi, a 51 anni, ha conseguito la sua seconda laurea, stavolta magistrale in Giornalismo e cultura editoriale, entrambe con il massimo dei voti, non so quale potrebbe esserlo.

E a chi si chiede se in carcere non esistano i percorsi di reinserimento, la risposta è no, nonostante la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo abbia bocciato l’ergastolo ostativo perché viola l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sui trattamenti inumani e degradanti.

I tempi dovrebbero essere maturi anche in Italia per riappropriarsi di un grado di civiltà più alto sulle carceri e su chi vi è costretto a vivere, facendo magari prevalere i percorsi di reinserimento. Una pena priva di ogni speranza è disumana e lo ha ricordato più volte anche papa Francesco: “non c’è una vera pena senza speranza, non è una pena cristiana, non è umana”.

Moscato, che lo vive, asserisce – come ha già fatto più volte – che sia una pena di morte in bianco. I percorsi penitenziari che superano i trent’anni di reclusione servono a ben poco».