rappresentazione del corpo nella serialità televisiva

La rappresentazione del corpo nella serialità televisiva, intervista a Marina Pierri

Rappresentare un corpo sullo schermo vuol dire mostrarlo, renderlo tangibile. Ciò che non è visibile, che non si ha la possibilità di nominare, resta nel limbo della vaghezza a cercare, affannosamente, di trasformare le parole sommesse in voce profonda. Rappresentare quel corpo nel modo corretto, poi, significa offrire lo spazio per scrivere in maniera autonoma la propria semantica, perché fondamentale non è rivelarlo, non solo, ma più precisamente lasciare che costruisca il proprio racconto senza essere sovrastato dall’eco di altre esperienze, di altre realtà.

Marina Pierri, critica televisiva, scrittrice, co-fondatrice e direttrice artistica di FeST – Il Festival delle Serie Tv, nonché autrice di Eroine per Edizioni Tlon, ci ha aiutato a comprendere il significato di esperienza diretta, elemento imprescindibile ai fini di una narrazione veritiera. Parlando con lei della rappresentazione del corpo nella serialità televisiva abbiamo riflettuto sull’invisibilizzazione dei corpi grassi e dei corpi disabili – due tabù apparentemente insormontabili – e sottolineato l’importanza dell’intersezionalità applicata alle rappresentazioni seriali, affinché diventi possibile ascoltare l’immensa pluralità di voci ammutolite da chi pensa che l’arte sia una dimensione irreale, un esercizio puramente formale e illusoriamente innocuo.

Cosa vuol dire applicare la lente del femminismo intersezionale ai prodotti seriali e in che termini può costituire un’esperienza differente per gli spettatori e le spettatrici?

La pratica femminista intersezionale aiuta a comprendere di non essere al centro del mondo e questo vale anche nel momento in cui ci comportiamo da spettatrici, spettatori e spettatorƐ, ossia quando guardiamo qualcosa. Imparare a non porci al centro del mondo ci mette più agevolmente in una condizione di ascolto, ma soprattutto aiuta a comprendere che la nostra vita non è l’unica vita possibile. Io non determino con la mia esperienza la condizione femminile universale, non è mai così, le donne sono tutte diverse tanto che faccio fatica a parlare de “le donne”. Quando si generalizza ho sempre un attimo di perplessità, perché anche questo imporci una scatola dove bene o male veniamo ridotte a istanze identiche le une alle altre mi sembra che non sia particolarmente utile alla causa femminista, in genere, e femminista intersezionale, in particolare.

Le donne hanno tutte esperienze differenti. Veniamo da contesti di provenienza diversi, abbiamo corpi diversi. Abbiamo corpi non conformi, corpi conformi, corpi con disabilità, corpi grassi. Abbiamo la pelle nera, la pelle bianca, siamo tutte diverse le une dalle altre. Di conseguenza applicare la lente intersezionale permette di capire che le proprie esperienze non costituiscono un parametro o il metro di paragone di tutte le altre.

Se guardo una serie come Insecure di Issa Rae, per quanto possa divertirmi e trovare dei punti di contatto con la mia esperienza, devo sapere che il corpo politico di Issa Rae è un corpo nero e non ha l’esperienza del mondo del mio corpo, che è bianco. Questo è dovuto a come il corpo viene recepito nell’ambiente socio-culturale, che determina non soltanto il nostro vissuto ma anche le convinzioni delle altre persone che interiorizziamo circa, ad esempio, il nostro corpo e la nostra identità. La lente intersezionale aiuta, da un lato, ad ascoltare sapendo di non essere “l’uomo vitruviano” o la “donna vitruviana”, dall’altro a ricordare fino a che punto siamo diverse e a metterci in ascolto, con rispetto, dei vissuti delle altre.

Mi piacerebbe riflettere sul concetto di autenticità, inteso come possibilità di esprimere se stessi e se stesse senza appiattire o banalizzare il proprio vissuto personale. Esistono a tuo parere personaggi femminili autentici, tridimensionali?

Autenticità è una parola che uso di rado, perché è difficile dire cosa è autentico e cosa non lo è. L’espressione che utilizzo più spesso è esperienza diretta, un elemento per me molto importante nella scrittura. Qualunque sia la percezione dell’autenticità di una storia la cosa fondamentale è che la cultura sia restituita dalla cultura per la cultura, nel senso che se ho a che fare con la storia – che non esiste – di una donna con disabilità protagonista di una serie tv, però quella serie è scritta da una persona senza disabilità, allora legittimamente mi pongo il dubbio di quanto di prima mano possa essere quell’esperienza. Credo fortemente che le storie debbano essere restituite alle persone rappresentate.

Se esistesse una serie tv che ha per protagonista femminile una donna con disabilità io vorrei che fosse scritta da una donna con disabilità, ma nella realtà in tante occasioni le categorie marginalizzate non vengono invitate al banchetto del processo produttivo. Penso, per esempio, alla rappresentazione delle donne trans che c’è stata in passato, a The Danish Girl oppure a film che oggi giudichiamo in maniera negativa e con una rappresentazione estremamente problematica come The Crying Game, perché effettivamente ai tempi non si pensava di interpellare delle persone trans per andare a costruire quel tipo di narrazioni. Per me, nei termini in cui tu usi la parola, autentica può essere l’esperienza di una Janet Mock oppure di una Our Lady J, che scrivono e girano Pose. Di personaggi nati dall’esperienza diretta ce ne sono tanti in realtà: Fleabag nasce dall’esperienza diretta di Phoebe Waller-Bridge, Arabella nasce da quella di Michaela Coel.

Non è importante la tv verità. Se Michaela Coel in un futuro deciderà di scrivere una serie di fantascienza, cosa che mi auguro con tutto il cuore, questo non renderà meno autentica la sua esperienza per me, perché la cosa fondamentale è proprio portare se stesse nella scrittura, quindi restituire la propria esperienza attraverso il racconto. Racconti in cui vi sia esperienza femminile, nello specifico, perché a essere sorprendente – e non lo dico con giudizio di valore sostenendo che gli uomini non debbano scrivere le donne, tanto succede comunque! – è il fatto che nel mercato televisivo statunitense, dove il 55% delle protagoniste delle serie tv sono femminili, le donne che scrivono sono il 30% e dunque il 70% di uomini racconta sia gli uni che le altre. Il problema è sicuramente avere più donne nella industry e nei ranghi produttivi ma il punto centrale, da femminista intersezionale, è dare spazio a esperienze che non siano identiche le une alle altre. Bisogna avere più esperienze femminili, più voci, più provenienze, più vissuti diversi, più pluralità.

A proposito di percentuali, credo che a volte sia necessario parlare di numeri per rendere più tangibili alcuni discorsi. Quante donne, di fatto, sono coinvolte nella realizzazione di prodotti seriali?

Non esiste un Report italiano, ma Women and Hollywood riporta alcuni dati sui quali si può riflettere. Le donne in posizione chiave dietro la macchina da presa sono il 31%, mentre le showrunner si aggirano tra il 30 e il 35%. Abbiamo poi il 39% di produttrici, il 36% di sceneggiatrici e il 28% di ideatrici. Per quanto riguarda i film del 2019 le registe erano il 10%. Eppure le donne rappresentano il 50% delle persone che vanno al cinema.

rappresentazione del corpo nella serialità televisiva Marina Pierri

Io credo molto nel costruire una nuova socializzazione ai mestieri audiovisivi, perché il mercato va smosso innanzitutto nella socializzazione alla possibilità di far parte del mondo audiovisivo che in tanti casi non esiste. Penso sia necessario un intervento politico, dato che la televisione occupa una parte sempre più grande della nostra esistenza. Dovrebbero arrivare degli aiuti concreti non solo alle donne, ma nello specifico alla varietà delle donne, che vengono da categorie marginalizzate. Donne alle quali mancano le risorse per partecipare, per studiare. Sarebbero necessari degli aiuti da parte della politica, degli Stati, per rendere l’industria più plurale.

Condivido con te un’esperienza personale. Anni fa ho visto il film La Vita di Adele e per diverso tempo l’ho ritenuto un bel film erotico, privo di criticità. Sostenevo, tra l’altro, che chiunque potesse cimentarsi nel racconto di qualsiasi esperienza. Oggi, anche grazie al femminismo intersezionale, ho cambiato idea e ti chiedo: quanto è importante andare oltre il proprio ruolo di spettatrici e spettatori passivi chiedendosi, ad esempio, chi ha realizzato il film che stiamo guardando? Quanto è importante costruire un’etica della spettatorialità?

Intanto ti dico che alcune donne lesbiche considerano La vita di Adele un film voyeurista con uno sguardo maschile, cosa che penso anch’io, mentre altre lo amano e lo consigliano, quindi anche qui abbiamo una possibile differenza di vedute. Ciò che mi risuona del tuo racconto è la percezione che chiunque possa scrivere di qualsiasi cosa, una posizione profondamente gettonata se non si conoscono i meccanismi soggiacenti alla cultura sistemica. Se sai che esiste una finitezza nelle industrie – cioè che non siamo in un mondo ideale e non ci sono spazi infiniti – ma nonostante questo da uomo, etero, cis decidi di raccontare la storia di una donna trans, di fatto, hai occupato una casella che per l’industria è considerata riempita. Questo vuol dire che quando una donna trans proporrà la sua storia avrà sempre un precedente che occluderà la possibilità di un racconto con esperienza diretta, oppure rimarrà un precedente con cui confrontarsi.

Non c’è niente di particolarmente ingenuo o delicato, come si pensa, nel dire che chiunque può fare qualsiasi cosa. In linea teorica è vero, posso tranquillamente identificarmi con una ragazza nativa americana che vive nel South Dakota, ma nella realtà se racconto quella storia pur non avendone esperienza diretta cosa sto producendo? Sarebbe molto utile ricorrere a delle consulenze ma non è così usuale, anzi c’è questa idea, se vogliamo un po’ arrogante, che chiunque possa raccontare qualsiasi cosa perché i sentimenti sono universali. Tutto questo è profondamente anti-intersezionale proprio perché il femminismo intersezionale suggerisce, tra le altre cose, la necessità delle etichette per le persone che fino a questo momento non hanno avuto spazio nella società.

Non succederà mai che qualcunƏ vada da un uomo bianco, etero, cis che voglia scrivere la storia di una donna nera trans e gli dica: «questa non è roba tua», continua a non succedere. C’è sempre quel privilegio per cui ci si sente nella possibilità di scrivere qualsiasi cosa e di poter essere chiunque. Quindi in un contesto di tale complessità io – e qui si possono avere opinioni personali – credo che rispetto voglia dire cedere il microfono. Non c’è neanche bisogno dell’empatia, è necessario il rispetto per riconoscere che da persona bianca, privilegiata, ho mille possibilità di raccontare storie.

La sensazione è che sia la dimensione artistica in sé a legittimare il racconto di qualsiasi cosa da parte di chiunque…

Questo discende da una concezione romantica, che ha assunto delle sfumature anche un po’ destrorse, nel guardare all’arte. Se l’arte non è passibile di essere letta a seconda del costume, in altre parole se considero l’arte come immanente, immortale e scissa dall’artista, cosa mai posso ottenere se non la certezza che chiunque può fare qualsiasi cosa? Sono ragionamenti collegati: se l’arte è superiore alla società, cioè se nasce magicamente dal cuore della società ma una volta nata da questo cuore eletto si libra al di sopra di essa ed esiste trans-storicamente al di là delle società, la conseguenza logica è che non sia neanche un frutto dell’io. Non essendo un frutto dell’esperienza diretta ma qualcosa di magico, misterioso, predeterminato che prescinde da me e poi libra su di me, allora è evidente che, come artista, perdo completamente consistenza in questo processo.

Io invece vedo le cose nell’ottica opposta e credo che tutta l’arte sia sempre politica, credo che non esista un singolo oggetto culturale che sia a-politico. Questo perché nasce da un autore, da un’autrice, da un autorƏ che ha interiorizzato un certo sistema politico, nel bene o nel male, di conseguenza quando poi quell’opera d’arte non vivrà sopra la società ma dentro di essa, quando si infilerà nelle strade, nei dialoghi e tra le persone, con il passare del tempo sarà letta e pensata in maniera differente. Io trovo elettrizzante questo pensiero.

Forse sarebbe anche più interessante togliere quest’aura di romanticismo all’arte.

È come se ci trovassimo di fronte a un irrigidimento di questo romanticismo. È come se avesse assunto delle sfumature per cui l’arte è per l’arte e giustifica se stessa. Io questo lo trovo disonesto intellettualmente perché tutta l’arte racconta in qualche misura il mondo nel quale viviamo, che cambia in continuazione. La natura cambia ogni minuto, noi cambiamo ogni minuto. La natura stessa è tutt’altro che immanente, è un sistema di relazioni. Non designa un insieme di cose finito, noi facciamo parte di quell’insieme di relazioni che è perennemente mutevole, quindi come fa l’arte a non esserlo se nasce ed esiste in un contesto fluido?

Quali sono, invece, i tabù relativi alla rappresentazione del corpo femminile?

Il corpo grasso e il corpo con disabilità sono dei grandissimi tabù. Il corpo grasso non esiste: posso contare cinque serie che hanno per protagonista una ragazza grassa, almeno una delle quali non è arrivata in Italia e due sono state cancellate. Continua a esserci una grandissima applicazione di sanzioni al corpo femminile che si ribella al canone. Stessa cosa per le donne con disabilità, di cui potrebbero parlare persone ben più qualificate di me, che oltre a essere desessualizzate vedono il loro corpo raccontato in modo abilista e pietista.

Anche quando abbiamo eroine disinibite come Fleabag – cioè un’eroina che parla di sesso anale, cosa vissuta da molti uomini come abbastanza sconvolgente – parliamo sempre di una donna molto bella, alta, con un corpo conforme e che non ha disabilità. Quello di Arabella in I may destroy you è sicuramente un corpo razzializzato, tuttavia non è un corpo grasso, non è un corpo con disabilità. C’è una mancanza di abitudine all’ascolto dell’esperienza diretta di chi possiede quel tipo di corpo, ma il problema è molto più ampio e ancora una volta ha a che fare con la cultura sistemica.

Nella società l’invisibilizzazione dei corpi non conformi è così stringente che diventa molto difficile per le persone con quel corpo avvicinarsi ai para-organismi dell’industria televisiva – non parlo solo dei casting ma anche alle scuole. È complicata la stessa idea che si possa esistere all’interno di questa società senza vergogna.

Per fortuna c’è il lavoro di tante attiviste, penso alle Belle di Faccia e ad evastaizitta relativamente al corpo grasso, a Marina Cuollo e Sofia Righetti quando si tratta di corpo con disabilità. Il mio consiglio per saperne di più è di non ascoltare me ma di leggere queste attiviste, perché il senso è proprio questo: ascoltare la loro voce diretta. Forse se noi per prime costruiamo questo tipo di abitudine non sarà così alieno portarla avanti.

Restando sui tabu del corpo femminile, credo che i corpi vecchi e la bruttezza convenzionalmente intesa siano altri due elementi interdetti dalla nostra società. In Nomadland, un film di cui hai parlato ultimamente, la protagonista è una donna di mezza età non considerata canonicamente bella. In che senso, come dicevi, Fern si libera della sessualizzazione del suo corpo?

Fern è una grande eroina, che per tutto il film si tenta di tenere legata alla socializzazione così come la conosciamo. È un’eroina non interessata alla sessualizzazione e questo ci viene suggerito dal suo taglio di capelli, dal suo non essere mai truccata, dal suo aver fatto una serie di scelte con grande consapevolezza. Sicuramente Fern è un personaggio così interessante proprio grazie alla sua autodeterminazione: dal momento stesso in cui arriva sullo schermo si capisce che è una donna estremamente autodeterminata.

Compirà un viaggio dell’eroina che la porterà a liberarsi delle ultime spoglie di un’identità pesante, anche se in realtà quando la conosciamo è agli ultimi gradini del suo viaggio. Nel momento stesso in cui la vediamo sullo schermo sappiamo che lei di viaggi ne ha fatti molti, è una donna che ha tanto da raccontare. In termini archetipici è come se fosse già una “Crona”, cioè la depositaria di una saggezza che molte eroine acquisiscono nel corso del loro viaggio. La consapevolezza di Fern viene da numerosi viaggi pregressi. E quello che abbiamo visto non è né il primo né l’ultimo, ce ne saranno altri.