Il mondo nel quale viviamo sembra avere un bisogno estremo di parole. Lo strumento potente della rete assicura la possibilità di esprimere un’opinione sugli argomenti più disparati, mentre i reality show che popolano i palinsesti televisivi donano al pubblico l’illusione di poter osservare dal buco della serratura l’intimità di personaggi, come si suol dire, già noti. Abbiamo bisogno di dettagli, di stabilire consonanze, di scovare differenze che ci permettano di confermare o costruire la nostra identità. È stato più volte sottolineato quanto la dimensione del carcere rifugga dall’esposizione trincerandosi nell’invisibilità, ma c’è un aspetto legato alla sfera detentiva che non accenna a scomparire dalla scena: la fase del giudizio, dunque quelli che abbiamo imparato a definire processi mediatici.
La cronaca nera da un certo momento in poi è diventata il genere prediletto per fidelizzare i lettori. Dopo il Fascismo che aveva orientato l’informazione verso la necessità di fornire l’immagine di un paese in cui vigevano l’ordine e la sicurezza, i giornalisti in Italia sono colti da un irrefrenabile desiderio di libertà che si trasforma, tuttavia, in culto della sincerità: ogni dettaglio deve essere registrato ed esternato poiché soltanto in questo modo si avverte la sensazione di svolgere un buon servizio per la collettività, da qui l’attenzione estrema nei confronti della cronaca e i presunti mostri sbattuti in prima pagina.
Il dolore spettacolarizzato e addomesticato attraverso lo schermo
Ma perché i fatti di cronaca nera destano così tanto interesse nel pubblico? La risposta a questa domanda ha radici lontane e risiede, in parte, nell’esigenza di osservare e comprendere i nostri simili. A quanto pare la sopravvivenza dell’essere umano si lega intimamente alla necessità di riconoscere il volto dell’Altro. Quel volto attraverso cui, come sosteneva Emmanuel Lévinas, l’“Altro da sé” si rivela come manifestazione di finitezza e al contempo di trascendenza; quel volto che ci mette di fronte all’esistenza di un essere umano che, in quanto esistente, limita la nostra libertà ma ci rende responsabili della sua stessa vita. L’Altro esiste, se incrocia i nostri occhi, e quello sguardo è garanzia di indissolubilità. Il volto è un elemento di grande importanza, non a caso la proto-criminologia si basava sulla fisiognomica. Cesare Lombroso, maggior esponente dell’antropologia criminale ottocentesca, sosteneva che fosse possibile riconoscere un criminale dai suoi tratti fisici e ancora oggi, nonostante queste teorie siano superate, l’osservazione dei tratti somatici assume una certa rilevanza anche nell’ambito delle scienze criminologiche.
Le ragioni per le quali siamo così tanto interessati ai fatti di cronaca nera sembrano essere di natura cognitiva. Il male è qualcosa di incredibilmente affascinante e, come tutte le cose che seducono, è relegato a una dimensione altra, ci avviciniamo ad esso quel tanto che basta per sfiorarlo ma stiamo ben attenti a non accarezzarlo poiché il rischio è che possa risucchiarci. Lo schermo del televisore o le pagine di un giornale rappresentano il velo protettivo attraverso il quale soddisfare la nostra curiosità: ingoiamo ogni giorno una pillola contenente piccole particelle di sublime tanto da assuefarci. Ascoltiamo le vicende di sparizioni e omicidi sapientemente narrate che provocano allo stesso tempo identificazione e straniamento. Di volta in volta ci riconosciamo nella vittima o nel carnefice, ci commuoviamo o proviamo rabbia, ma quello schermo che ci protegge aiuta a definirci in quanto buoni e ad alimentare la narrazione grazie alla quale l’assassino siede sulla poltrona del Maurizio Costanzo Show, i suoi occhi sono davanti ai nostri, le sue parole risuonano nelle nostre orecchie ma in fondo non siamo la stessa persona, una barriera garantisce distanza permettendoci di definirci migliori. E andiamo avanti così a ipotizzare nuove piste investigative mentre il sugo cuoce sul fornello a fuoco lento. I media, allora, attraverso la spettacolarizzazione del dolore e i processi mediatici non fanno altro che alimentare curiosità nei confronti del terribile.
Processi mediatici. Il potere delle ideologie
La televisione è l’antesignana di quel procedimento che si definisce “spettacolarizzazione del dolore”. Nel 1981 il Tg2 trasmette per la prima volta 18 ore di diretta con milioni di telespettatori incollati allo schermo per seguire la vicenda di Alfredo Rampi, noto ai più come il piccolo Alfredino, caduto in un pozzo a Vermicino, nella zona dei Castelli Romani. I palinsesti Rai sono fissi sulla notizia per giorni, inoltre quando la programmazione televisiva tenta di spostarsi sul racconto di altri accadimenti i cittadini italiani protestano chiamando ripetutamente i centralini della Rai. Per tre giorni i soccorritori provano, invano, a salvare Alfredino e per tre giorni le trasmissioni che trasmettono la sua storia raggiungono un record di ascolti inedito fino ad arrivare alla notizia della sua morte e a quel funerale gremito di persone, nonostante l’esigenza di riservatezza da parte della famiglia del bambino. A partire da questo momento la televisione inizia ad occuparsi dei casi di cronaca, della loro narrazione, in maniera inedita e apre la porta a quei casi mediatici che si sono succeduti negli anni, coinvolgendo sempre più il pubblico.
Fare informazione, attraverso la televisione o la stampa, è una forma di esercizio del potere. Il linguaggio in sé è una forma di potere, il che esige una riflessione in merito alla relazione che si crea tra giornalisti e lettori nell’ambito di uno scambio che potrebbe configurarsi in senso gerarchico. Con particolare riferimento al contesto carcerario è interessante comprendere in che modo i responsabili dell’informazione utilizzano il potere di mediazione del quale sono investiti, ossia quali parole selezionano per raccontare la prigione e chi vi abita, o ancor meglio quali strutture narrative. I giornalisti creano una nuova realtà con le loro narrazioni oppure alimentano il sentire comune collocandosi sulla stessa lunghezza d’onda dei propri lettori/telespettatori? Se il carcere è un prodotto culturale di cui la nostra società pensa di aver bisogno, quali parole si utilizzeranno per mantenerlo in vita?
Fotografia di Francesco FormicaDi fronte ai fenomeni sociali e agli input cui siamo sottoposti continuamente, l’essere umano necessita di schemi da poter utilizzare per inserire fatti ed eventi all’interno di una cornice già nota. Il linguista T.A. van Dijk parla di ideologie come «rappresentazioni sociali fondamentali delle credenze condivise da un gruppo», sottolineando che «esse funzionano da cornice che definisce la coerenza generale di tali credenze». Questo meccanismo presuppone la creazione di un confine immaginario ma estremamente funzionante che porta a definire un “noi” e un “loro”, che aiuti a identificare gli amici e i nemici individuando eventuali situazioni di pericolo. Rispetto al problema del Male e dell’attrazione-repulsione che suscita si è posta l’esigenza di costruire delle strutture, spesso installate ai confini della città, nelle quali relegare gli autori di reati. Questo procedimento risponde all’esigenza di soddisfare una richiesta di sicurezza da parte della società ma si nutre anche di una logica simbolica secondo cui tra il rappresentate del Male assoluto e i membri della società civile si frappone un muro di cinta, capace di confermare la nostra identità attraverso meccanismi di identificazione interna e categorizzazione esterna: ecco di nuovo la costruzione di due gruppi contrapposti che dona nuova linfa al concetto di devianza e, quindi, alla costruzione di una norma alla quale aderire.
Chi fa informazione non può eludere questi processi più o meno consci che le persone continuano a mettere in atto, il che produce una narrazione del carcere che oscilla tra il fascino proprio delle dimensioni oscene, l’identificazione nella vittima nonché la repulsione che si avverte nei confronti delle persone accusate di crimini o incarcerate e un’ideologia che si nutre di una logica securitaria in nome della quale, ad esempio, si avverte la necessità di individuare un colpevole nel più breve tempo possibile, confinarlo all’interno di una dimensione invisibile attuando un processo di disumanizzazione e, nel frattempo, scandagliare ogni tratto della sua esistenza al fine di soddisfare l’impulso voyeurista senza mettere mai in dubbio se stessi. Oggi, nell’epoca dei processi a mezzo stampa, la persona detenuta ‒ il condannato che un tempo veniva neutralizzato in piazza ‒ viene invocata nei salotti televisivi al cospetto di conduttori che si dilettano nella costruzione di plastici per riprodurre la scena del delitto, psichiatri forensi, magistrati e opinionisti vari che pur non avendo una formazione specifica danno il loro contributo alle indagini discutendo per ore su possibili moventi e armi del delitto. Tutte queste figure sembrano costituire un coro che riproduce il modello della tragedia greca attraverso il quale si invoca il nome dell’indagato, colpevole o presunto tale, pur essendo egli il grande assente. E il grande assente, in conclusione, continua ad essere la dimensione umana – quindi complessa, autentica – del carcere e delle persone che lo abitano.