nutrizione e malattia terminale

Nutrizione e malattia terminale. «Il cibo significa piacere, gratificazione, dignità», con Lorena Abballe

Insieme a Lorena Abballe, nutrizionista in servizio presso l’Hospice di Isola del Liri, abbiamo affrontato l’argomento nutrizione e malattia terminale soffermandoci sul modo in cui questa professione si declina quando si ha a che fare con pazienti giunti al termine della propria vita, ma soprattutto sul valore simbolico che il cibo assume nella nostra cultura – così come all’interno del processo di cura – condensando significati, valori e stati d’animo.

«Iniziando a lavorare in hospice ho dovuto ripensare quella che per dodici anni era stata la mia professione, concentrata perlopiù sull’elaborazione di piani alimentari individuali in base alle patologie. Ho dovuto rieducare la mia professionalità mettendo da parte l’aspetto clinico e dedicarmi, così, alla dimensione psicologica».

Nutrizione e malattia terminale. Ripensare il proprio ruolo in funzione della cura

«Sono dietista e biologa nutrizionista, ma il mio lavoro in hospice non è prettamente tecnico e va oltre la classica elaborazione di piani alimentari, ad esempio. L’alimentazione, nel malato terminale, è un argomento delicato che ha anche i suoi risvolti a livello psicologico. Tecnicamente nel mio lavoro si può parlare di alimentazione, nutrizione, idratazione, anche perché l’obiettivo è ritardare il più possibile la malnutrizione, considerando che spesso i malati terminali arrivano a rifiutare il cibo per inappetenza, vomito, nausea o stati di ansia che possono insorgere, ma anche a causa di un’alterazione della percezione dei sapori e degli odori. In questi casi interveniamo con alimenti fortificati e supplementi dietetici, fino al momento in cui si arriva a una nutrizione artificiale: parliamo di nutrizione enterale con sondino naso-gastrico, laddove l’apparato gastro-enterico sia integro, o di nutrizione parenterale, ossia endovena, quando si utilizzano sacche nutrizionalmente complete con carboidrati, proteine, lipidi e vitamine.

nutrizione e malattia terminale Hospice Casa delle Farfalle. Fotografia di Martina Lambazzi

Il risvolto psicologico, però, è forse la parte più delicata del mio lavoro, perché sappiamo che il cibo nel caso del malato terminale non è solo nutrizione. Soprattutto nella nostra cultura mediterranea culinaria il cibo significa piacere, gratificazione, dignità e la malattia allontana la persona da tutto ciò, specialmente quando non si è autonomi nel mangiare e dunque la famiglia – o il caregiver – va coinvolta sia sul piano pratico che psicologico. Il mio ruolo, come quello degli altri professionisti, è accompagnare gradualmente la persona verso una maggiore consapevolezza di ciò che le sta accadendo, arginando al contempo le preoccupazioni dei cari. Non teniamo troppo in conto i piccoli problemi clinici che si possono riscontrare, come una glicemia più alta del dovuto o un’ipertensione: siamo qui per assecondare i desideri dei pazienti».

Il valore simbolico del cibo

Parlando di nutrizione e malattia terminale è stato importante riflettere in merito alla valenza che il cibo assume nella nostra cultura e al ruolo che ricopre nella cura, intesa nella sua accezione più ampia. «In hospice dobbiamo appoggiarci necessariamente a un vitto standard nelle scelte alimentari, a tal proposito spesso chiedo alle famiglie di portare cibi che i pazienti mangiavano anche fuori da qui. C’è una signora, qui, che ama il succo di frutta: i parenti sono lontani, vengono a trovarla soltanto nei fine settimana, così se lo chiede a noi operatori la accontentiamo nonostante abbia la glicemia un po’ più alta del dovuto e, quando lo beve, sembra che stia consumando chissà quale pasto. Il cibo è tutto. È ciò che ci dà dignità, gratificazione e piacere.

Nella fase terminale, al contrario, accade che il cibo venga rifiutato. Attraverso le cure palliative prendiamo in carico il paziente globalmente: dobbiamo nutrire il corpo, la mente e lo spirito. Proprio perché si è nell’ultima fase della vita, assecondarsi diventa prioritario».

Fare i conti con la morte, fare i conti con la vita
«Di fronte alla proposta di lavorare in hospice ho avuto paura, all’inizio. In occasione della scrittura della mia tesi di laurea avevo lavorato nell’ospedale Bambin Gesù con bambini leucemici, un argomento complesso che però ho accantonato dedicandomi alla professione in ambito privato. Nonostante la paura, mi rendo conto di essere molto fatalista: se le cose capitano c’è sempre un motivo e io lo capirò, forse, alla fine di questo percorso.
 
nutrizione e malattia terminale Lorena Abballe. Fotografia di Martina Lambazzi

Non sono ancora arrivata al distacco, prendo in carico tutto ed emotivamente – soprattutto in alcune fasi della vita – sono molto sensibile. Spesso, al di là della professionalità che può contraddistinguerci, mi interrogo su quali pensieri prevalgano nei miei pazienti. Rassegnazione? Preoccupazione di lasciare i cari? So che in fondo ognuno muore da solo con i propri se e i propri ma e, per quanto ci si possa immedesimare, ciascuno di noi deve fare i conti con la morte e con la vita. Penso che lavorare qui sia un buon battesimo perché ci permette di comprendere a cosa andiamo incontro nella fase terminale dell’esistenza e ci spinge verso un’accettazione globale. A mancare, per i nostri pazienti, sono le piccole cose quotidiane come la condivisione di una pietanza o la preparazione di una cena. È così che, per quanto mi riguarda, anche noi iniziamo a valorizzare la vita, proviamo a osare».