«Nemesi»: la cognizione del dolore di Philip Roth

“Nemesi”: la cognizione del dolore di Philip Roth

Newark, estate 1944. Una terribile epidemia di poliomelite. Bucky Cantor, ventitreenne animatore di un campo giochi, vede i “suoi” bambini cadere. Queste le coordinate principali attraverso cui si snoda Nemesi di Philip Roth, l’ultima opera del prolifico scrittore americano che, dopo averci regalato capolavori quali – fra gli altri – Pastorale americana (1997), La macchia umana (2000), Il complotto contro l’America (2004) e Indignazione (2008), affida prima alle colonne della rivista francese “Les InRocks” l’annuncio della decisione di chiudere definitivamente con la scrittura, per poi scomparire a 85 anni, il 22 maggio 2018, a causa di un’insufficienza cardiaca. Un libro maturo, riuscito, sicuramente uno dei migliori dell’ultimo Roth, capace una volta di più di allargare i confini di una storia pur adeguatamente contestualizzata fino a includervi implicazioni ben più vaste che riguardano il destino e il senso dell’esistenza umana.

Nemesi è un romanzo sull’inevitabilità del male e della sofferenza che colpisce le creature più indifese – i bambini – minandone il fisico e conducendole, in diversi casi, alla morte. L’ideale di vigore e di pienezza fisica che ricorre in più punti del libro, esemplificato – pur con l’eccezione di un difetto alla vista che ne pregiudica l’arruolamento nelle forze americane impegnate sul fronte europeo e nel Pacifico – nel personaggio di Bucky Cantor, è destinato a vedersi mortificato, oscurato da quell’atroce ombra di morte che destabilizza gli animi e riempie le camere d’ospedale. Lo stesso Bucky, educato fin dall’infanzia alla disciplina e al senso del dovere, non riesce a rassegnarsi all’ineluttabilità degli eventi, mentre i ragazzi del campo giochi di cui è animatore vengono decimati dalla malattia; preferisce un lacerante senso di colpa alla rassegnata affermazione della propria impotenza:

«In uno come Bucky il senso di colpa potrebbe sembrare assurdo, ma in realtà è inevitabile. Una persona così è condannata. Niente di ciò che fa è all’altezza dell’ideale che nutre dentro di sé. Non sa mai dove finisce la sua responsabilità. Non accetta i propri limiti perché, gravato da un’austera bontà naturale che gli impedisce di rassegnarsi alle sofferenze degli altri, non riconoscerà mai di avere dei limiti senza sentirsene in colpa».

“Perché?”: l’atavica domanda risuona nelle viscere di Bucky. La strenua ricerca di un senso ultimo, dell’individuazione di un responsabile – in questo caso Dio – cui addebitare il peso dell’infelicità e del dolore sono altrettanti tentativi per non sprofondare nello sconforto del caso e della vana gratuità dell’esistenza:

«Bucky non riusciva ad accettare che l’epidemia di polio fra i bambini di Weequahic e del campo di Indian Hill fosse stata una tragedia. Doveva trasformare la tragedia in colpa. Doveva trovare una necessità a quanto accaduto. C’è un’epidemia e lui ha bisogno di trovarne la ragione. Deve chiedere perché. Perché? Perché? Che si tratti di qualcosa di insensato, contingente, incongruo e tragico non lo soddisfa. Che si tratti del proliferare di un virus non lo soddisfa. Cerca invece disperatamente una causa più profonda, questo martire, questo maniaco del perché, e trova il perché o in Dio oppure in se stesso oppure, misticamente, misteriosamente, nel loro letale fondersi nell’unico distruttore».

Recensione di Philip Roth, Nemesi, Einaudi, Torino, 2011