Barbie

I binomi creatrice/creatura, idea/ideale in Barbie

Su Barbie e di Barbie si sta scrivendo molto nell’ultimo periodo. Tra chi apprezza la sua abilità di parlare al grande pubblico di temi complessi, chi ha amato le citazioni cinematografiche, chi ha versato qualche lacrima con mamme, nonne, zie, sorelle, amiche e chi invece non ha gradito la presenza dei grandi marchi o del temutissimo femminismo.

Barbie fa parlare molto perché di molto c’è bisogno di parlare. Succede perché è un film scritto da chi conosce l’argomento e attraverso cui è possibile sentire l’autenticità pura della rabbia generazionale oltre che la comicità e l’astuzia data dallo sfruttamento e la conoscenza delle regole del mercato cinematografico.

Addentrarsi in ogni pertugio dell’opera sarebbe sforzo non sostenibile da un unico articolo ed è per questo che mi soffermerò su ciò che mi ha fatto piangere di più, in quanto donna, studentessa di cinema e autrice finalmente rappresentata di numerose Barbie Strambe (nota della scrittrice: chiedo scusa a mia sorella per aver giocato troppo forte con tutte le sue Barbie).

Di Barbie mi hanno colpita i binomi creatrice/creatura, idea/ideale.

Devo ammettere di aver attraversato nella mia infanzia la fase più dedita al rifiuto del femminile. Amavo i vestiti larghi e i lavori creativi non tanto, come credevo, per il comfort che irradiavano e la felicità trasmessa ma quanto più per la facilità con cui queste scelte venivano lette e incasellate. Per famiglia e amici sono da sempre stata “l’artista”, una bambina e poi ragazza a cui non piaceva curare (o curarsi), con poco rosa attorno e una lingua pungente pronta a diminuire l’ingegno o l’impatto dei prodotti esplicitamente più femminili. A posteriori, so riconoscere questa fase come il famoso e molto approvato tentativo di non essere come le altre.

Allo stesso modo della citazione Kubrickiana iniziale del film, l’alba dei miei 20 anni ha complicato tutto. Ho iniziato ad abitare spazi più sfumati e sicuramente più scomodi, con tante idole a cui guardare e tante idee da rivalutare. È con questo approccio che qualche settimana fa ho occupato la sala del cinema, vestita di rosa, e ho guardato attentamente un momento del film in particolare. Nella scena finale di Barbie c’è un limbo in cui quest’ultima si trova faccia a faccia con la sua Creatrice e proprio lì scocca come una freccia la frase che mi ha fatto sentire come se ogni tassello fosse andato al suo posto: “I want to be part of the people that make meaning, not the thing that’s made; I wanna do the imagining, I don’t wanna be the idea”.

In quel momento, nella sala scura dove sapevamo già di essere commossi e commosse ma senza capire bene per cosa, ho trovato – forse per la prima volta – il legame con Barbie.

Non avrò giocato con lei pensando di poter diventare chiunque volessi pur non rinunciando al mio essere donna, non le avrò sistemato i vestiti da avvocata, membro delle corte suprema o dottoressa pettinandole i capelli e offrendole intricate sceneggiature da recitare, ma compiendo un lungo giro sono arrivata anch’io a quella tenerezza. Forse il mio percorso è stato più impervio perché le trappole sono tante e per evitarle ho preferito essere un’idea poco pericolosa e rabbiosa.

Sotto forma di film Barbie mi ha ispirata lasciandomi osservare nel linguaggio che preferisco il vero potenziale dei simboli e delle rappresentazioni. Ho avuto il piacere di guardare una personaggia muoversi nella sua fabbrica d’origine per lasciare il suo passato da artefatto nel momento in cui percepisce di essere altro da se stessa. Barbie che è stata fatta da qualcuno, che è la forma di un ideale, risveglia le coscienze delle donne che sentono sui loro corpi e le loro menti il peso dell’idea del patriarcato.

Come suggerisce il fantasma di Handler, infatti, noi umani, tutti, creiamo – chi il patriarcato, chi bambole, chi i film – per provare ad alleviare quella sensazione di essere solo un’idea nata da qualcun altro, per partecipare, per espanderci.

Barbie è riuscita a trovare se stessa anche grazie al privilegio di dialogare con la sua Creatrice, (possibilità non proprio garantita a tutti e a tutte) ma come lei dobbiamo ricordarci che, con lo sforzo che deriva dal pensarsi centrate su noi stesse, possiamo rompere quella catena invisibile del controllo che ci impedisce di abitare il mondo che desideriamo.

Così come Barbie è stata creata da Ruth Handler per onorare sua figlia del primo gioco che potesse rappresentarla al di fuori dell’essere madre, così tutti i creativi del mondo trovano il modo di far del proprio dolore o delle proprie delusioni degli oggetti confortanti per poi lasciarli sulla Terra al prossimo. “Ideas are eternal, humans… not so much”.

Ho trovato una connessione con Barbie perché, tramite le mani di Greta Gerwig, ha guarito la bambina che non sapeva cosa volesse essere all’interno di un mondo che alle bambine sussurra da subito, e prima ancora che possano rispondere, la giusta versione di sé da adottare.

Con un approccio metacinematografico Gerwig ha Creato nuovamente Barbie vestendola con un’epoca e un medium diverso ma tenendo ben a fuoco contraddizioni, gioie e dolori dell’essere donne e non solo rappresentazioni di esse. Insieme a questo, e più personalmente, Gerwig mi ha ricordato che nella vita voglio creare, nonostante tutto, per entrare a far parte delle persone che offrono significato e voglio farlo con il mio vissuto che, in parte, combacia con il vissuto di tutte. Barbie, grazie alla sua regista (ma anche grazie alla sua produttrice), in quest’ottica è stata per me una lettera d’amore al cinema e alle storie che dimostrano sempre più di essere infinite ed inesauribili.

Forse, dopotutto, non è vero che non voglio essere madre; forse voglio essere quel tipo di cui si parla nel limbo, quello vicino all’essere Creatrice, che un giorno arresterà il suo percorso per essere guardata dalle sue figlie nel tentativo di percepire quanta strada hanno fatto.