Laboratorio Zen Insieme

«L’assistenzialismo è una scorciatoia, significa non farsi carico del durare». Lo Zen attraverso la voce di Mariangela Di Gangi

Con Mariangela Di Gangi, coordinatrice del Laboratorio Zen Insieme da quasi dieci anni, abbiamo scelto di parlare dell’evoluzione storica dello Zen – una zona di edilizia popolare nata già con delle problematiche intrinseche, dalle speculazioni edilizie e dall’incompiutezza della sua realizzazione all’«espulsione sociale» di cui sono state causa – per capire cosa sia effettivamente il Laboratorio Zen Insieme e quale posto occupi nella rete sociale del quartiere.

Lasciato incompiuto e di fatto abbandonato ad uno stato di isolamento politico e geografico, nel corso degli ultimi decenni lo Zen di Palermo è diventato oggetto di una narrazione spersonalizzante e accusatoria, anziché un motivo da cui prendere ispirazione per riflettere criticamente sulle enormi e ipocrite contraddizioni del nostro paese.  

Tra Mariangela e lo Zen c’è un rapporto diretto, un discorso aperto che viene detto fuori dai denti attraverso un contributo reale e tangibile, il Laboratorio Zen Insieme, ormai un centro che si è portato fuori, nella comunità, e ne è diventato una parte integrante. «La partecipazione non parte dal basso, è un punto di incontro, è un metodo. Non esiste il basso che si auto-organizza: il basso si può incontrare con qualcosa che lo mette in condizioni di esprimersi e che lo rispetta».

Laboratorio Zen Insieme Mariangela Di Gangi al Laboratorio Zen Insieme. Fotografia di Francesco Formica

La realizzazione dello Zen parte per rispondere all’esigenza di costruzioni edilizie popolari, ma qual è il disegno urbanistico originario?

Lo Zen viene pensato insieme ad altre strutture residenziali pubbliche, ma a Palermo esisteva un importante fabbisogno di case e di abitazioni: a causa del terremoto erano molte le persone che vivevano in condizioni di indigenza. In prima battuta viene pensato lo Zen 1, lo Zen 2 arriva più tardi nel pieno della speculazione edilizia di quel periodo, che è quello del Sacco di Palermo e del sindaco Ciancimino. Originariamente questi erano terreni con destinazione d’uso agricola, ad un certo punto diventano edificabili e su queste basi molto pregiudicate dal punto di vista etico nasce il quartiere.

Per di più l’architetto Vittorio Gregotti decise di sperimentare, all’epoca si usava farlo: hanno sperimentato sulla vita di più di 3.000 famiglie e il risultato è questo. La sua idea era quella di riprodurre l’ambiente rurale della Conca d’Oro, senza però porsi il problema che la costruzione di questo quartiere avrebbe comunque distrutto tutti gli agrumeti. Il disegno originario non è mai stato completato, si può giudicare la validità di un progetto finito, quando si ha, ad esempio, la parte relativa agli spazi di socialità, ma non sono mai stati realizzati.

A nostro avviso, questa sperimentazione si è risolta in una segregazione dentro la segregazione: le insule sopraelevate rispetto al livello della strada, ad esempio, altro non sono se non un altro livello di cesura, da aggiungere a quello della circonvallazione.

Anche lo Zen 2 infatti rientra in quel filone di sperimentazione di edilizia popolare, in cui sono stati fatti rientrati diversi quartieri delle città italiane, tra i più famosi il Corviale a Roma, le Vele di Scampia, Gallaratese a Milano.

Sì, è stata una scuola di pensiero che ha cristallizzato l’esclusione sociale. Oggi, nessuno mai penserebbe di prendere 3.000 famiglie indigenti e di stiparle tutte insieme in un unico posto, ma all’epoca si faceva e il risultato è sotto gli occhi di tutti. In tutte le città, da Torino a Milano, Roma, Napoli, Catania, sono presenti dei quartieri realizzati sulla base di quella scuola di pensiero e in qualche modo poi sono diventati dei problemi sociali.

Parlando con gli altri operatori del Laboratorio Zen Insieme è emerso che anche la regolarizzazione delle abitazioni allo Zen 2 è una questione molto complessa e difficile da risolvere.

La regolarizzazione delle abitazioni è più che altro un problema politico, perché da un punto di vista squisitamente burocratico, a trentasei anni dalla prima occupazione, le difficoltà sono state superate. La verità è che allo Zen 1, anche questo occupato prima del suo completamento, le occupazioni furono mediate da lotte sociali importanti, anche grazie al Pci, sensibile a questa tematica. La lotta in questo caso è proseguita rispetto alla totalità del diritto, quindi anche rispetto alle assegnazioni delle abitazioni.

Allo Zen 2 invece le occupazioni non sono state mediate attraverso una lotta sociale, sono state – nella migliore delle ipotesi – spontanee. Questo ha impedito la formazione di una grande forza in grado di rivendicare il completamento del quartiere e questo mancato completamento, a sua volta, blocca l’agibilità amministrativa. In realtà, però, ci stiamo rendendo conto che è un problema superabile perché adesso le case vengono assegnate, sintomo del fatto che si poteva fare e che non è stato fatto perché lo Zen era diventato utile al sistema città in questo modo. Serviva.

Laboratorio Zen Insieme Dai palazzi dello Zen 2. Fotografia di Martina Lambazzi

Il tema dell’assegnazione della casa è un tema che va visto all’interno delle deprivazioni degli altri diritti: avere diritto ad un titolo che ti lega a quella che senti casa tua è sicuramente un prius, ma non è tutto. Oggi la situazione è così tanto ingarbugliata che servirebbe quella che chiamo un’operazione di “straordinaria normalità”: bisognerebbe trovare il coraggio e la forza di intervenire vedendo insieme e contemporaneamente tutti i singoli problemi: gli spazi pubblici, la manutenzione dell’acqua, l’assegnazione delle case, i servizi mancanti, le azioni repressive, l’ordine pubblico, l’educazione.

Non si può più risolvere il problema se non con una grande operazione di regia complessiva, perché tutti i problemi si toccano uno con l’altro. Quando non si ha la capacità di imporre questo schema, allora si cerca di risolvere una cosa alla volta, che è comunque utile – ne sono un esempio le case assegnate, che speriamo diventino sempre di più – ma non ridisegnano il quartiere. Sono ostile alla teoria della toppa.

Il Laboratorio Zen Insieme cosa rappresenta all’interno di questo quadro?

In un quadro complessivo che vuole vedere lo Zen come un quartiere che sta peggio rispetto ad altri, quello che siamo riusciti a mettere in piedi con il Laboratorio Zen Insieme è qualcosa che lo rende un quartiere messo meglio rispetto ad altri. Questo è un centro di comunità perché non ci siamo mai chiusi qui dentro, non abbiamo mai pensato al Laboratorio Zen Insieme come un luogo fisico ma lo abbiamo sempre declinato all’esterno, non lo abbiamo mai legato ad un aspetto della vita di comunità, volevamo fin dall’inizio che fosse strumento per tutti gli aspetti della vita del quartiere, perché crediamo profondamente che la prossimità sia la soluzione a molti problemi sociali.

Quello che oggi salta più agli occhi è il fatto che avvicinare l’interlocuzione o il servizio ai cittadini e alle cittadine sia già parte della soluzione. Siamo uno strumento del quartiere, non per il quartiere. Ci siamo finché siamo utili e pensiamo il nostro stare qui come una continua evoluzione rispetto all’evolvere del quartiere stesso: non siamo gli stessi di dieci anni fa.

Laboratorio Zen Insieme Campetto di calcio intitolato a Andrea Parisi nel quartiere Zen 2. Fotografia di Martina Lambazzi

Viviamo in un’epoca storica di forte “espulsione” sociale e in quartieri come questo è ancora più evidente. Ed è diverso dall’esclusione: questa si verifica quando una parte di persone non riesce ad essere recuperata e inserita nel sistema sociale. L’espulsione è altro, vive secondo la logica per cui “più stanno per i fatti loro, meno imparano, meno apprendono, meno rivendicano e meno saranno un problema”.

Abbiamo un paese culturalmente poverissimo, un enorme deficit democratico, che non è un tema soltanto culturale, ma un problema di vero e proprio accesso alla democrazia. La soluzione è portare le cose in mezzo alle persone e non aspettare che siano le persone a venire da te, perché non trovano più nemmeno interesse nel farlo, trovano altri modi per cavarsela. 

Essere qui significa essere sentinella, strumento e anche rappresentanti di quello che la nostra Costituzione sancisce come principio di sussidiarietà orizzontale e verticale, il terzo settore è chiamato a farsi carico in maniera corresponsabile di una parte delle politiche del paese. Proviamo a fare questo stando molto vicini. Siamo qui proprio perché pensiamo di avere il privilegio di poter declinare una parte di società, di stato, di tutto quello che comporta farne parte, in un quartiere in cui c’è più bisogno che altrove che le cose vengano avvicinate.

Qui, all’interno del Laboratorio Zen Insieme, una caratteristica della vostra attitudine all’intervento sociale arriva più chiara rispetto a tutte le altre: una rete partecipativa che rifiuta lo spirito assistenzialista e che vi unisce, ispirando ognuno a metterci del proprio.

È molto bello che si percepisca. Penso che al modo di stare in un posto ci si arrivi anche collettivamente, non è soltanto l’idea di un singolo a cui si aderisce, ma è una cosa che facciamo insieme e a cui arriviamo insieme. È sicuramente un patrimonio collettivo che ci distingue dal resto delle altre organizzazioni. È un’analisi coraggiosa quella che abbiamo fatto, cosa significa fare terzo settore? Non siamo mai venuti qui con l’idea di insegnare qualcosa a qualcuno o di portare soluzioni pronte. Ci siamo messi in posizione di ascolto, un ascolto sicuramente critico, ma ascolto. Di conoscenza e reciproco scambio. Non sono soltanto belle parole, è la verità: quando sono arrivata qui mi aspettavo delle cose, ne ho trovate altre, ho rimodulato me stessa, si è rimodulato il mio rapporto con il quartiere, che è molto forte.

L’assistenzialismo è una scorciatoia, significa non farsi carico del durare e significa anche che la finalità non è quella di trasformare il territorio, ma rischia di essere un modo per far vivere egoisticamente il proprio strumento. Per noi l’assistenzialismo sarebbe diventato frustrante. La parola cardine non è tanto responsabilizzare, ma attivare le persone. Sono fiera del fatto che molte delle persone che lavorano al Laboratorio Zen Insieme siano di questo quartiere, perché se domani noi non fossimo più qui resterà comunque un seme, che ormai è pervasivo.

La partecipazione non parte dal basso, è un punto di incontro, è un metodo. Non esiste il basso che si auto-organizza: il basso si può incontrare con qualcosa che lo mette in condizioni di esprimersi e che lo rispetta. Se vuoi costruire partecipazione devi costruire le condizioni affinché le persone sentano di poter trasformare quello che hanno e di essere responsabili di quello che fanno.

Quali sono i risultati raggiungi di cui ti senti più orgogliosa?

Non so rispondere a questa domanda in realtà, perché ho imparato ad abbracciare la complessità. Senza essere melodrammatica, qui è stato tutto veramente una grande fatica, una battaglia, quindi tutto. È tutto motivo di grande orgoglio perché tutto è importante e non saprei fare una scala di valori, soprattutto perché tutto è concatenato: dal modo in cui ora riusciamo a lavorare alla Biblioteca Giufà, al campetto di calcio intitolato ad Andrea Parisi. Non avremmo realizzato la biblioteca se non avessimo avuto il centro, non avremmo avuto il campetto di calcio se non avessimo lavorato a stretto contatto con gli abitanti.

Laboratorio Zen Insieme Mariangela Di Gangi nel cortile del Laboratorio Zen Insieme. Fotografia di Francesco Formica

Quando sono arrivata mi ero posta tre obiettivi: riaprire e rendere funzionante questo centro, ottenere le assegnazioni delle case e realizzare una piazza. Per i primi due possiamo dire di esserci riusciti, il terzo è in cantiere, ma non è questo l’importante. Dieci anni fa guardavo questi risultati con occhi da esterna, ora invece considero il come lo abbiamo fatto, il modo in cui ci siamo arrivati.

Tempo fa parlavamo dello spazio che educa, nel quartiere si nota una differenza tra dentro e fuori.

Qui la discrasia è dentro fuori. Anche questa è una forma di educazione che ti offre lo spazio: come fai ad essere una persona che si prende cura delle cose comuni quando cresci vivendo quotidianamente la differenza tra una casa perfetta e uno spazio esterno completamente non curato? È un problema che affrontiamo. La rigenerazione urbana non si esaurisce nel progettino del parco giochi o di qualsiasi altro spazio pensato per essere esteticamente bello, ha senso solo se diventa un metodo di trasformazione dello spazio come pratica educativa. Come fai a non crescere arrabbiato e distaccato dal senso di comunità in questo quartiere?

Tra l’altro viene da chiedersi quale senso di comunità se fuori vengono scaricati anche i rifiuti delle aziende, tra cui l’amianto.

Questo quartiere è la polvere nascosta sotto al tappetto. Questo è chiarissimo, anche per questo non vengono assegnate le case, si vuole che questo quartiere rimanga la polvere nascosta sotto al tappetto. Poi però per fortuna ci sono le persone che vivono qui e che non hanno alcuna intenzione di rimanere nascoste da nessuna parte, ma non possono diventare eroi ed eroine. Per questo c’è ancora bisogno del nostro lavoro: è più facile che alcune cose le dica io e non chi ci vive, non perché le persone abbiano bisogno di una portavoce ma perché qui ci vivono, io no.

In quale modo negli anni questo lavoro e questo quartiere ti hanno cambiata?

In tantissimi modi, questo quartiere mi ha risignificato il concetto di fiducia. La fiducia spesso viene vista come reciprocità e lo è, ma è ancora di più un intendersi sulle premesse. Mi ha sicuramente insegnato a pormi il problema del risultare comprensibile agli altri, ad utilizzare più codici, a pormi meglio. Oggi riesco a farmi capire meglio dalle persone che hanno, non per colpa loro, un background culturale diverso dal mio. Mi ha insegnato moltissimo a non giudicare, ho imparato ad indagare, a soffermarmi e congelare il giudizio. Questo quartiere mi ha insegnato la complessità e a saperci camminare dentro. E poi ho imparato le canzoni neomelodiche e la trap.