«Sotto la bandiera della libertà dell’industria si sono fatte le guerre più brigantesche», Lenin
Una delle personalità più illustri di questo paese, Gino Strada, ci ha lasciati da pochissimo tempo e ovviamente non è mancata una delle abitudini che meglio rappresenta il tempo in cui viviamo: la scarrellata social di saluti in cui ogni persona, più o meno famosa, coglie l’occasione per riportare alla memoria anche il più piccolo evento vissuto insieme, spesso una foto scattata di corsa, per ricordare il defunto pubblicamente.
Sorvoliamo senza giudicare questo aspetto, per far spazio invece ad un argomento che di popolarità non ne ha trovata nemmeno in questi tristi giorni: la guerra e, soprattutto, i costi e i guadagni che riguardano una delle attività che l’essere umano compie fin dagli albori della sua presenza sulla terra. La discussione pubblica infatti tende sempre a concentrarsi sui singoli eventi, se vissuti in contemporanea, e sulle grandi cause e cambiamenti che i conflitti apportano alla storia mondiale. Tuttavia, mai nessuno, nel calderone della grande discussione pubblica di rilevanza nazionale, si sofferma a riflettere e a indagare quanto e come ogni stato guadagni dalle guerre.
Naturalmente raccoglie più facile adesione la foto delle bare o dei soldati che afferrano i bambini al di là del filo spinato, mentre è molto più complesso parlare e comprendere di quanto un singolo stato investa e guadagni dai conflitti armati, soprattutto perché è un argomento che riguarda ogni singolo cittadino di tutti gli Stati in questione.
L’Italia vende armi a qualunque paese, contro ogni legge ed etica: l’importante è guadagnare
Anche per il 2021 in Italia la spesa militare è cresciuta, precisamente dell’8,1% rispetto al 2020 per un ammontare complessivo del valore di 24,97 miliardi di euro, come riporta il rapporto effettuato da MIL€X. Guardando ancora un po’ più indietro e facendo riferimento al medesimo rapporto, si può osservare come rispetto al 2019 la crescita delle spese militari italiane sia aumentata addirittura del 15%, fondamentalmente per gli acquisti di nuovi sistemi d’arma. In queste spese rientrano non solo gli acquisti di sistemi di difesa e simili, ma anche il contributo diretto alla NATO e quello alle basi americane.
Ovviamente lo stato italiano non investe a caso così tanti soldi nel settore, anzi, è tra i più redditizi e proprio la vendita delle armi è fonte di grandissimi guadagni. Spesso, però, si sono innescate polemiche e critiche nell’opinione pubblica, che riconoscerebbe un conflitto con la Costituzione, riguardo ai soggetti a cui l’Italia ha venduto le armi. Nel nostro paese, infatti, esistono regole specifiche per la vendita di prodotti bellici.
Fotografia di Francesco Formica
Ogni azienda produttrice (Leonardo è la più grande della nostra nazione ed il suo primo azionista è il Ministero dell’Economia e delle Finanze) deve ottenere permessi e autorizzazioni direttamente dal governo, poiché può vendere le armi solo ai paesi che non costituiscono un pericolo per la difesa nazionale o per la politica internazionale in cui l’Italia è impegnata. Paradossalmente inoltre, tale vendita va svolta in conformità al valore costituzionale secondo cui l’Italia ripudia la guerra, o almeno in teoria. Nello specifico le aziende non possono vendere le armi ai «paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite [quello che prevede il diritto di uno stato a usare la forza in caso di legittima difesa]».
Il punto più critico riguarda dunque i paesi a cui vendiamo le armi, poiché tra questi spuntano Egitto e Arabia Saudita. Il primo naturalmente viene aspramente criticato per il “caso Giulio Regeni”, sul quale la nazione nordafricana continua ad ostacolare le regolari indagini, addirittura manomettendole come già dimostrato. Una situazione in cui tutti i governi italiani che si sono succeduti negli anni non hanno mai saputo opporsi, rimanendo sempre in un omertoso silenzio. Bisogna poi considerare che il presidente egiziano Abdel Fattah al Sis ha progressivamente reso l’Egitto un paese autoritario, pertanto non va assolutamente esclusa la possibilità che gli armamenti venduti dall’Italia siano utilizzati dal governo per imporre il proprio potere sulla popolazione.
Relativamente all’Arabia Saudita un’inchiesta del New York Times ha dimostrato come le bombe dell’azienda RVM, che possiede una fabbrica anche in Sardegna, siano state usate per i bombardamenti contro lo Yemen, venendo di fatto a mancare totalmente il criterio della legittima difesa. In questo caso il silenzio del governo italiano è forse ancora più grave, poiché nonostante i richiami del Parlamento Europeo, i nostri politici hanno addirittura cercato di sfruttare delle zone d’ombra della legge, dichiarando ad esempio che non si può parlare di conflitto ufficiale perché effettivamente l’Arabia Saudita non ha mai dichiarato guerra allo Yemen. Il paese arabo, tra l’altro, è accusato anche di crimini di guerra e non si fa scrupoli a bombardare un paese estremamente povero, a differenza sua, che non può neanche contare su una fornitura sufficiente di acqua. Infine, l’Arabia Saudita non si è mai posta problemi nel bombardare civili, ospedali e scuole, causando una gravissima crisi umanitaria sulla quale il mondo sta tacendo.
La morte è più redditizia di istruzione e sanità
Come abbiamo potuto constatare, la spesa militare cresce costantemente di anno in anno, a differenza degli investimenti in istruzione e sanità. Relativamente alla prima, l’Italia spende pochissimo del proprio PIL, risultando al quartultimo posto dei paesi dell’Unione Europea, seguita solamente da Romania, Irlanda, Bulgaria e Slovacchia, mentre è l’ultimo paese se si considera la percentuale della propria spesa pubblica. Per quanto riguarda la sanità la situazione è ancora più critica: viene investito solo l’8,7% del PIL, mentre paesi come Germania, Svezia, Francia, Belgio, Austria, Danimarca, Finlandia, Malta e Spagna superano il 9%, raggiungendo l’11% nel caso dei tedeschi.
Fotografia di Francesco Formica
Naturalmente il comparto militare rappresenta un settore che nel nostro paese pare non possa essere fermato, né dai casi che implicano compromissioni etiche come quelli di Egitto e Arabia Saudita, né tantomeno dalla pandemia che ormai bene conosciamo. Nonostante infatti i grandi canali di comunicazione abbiano optato per un silenzio generale in merito, bisogna constatare che le fabbriche militari di Confindustria non si sono mai fermate durante il lockdown e mentre i telegiornali nazionali continuavano ad infervorarsi prima contro i runner e poi contro la movida, l’Italia ha continuato a produrre aerei per bombardare come se niente fosse.
Nel periodo più duro della pandemia era un continuo sentire frasi e termini presi in prestito dal settore bellico per raccontare il dolore causato dalle vittime, ma soprattutto l’impegno dei sanitari che erano diventati soldati in trincea contro i nemici infidi, e così via. Tuttavia, se si fosse trattato veramente di soldati o di bombardamenti il governo li avrebbe sicuramente considerati in maniera diversa, poiché in rapporto al PIL la spesa sanitaria ha perso negli ultimi anni lo 0,5%, mentre quella bellica ha guadagnato lo 0,2%. Un aereo da guerra, come quelli prodotti nel nostro paese, costa la bellezza di 125 milioni di euro, quanti respiratori avremmo potuto acquistare con gli stessi soldi?
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