impresa funebre

«La morte è un momento in cui si cerca di rispondere alle domande fondamentali dell’essere umano», l’impresa funebre Sodani

Il ruolo dell’impresa funebre è cambiato nel tempo. Sebbene la legge non preveda per gli operatori e le operatrici specifici percorsi professionalizzanti, le competenze richieste sono trasversali. Ne abbiamo parlato con Mario Sodani, teologo di formazione e titolare di un’impresa funebre a Ceccano. Il senso dell’attività che gestisce da anni sta nell’intento «di imparare a rapportarci alle persone che hanno subito un lutto e permettere loro di vivere questo momento con lucidità e dignità, soprattutto quando non è stato preannunciato».

La nostra chiacchierata è stata un’occasione per ripercorrere i cambiamenti di un’attività considerata a lungo marginale, ma anche per riflettere in maniera inedita sul senso della morte. «Sarebbe bello se riuscissimo a vivere la gioia nel momento in cui una persona muore, dal punto di vista umano è difficile da accettare ma dal punto di vista cristiano è qualcosa di meraviglioso».

L’avvio dell’impresa funebre Sodani. «Noi, in fondo, entriamo nei segreti delle famiglie»

«La famiglia Sodani ha avviato l’impresa di onoranze funebri nel 1921 su intuizione della più piccola di famiglia, una donna, perché nelle nostre imprese non sono mai apparse ufficialmente le donne, ma di fatto erano dietro le quinte. Mia zia, all’epoca, è stata la prima a suggerire al padre di avviare questa attività. La nostra famiglia si è occupata di tutti i funerali della provincia in maniera molto semplice, all’inizio, poi la figura dell’operatore si è evoluta attraverso un approfondimento della liturgia, una capacità acquisita nel tempo di accompagnare le persone durante l’elaborazione del lutto. Noi curiamo il primo approccio, lavoriamo esclusivamente su chiamata con persone che conoscono il nostro modus operandi, rispettoso e non invasivo.

Inizialmente non volevo fare questo lavoro. Mi sono ritrovato a capo dell’impresa funebre a 34 anni, dopo la morte di mio fratello che se ne occupava da solo. Ricordo che aveva preso degli operai in affido carcerario e come prima cosa, una volta arrivato, dissi: “insegnatemi tutto quello che avete imparato da lui”. Dovevo farlo entro sei mesi, altrimenti rischiavo di chiudere l’attività. Grazie a loro ho frequentato una scuola di formazione e ho intrapreso un percorso molto dettagliato partendo dalle basi fino al ruolo di cerimoniere liturgico al quale mi sono avvicinato studiando Teologia, Filosofia e Bioetica prima con i Gesuiti e poi con i Legionari.

Ho scelto di trasformare la società in una sorta di cooperativa sociale reinvestendo nelle persone che lavorano con me quello che è il mio guadagno. Ci tengo a mantenere uno standard elevato perché nel pensiero comune l’operatore funebre è un professionista di bassa cultura e fa un mestiere di cui si deve quasi vergognare. Chi lavora con me entra in contatto con una gestione diversa, apprende le modalità di comunicazione più efficaci, cerca di capire i flussi di mercato. L’impresa è diventata occasione di reinserimento, come aveva pensato mio fratello, ma questa volta cosciente, perché bisogna saper entrare in contatto con il lutto e con le famiglie che lo vivono. Noi operatori, in fondo, entriamo nei segreti delle famiglie».

La formazione e i progetti. «Sogno di poter riunire in una cooperativa tutte le imprese funebri»

«Gli operatori funebri devono avere delle competenze trasversali, ma la normativa non prevede nulla di impositivo. Si parte dall’editto di Saint-Cloud con Napoleone passando per il Regio Decreto all’inizio del Novecento fino ad arrivare al D.P.R 285/90 del Presidente della Repubblica e alle circolari ministeriali. Esistono delle federazioni oltre ai corsi specifici, che però sono demandati alla regione. Io mi batto da anni per un riconoscimento e mi auguro che in futuro si preveda un albo come in tutte le professioni. Ceccano ha una lunghissima tradizione di impresari, ci sono delle famiglie che storicamente portano avanti questa attività imprenditoriale e trasmettono i loro valori.

L’impresa funebre, come si diceva, è cambiata molto e l’operatore, oggi, deve diventare quasi un cerimoniere. Per questa ragione abbiamo seguito dei percorsi di elaborazione del lutto a Trento con l’intento di imparare a rapportarci alle persone che lo hanno subito e permettere loro di vivere questo momento con lucidità e dignità, soprattutto quando non è stato preannunciato. In base alla visione cristiano-cattolica quando muore una persona bisogna vivere quel momento con felicità, capita invece che le persone maledicano Dio o non riescano a comprendere quello che è accaduto. La morte rappresenta un momento in cui si cerca di rispondere a quelle che sono le domande fondamentali dell’essere umano, lo stesso facciamo con l’impresa.

Sogno di poter riunire in una cooperativa tutte le imprese funebri della provincia, perché noto che nel nostro ambito non esiste una visione di largo respiro. Vent’anni fa ho proposto ai colleghi di creare un consorzio di imprese prendendo in gestione i cimiteri: l’idea era di istituire un numero viola di reperibilità stabilendo dei prezzari per i servizi funebri di modo che ognuno potesse scegliere liberamente il servizio in base alla propria disponibilità economica, oppure proporre formule assicurative per poter pagare ratealmente come accadeva una volta con le confraternite. Nella nostra impresa lo facciamo, immagina se fosse un sistema consolidato. Un altro progetto a cui penso spesso è quello delle case funerarie. Insieme a una mia collaboratrice ne abbiamo visitate alcune nel Nord Italia, luoghi dove è possibile esporre le salme e al cui interno, insieme ai servizi di ristorazione, ci sono appartamenti dove i familiari possono rimanere per la notte. Mi piacerebbe poterle realizzare anche nel Lazio».

La visione cristiano-cattolica della morte. «Reinventarsi è la capacità di sapersi guardare, leggere dentro e capire dove si vuole andare»

«La mia idea della morte non è mai cambiata. Ho sempre creduto nell’aldilà come forma di continuazione della nostra vita terrena. San Paolo dice: “vana sarebbe la nostra fede se non ci fosse stata la resurrezione di Gesù Cristo”. Se noi cattolici siamo fatti a immagine e somiglianza di dio, come Gesù Cristo è stato riportato in cielo anche noi, quando moriremo, ritorneremo a splendere e a partecipare della potenza di Dio.

Quando avevo 34 anni sono morti mia madre e mio fratello a distanza di 11 giorni. Non ho provato sconforto. Mio fratello era malato di tumore ed è morto con un’estrema serenità, dopo averlo rianimato mi disse una cosa che non scorderò mai: “perché lo hai fatto? Ero con i nostri, stavo bene”. Quando il lutto mi tocca da vicino non mi sconvolge, perché credo fortemente che la vita assuma significato per la sua pienezza. Se sono un soggetto della mia esistenza e la vivo come un’avventura straordinaria posso concluderla serenamente in qualsiasi momento, a qualsiasi età.

Mia madre mi fece promettere che la sera della sua morte avrei fatto una catechesi sul senso della vita e della morte, ricordo le parole della nostra domestica: “sembri pazzo, come puoi essere contento?”. Mi è venuto naturale, forse, perché fin da piccolo ho tentato di capire cosa era accaduto a mio padre e ho elaborato la sua morte in maniera tale che non fosse un momento triste. I miei sono al mio fianco, li porto con me soprattutto nei momenti in cui devo prendere decisioni importanti. La notte quando resto solo nella casa paterna, dove siamo nati tutti e dove loro sono morti, vivo con loro nel ricordo. Molti tentano di far sopravvivere il dolore non superandolo, è quasi una gara a non dimenticarlo e questo allontana dall’elaborazione del lutto. A me la fede aiuta tanto: aiuta a reinventarsi, a risorgere. Reinventarsi, ogni volta che moriamo nella nostra interiorità, è la capacità di sapersi guardare, leggere dentro e capire dove si vuole andare».

La morte come evento corale. «Nei piccoli paesi ancora c’è una forma di vicinanza collettiva non solo come partecipazione al rito funebre, ma anche come presa in carico della famiglia»

«Ai miei studenti dell’alberghiero, parlando della ricorrenza del 2 novembre in classe, ho chiesto quale fosse il dolce che ricordava la festività dei defunti: “le ossa dei morti”. È un dolce tipico che viene realizzato in altitalia a base di mandorle, nutella e nocciole. Nei piccoli paesi sopravvive una forma di vicinanza collettiva non solo come partecipazione al rito funebre, ma anche come presa in carico della famiglia. Nei nostri territori per fortuna ancora rimane questo modo di partecipare al lutto con atti concreti: prendersi cura dei figli piccoli, quando ci sono, oppure il famoso “riconsolo” che in America si è trasformato nel ricevimento subito dopo le esequie funebri.

A Ceccano si mantiene la tradizione dell’annuncio lutto, si dice messa in occasione dell’ottavario, del trigesimo. Si consegnano i bigliettini lutto sui quali viene riportata una frase che spesso ha un richiamo cristiano-cattolico o letterario, le persone si fanno il segno della croce quando passa l’auto funebre. Nel campo dei santi, poi, non è raro trovare palloncini, quadri, persone che il giorno  dell’anniversario del compleanno dei figli spaccano le torte di fronte alle tombe. Quando assumiamo persone nuove nell’azienda diciamo loro che dovranno rispettare qualsiasi scena a cui assisteranno perché le persone, in quei momenti, si stanno aiutando a capire il significato della morte.

Quando è morto mio padre avevo 10 anni, la sera uscivo e aspettavo che rientrasse dai servizi. Non sarebbe tornato, ma ci ho messo anni a realizzarlo come ci metteranno degli anni le madri che al cimitero si inginocchiano abbracciando le tombe dei figli. Nessun ceccanese le prende in giro e questo perché il manicomio, la presenza di persone con patologie psichiatriche sul territorio, ci ha aiutato ad accettare l’alterità e a capire linguaggi diversi. La comprensione di questa diversità anche nella morte ci permette di capire il dolore che l’altro sta manifestando. Sarebbe bello se riuscissimo a vivere la gioia nel momento in cui una persona muore, dal punto di vista umano è difficile da accettare ma dal punto di vista cristiano è qualcosa di meraviglioso.

Tutti questi gesti aiutano a sentirsi in famiglia, anche se il lutto bisogna viverlo intimamente. Quando sono morti i miei, rimasto solo, ho messo intorno a me le loro foto e dormivo per terra per capire cosa fosse accaduto. Mi hanno aiutato i miei allievi, chiedendomi di condividere la mia interiorità. Con loro parlare della morte è complesso perché hanno la vita in mano. Quando subiscono una perdita si aprono e cercano di capire la piccolezza che ci appartiene e ci determina in quanto esseri umani. In fondo è come se ci considerassimo tutti immortali, ma trasmettere ai miei studenti il senso della vita è stata una vera e propria fase di elaborazione».