Con Mara Lastretti, psicoterapeuta e coordinatrice dell’Osservatorio psicologia in cronicità, abbiamo affrontato il tema del corpo nella relazione terapeutica. A causa delle restrizioni alle quali le persone sono state sottoposte nell’ultimo anno, è cambiato radicalmente il concetto di intimità relazionale e così è mutata anche l’interazione tra paziente e terapeuta: la psicoterapia si nutre di parole, ma il corpo è centrale.
In questo incontro Mara Lastretti ci aiuta a comprendere, sulla base della sua esperienza umana e professionale, non solo come si è modificato il rapporto con il corpo in questo lungo periodo di emergenza ma anche il senso attuale del suo lavoro: affermare con forza che «siamo ancora tutti uniti, siamo interi».
So che ti occupi da tempo di diabete e cronicità. Nell’ultimo anno è cambiata la percezione del dolore, e in qualche modo anche del corpo, da parte di persone che soffrono di patologie croniche?
Paradossalmente le persone con cronicità sono state più a contatto con il loro corpo, perché dovevano prendersene cura, al contrario delle persone normoglicemiche che, rispetto al corpo, hanno dovuto fare un vero e proprio passo indietro. Il mondo si è fermato, noi ci siamo fermati, ma per una persona affetta da cronicità la malattia continuava e bisognava trovarle un nuovo adattamento, adeguandosi alla situazione pandemica pur mantenendo la solita routine.
Tra l’altro questi pazienti si sono ritrovati con servizi ambulatoriali completamente cambiati: sono passati dal vedere il proprio medico alla visione dello schermo, con la telemedicina, oppure a una semplice telefonata. È cambiato il setting abituale e questa cosa ha impattato tantissimo su pazienti che nel tempo hanno costruito una relazione anche di tipo corporeo, come una semplice stretta di mano, con il diabetologo o lo psicologo. È cambiata la possibilità della persona di sentirsi parte del suo percorso.
Mara Lastretti. Fotografia di Martina Lambazzi
Hai notato delle reazioni a questo periodo di emergenza che si manifestano attraverso il corpo?
Ho avuto in studio un incremento di ragazze e ragazzi adolescenti che si tagliano, quindi che utilizzano il loro corpo per calmare l’ansia, i vissuti depressivi o anche per combattere la paura. Non conosco i motivi dell’esplosione di questo fenomeno, so però che attraverso i tagli in qualche modo queste persone si percepiscono e si sentono.
Siamo soggetti intersoggettivi e abbiamo bisogno della relazione per esistere. Il fatto di non trovarsi con l’altro, non avere quello specchio umano che ti dice – semplificando – se vai bene o vai male, ha fatto emergere il bisogno di sentire le emozioni e i vissuti in una maniera che fa male. È come se la pandemia avesse acceso l’interruttore su questi giovani. Loro mi raccontano che non sentono niente, ma il taglio resta e la cicatrice pure.
Dopo un anno in cui hai ascoltato le persone e le loro storie, sai dirmi in che modo si sta manifestando l’assenza di prossimità nei rapporti?
C’è una grande difficoltà nel conoscere persone: i single si trovano in una situazione drammatica. Per un periodo hanno avuto successo le app ma riproducevano la vita di sempre, quindi di nuovo tutto, anche le relazioni, si viveva di fronte allo schermo. È mancata la vicinanza che si esprime in un abbraccio, questo lo dicono in tanti: vedersi, scambiarsi confidenze, toccarsi. C’è stata una tendenza a lasciarsi andare, una trascuratezza, nonché l’aumento di umore basso e ansia causati dall’assenza di progettazione futura.
Per i pazienti che hanno avuto il covid, poi, il rapporto con il corpo è stato rivoluzionato. Un mio paziente reduce dall’esperienza del casco durante il ricovero avvertiva questo strumento come un corpo estraneo e sentiva l’esigenza di spegnersi con gli psicofarmaci per allontanare la sensazione di un corpo non rispondente alla sua volontà. È totalmente cambiata la percezione di sé: se si tocca non si sente, non si riconosce. Il lavoro da fare è capire che siamo ancora tutti uniti, siamo interi.
C’è più paura o nostalgia del corpo dell’altro?
Entrambe. C’è la paura del contatto e allo stesso tempo la nostalgia di quella normalità, di trovarsi al bar e non dover scappare per il coprifuoco, della tranquillità di prendere la mano di una persona in un momento di difficoltà. Io toccavo i pazienti prima: una pacca sulla spalla o un abbraccio curativo, a volte ci toccavamo soltanto con le dita per stabilire un contatto. Anch’io, quindi, ho dovuto rivoluzionare il mio modo di lavorare.
La terapia la immaginiamo come uno spazio che si nutre di parole. Quanto è coinvolto il corpo nella relazione terapeutica, specificamente nell’approccio che hai scelto di adottare?
Nel mio approccio il corpo è molto coinvolto, perché sostengo che corpo, mente ed emozioni siano un tutt’uno. Le emozioni le viviamo nel corpo: quando sentiamo le farfalle nello stomaco, quando ci batte forte il cuore perché siamo eccitati o abbiamo paura, quei vissuti si manifestano attraverso il corpo. Il corpo è prioritario.
Chiaramente durante la terapia le parole e i ragionamenti sono tanti, però c’è anche un sentire interno – un sentire corporeo – cioè quello che avvertiamo quando raccontiamo un fatto, quando raccontiamo un sogno. A me capitava di avvicinarmi alla persona per sottolineare la prossimità, l’esserci.
Quanto hai dovuto modificare il tuo modo di interagire durante la terapia?
La relazione inevitabilmente si è modificata. Di fronte a una persona che affrontava il racconto di un lutto e iniziava a piangere, ad esempio, talvolta mi capitava di passarle un fazzoletto, toccandole la mano per dirle «ci sono». Questo non lo posso fare più, il fazzoletto devo indicarlo. Spesso utilizzavo la tecnica della sedia vuota che consiste in una rappresentazione a più livelli durante la quale il paziente deve parlare immaginando di rivolgersi a qualcuno.
Mara Lastretti. Fotografia di Martina Lambazzi
In quei momenti ero solita posizionarmi in prossimità della persona e, di fronte a un vissuto molto impegnativo, in qualche modo interagivo anche con il corpo, mi spostavo. Adesso questa tecnica non la sto utilizzando e neppure provo a realizzare dei surrogati online. Anche negli attacchi di panico a mancare è la vicinanza dell’altro. Se capitava un episodio del genere in seduta, oltre alle tecniche, io mi avvicinavo utilizzando il mio corpo.
Una cosa a cui penso spesso è che ho pazienti nuovi di cui non riesco ancora a vedere il volto. Quando abbasso la mascherina per bere un sorso d’acqua a volte mi sento dire «finalmente la vedo intera».
Cosa pensi della relazione terapeutica attraverso strumenti tecnologici?
Penso che la tecnologia avvicini tanto, perché adesso ho pazienti sia in Italia che all’estero e questo è meraviglioso. Tuttavia chiedo sempre loro di venire a Roma a trovarmi almeno per un incontro e una mia paziente di Milano, una volta concessi gli spostamenti tra le regioni, ha deciso di farlo. Cercherò di conoscere tutti dal vivo laddove possibile.
La tecnologia apre ponti, ti mette in contatto, però si tratta di un modo completamente diverso di lavorare. Non so dire cosa sia meglio, posso dire che nel mio stile la presenza è predominante e mi sento più me stessa.
Tuttavia mi sto anche abituando al mezzo, perché credo che sia necessario riadattarsi con creatività. Quando faccio formazione, ad esempio, cerco nuove piattaforme che diano la possibilità alle persone di lavorare in coppia affinché si conoscano. Cerco nella tecnologia il modo di fare interazione, perché voglio che sia garantita.