«Se ha intenzione di scrivere romanzi, una donna deve possedere denaro e una stanza tutta per sé», Virginia Woolf
Quando Virginia Woolf viene chiamata a tenere due conferenze sul tema delle donne e il romanzo di fronte alle studentesse dell’Università di Cambridge nel 1928, l’autrice intraprende una riflessione sul rapporto tra le donne e la letteratura. Per quale ragione nelle biblioteche esistevano così tanti libri scritti sulle donne e quasi nessuno scritto dalle donne? Gli uomini scrivono di più perché possiedono maggiori capacità o al contrario dispongono di più possibilità di accesso alla cultura? Queste le domande attorno alle quali ruota il saggio Una stanza tutta per sé, pubblicato nel 1929.
Virginia Woolf illumina, prosaicamente, una questione che ancora oggi conserva la propria sconcertante attualità: l’indipendenza economica come precondizione per agire la libertà di pensiero. «Nessuna forza al mondo può togliermi le mie cinquecento sterline. Cibo, alloggio e vestiti sono miei per sempre. Pertanto non solamente sono cessati lo sforzo e la fatica, ma anche l’odio e l’amarezza. Non ho bisogno di odiare nessuno; nessuno può ferirmi. Non ho bisogno di lusingare nessuno; nessuno può darmi niente», scriveva.
Quella stanza è uno spazio letterale del quale le donne avevano bisogno per chiudere momentaneamente la porta a quelli che erano considerati i loro doveri e, al contempo, uno spazio metaforico che rappresenta l’opportunità di raccontarsi senza essere rinchiuse nei confini asfittici del pensiero maschile. Gli uomini scrivono le donne strozzando la loro voce e in questo modo, rendendole protagoniste, creano l’illusione che la loro condizione reale sia proprio quella che è possibile incontrare nella letteratura di immaginazione. In verità, ci racconta Woolf, le donne nel tempo hanno rappresentato lo strumento utile ad esaltare l’ego maschile: relegarle in una posizione subordinata rinsalda la certezza della propria grandiosità.
«Per secoli le donne sono stati gli specchi magici e deliziosi in cui si rifletteva la figura dell’uomo, raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra probabilmente sarebbe ancora palude e giungla. Tutte le glorie delle nostre guerre non sarebbero esistite. Saremmo ancora a incidere la sagoma del cervo su qualche osso rotto, a barattare selci in cambio di pelli di pecora o di altri semplici ornamenti gradevoli al nostro gusto non sofisticato. I superuomini e i figli del destino non sarebbero mai esistiti. Lo Zar e il Kaiser non avrebbero mai portato le loro corone, e neppure le avrebbero perdute. Qualunque sia il loro uso nelle società civilizzate, questi specchi sono indispensabili a ogni azione violenta ed eroica. Perciò Napoleone e Mussolini insistono così enfaticamente sull’inferiorità delle donne, perché se queste non fossero inferiori, non servirebbero più a raddoppiare gli uomini».
La scrittrice, al termine della sua dissertazione, parla della necessità di non ingaggiare una lotta tra fazioni contrapposte: utilizza l’espressione “matrimonio dei contrari”. Il cuore della riflessione, però, torna alle considerazioni iniziali chiudendo il cerchio: «la libertà intellettuale dipende da cose materiali, la poesia dipende dalla libertà intellettuale e le donne sono sempre state povere».
Cos’è il gender pay gap e qual è la situazione in Italia
La riflessione di Virginia Woolf prendeva piede negli anni Venti del Novecento, ma la discussione sul gender pay gap, ossia il divario salariale tra uomini e donne, ha motivo di esistere ancora oggi. Prima di rendere noto qualche dato, è opportuno ricordare che ci sono due modi di calcolare la differenza di salario: il divario retributivo di genere medio – non corretto – e quello complessivo.
Nel primo caso si effettua una comparazione tra la paga oraria lorda media degli uomini e delle donne a parità di mansione. A partire da questo i dati pubblicati dall’Eurostat a marzo 2021 hanno decretato che il gender pay gap in Italia fosse pari al 4,7%, una percentuale che letta così faceva ben sperare considerando che soltanto la Romania e il Lussemburgo potevano vantare un divario più basso (rispettivamente 3.3% e 1.3%). La fotografia reale del nostro Belpaese, però, ci viene restituita soltanto prendendo in considerazione il gender overall earnings gap, ossia il calcolo della differenza salariale annua, tenendo conto del tasso di occupazione femminile (48,5% in Italia) e del numero di ore lavorate (33 ore la settimana, a dispetto delle 40,2 degli uomini). Dunque l’Italia, nel 2018, vantava il terzo divario più ampio dopo Paesi Bassi e Austria.
Fotografia di Martina Lambazzi
Al di là delle percentuali nude e crude, le ragioni di questa stortura vanno ricercate nella struttura della nostra società e nella rigidità dei ruoli di genere. Secondo l’Istat le donne con figli sono più svantaggiate nel mercato del lavoro, infatti il tasso di occupazione per le donne tra i 25 e i 49 anni in relazione al secondo trimestre del 2020 passa dal 71% per le donne senza figli al 53,4 % per chi ne ha almeno uno di età inferiore ai 6 anni. Inoltre, un’analisi condotta in riferimento al periodo 2018/2019 ha evidenziato che il lavoro familiare grava ancora oggi in larga parte sulle donne in una percentuale che si attesta al 63%.
Da queste premesse ne consegue una maggiore richiesta rispetto agli uomini di lavori part-time – il che non è sempre espressione di una volontà – e del congedo parentale, di cui beneficiano quasi esclusivamente le madri: l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani (OCPI) rende noto che tra il 2015 e il 2019 l’82% delle lavoratrici del settore privato e agricolo hanno richiesto il congedo per la cura dei figli.
La direttiva Ue per superare il gender gap
A proposito della necessità di adeguare i salari, il 4 marzo la commissione Ue ha avanzato la proposta di una direttiva che mira a superare il gender pay gap. Il Parlamento Europeo ha il compito di discuterne, in caso di approvazione verrà poi sottoposta all’attenzione degli Stati membri che, a loro volta, avranno due anni di tempo per recepirla nel diritto nazionale.
La proposta prevede, tra le altre cose, che i datori di lavoro con almeno 250 dipendenti debbano rendere pubbliche le informazioni sul divario retributivo tra donne e uomini e, in linea generale, indicare il livello retributivo iniziale nell’annuncio di lavoro, o in altro modo, prima di effettuare il colloquio. Se il divario retributivo supera il 5% senza motivazioni oggettive che vadano al di là del genere, il datore di lavoro dovrà riconsiderare le retribuzioni assieme ai responsabili dei dipendenti o agli stessi lavoratori e spetterà proprio a lui provare l’assenza di atteggiamenti discriminatori, pena un risarcimento a beneficio del lavoratore che gli permetta di recuperare interamente la retribuzione persa.
Per quanto riguarda le Istituzioni italiane, durante il secondo governo Conte sono state nominate due Task force guidate, rispettivamente, da Vittorio Colao, ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale, ed Elena Bonetti, ministra per la Famiglia. Entrambe le proposte hanno sottolineato l’importanza della trasparenza sui livelli retributivi dei lavoratori e delle lavoratrici, ma anche la necessità di potenziare i servizi rivolti alle famiglie attraverso un incremento di asili nido. La proposta di Bonetti, inoltre, prevede un sostegno per le imprese femminili con l’obiettivo di «istituire un fondo per la micro-impresa femminile, introducendo finanziamenti a fondo perduto e tasso zero, incentivi fiscali nei primi anni di attività, servizi di tutoring tecnico-gestionali», nonché un adeguamento dei percorsi universitari al fine di mettere in comunicazione le materie umanistiche con quelle scientifiche promuovendo «l’importanza di una formazione STEM per le ragazze rispetto alle professioni di domani, e il ruolo centrale che le conoscenze/competenze in questi settori hanno nella costruzione del futuro (problemi ambientali, energia, sviluppo sostenibile, salute)».
La questione delle quote rosa
Il Presidente del Consiglio Mario Draghi, nel suo discorso al Senato, ha affermato che: «una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi», riproponendo la discussione in merito alla quota minima di presenza femminile all’interno delle aziende in posizione decisionale.
La legge Golfo-Mosca in vigore dal 2012 prevede che le aziende quotate in borsa riservino alle donne il 20% dei posti all’interno dei Cda. Secondo i detrattori – tra cui ci sono anche le donne – le quote rosa sono un’imposizione inutile, da un lato, ma possono diventare anche la motivazione per svalutare la reale competenza dei lavoratori e delle lavoratrici: perché le assunzioni dovrebbero essere imposte e dunque non basarsi sulla reale competenza dei candidati?, si dice.
Fotografia di Martina Lambazzi
Ecco, ma parlare di merito e giustizia in una società che non consente a tutti e tutte il medesimo accesso alle opportunità è un grande paradosso. D’altronde, la freddezza dei numeri succitati dovrebbe aiutarci a mettere in evidenza un problema tangibile.
Insomma, si torna a Virginia Woolf nonostante sia passato quasi un secolo. La scrittrice inglese si chiedeva se gli uomini scrivessero più libri perché intellettualmente superiori alle donne, oggi la stessa domanda potrebbe riguardare i consigli di amministrazione delle aziende o le sedi politico-istituzionali: per quale ragione le quote blu risultano dominanti?
Nessuno auspica una società nella quale ci sia bisogno di imporre la differenza per permetterle di emergere, provando a riempire il vuoto che dovrebbe essere colmato dall’educazione, ma invece di criticare provvedimenti che mirano all’inclusività bisognerebbe interrogarsi su una struttura societaria che rende necessario un intervento diretto per permettere a un’intera categoria di uscire dall’invisibilità.