disturbo borderline

«Il disturbo borderline di personalità è stato, per molto tempo, il secchio dell’umido delle difficoltà psicologiche», Federica Carbone

Attraverso il contributo di Federica Carbone continua il viaggio de L’in-esistente all’interno dell’universo multisfaccettato della salute mentale. Con lei abbiamo affrontato diverse questioni relative al disturbo borderline di personalità. Federica ha fondato un’associazione nel 2015, Emergenza Borderline, con l’obiettivo di raccontare il suo percorso, intraprendendo poi un’attività di advocacy su Instagram al fine di facilitare il dialogo sulla salute mentale.

Abbiamo provato a comprendere insieme la ragione per cui è scorretto pensare ai disturbi di personalità come contenitori all’interno dei quali incastrare le persone che ne soffrono, perché «a parità di disturbo, siamo tutti diversi». Abbiamo affrontato le conseguenze pericolose che può avere un atteggiamento sanista, oltre all’importanza di restituire la diagnosi agli utenti da parte dei professionisti e delle professioniste sanitarie individuando, poi, il senso profondo della scelta nel processo di recovery, dunque di guarigione.

«A me interessa veicolare un certo tipo di informazione per creare una cultura di scambio su tematiche che fino all’altro ieri erano considerate ad esclusivo appannaggio di alcune persone. Il medico guarderà alla salute e alla mancanza di salute in un determinato modo, l’utente in un altro. Ed è giusto che l’utente abbia voce in capitolo».

Come è nato il tuo lavoro di advocacy su Instagram?

Il lavoro di advocacy è nato in maniera molto naturale quando, terminato il percorso di psicoterapia, mi sono accorta che era andato a buon fine. Come tante altre persone anche io non sapevo che si potesse uscire dai disturbi mentali, quindi mi sono detta: «se c’è stata questa svolta per me e per le mie compagne di terapia, allora potrebbe esserci per qualcun altro». Questa cosa mi ha spinta inizialmente a raccontare il mio percorso e poi ad approfondire sempre di più, perché le domande delle persone che mi scrivevano diventavano via via più calzanti.

In un tuo post hai scritto: «a parità di disturbo, siamo tutti diversi». Posto questo, cos’è il disturbo borderline di personalità?

Il disturbo borderline di personalità è stato, per molto tempo, il secchio dell’umido delle difficoltà psicologiche. È nato come termine per indicare una condizione psicologica che non è proprio psicosi e non è proprio nevrosi, perché borderline significa semplicemente “una via di mezzo”, dunque per diverso tempo in questa definizione ci è rientrato un po’ di tutto. In realtà oggi verrebbe chiamato “disturbo da disregolazione emotiva” o “disturbo nella regolazione delle emozioni”, quindi in sostanza indica una difficoltà nel riconoscere, gestire, esprimere e sentire le proprie emozioni.

Il disturbo borderline deve essere diagnosticato da un professionista, tendenzialmente possono essere individuate delle caratteristiche che si sentono maggiormente. Prima di tutto un’identità molto frammentata: non so chi sono quindi sono suggestionabile; mi piace un pezzo di quella persona, mi sembra funzionale, allora provo ad essere così; cambio hobby ogni cinque minuti. La persona non è facilmente comprensibile attraverso queste piccole cose, ma di fatto si sente molto confusa riguardo a sé stessa. E poi tutta una serie di caratteristiche che, però, differiscono da persona a persona, perché trattandosi di un disturbo di personalità si declina in maniera diversa per ognuno.

Quando si leggono i classici nove criteri per diagnosticare o ipotizzare un disturbo, in realtà stiamo parlando di una cosa molto vaga. Sono stati individuati nel 1979, inseriti nel DSM e utilizzati da quel momento per fare diagnosi, il punto è che dal ’79 ad oggi sono cambiate un po’ di cose, la ricerca ha fatto qualche passo avanti e quei criteri oggi risultano anacronistici. Esistono persone borderline che non sono mai state autolesioniste, altre che non hanno mai avuto una sessualità promiscua, altre ancora che non hanno mai usato alcol e droga. È questo il motivo per il quale dico che a parità di disturbo siamo tutti diversi, perché si manifesta differentemente in ciascuno.

Parli spesso di sanismo. Cos’è e quali conseguenze ha sulle persone?

La parola a cui ti riferisci sarebbe sanism dall’inglese, io l’ho adattata a “sanismo” in italiano. Indica una stigmatizzazione nei confronti di chi ha, o è reputato avere, un determinato tratto psicologico che viene giudicato negativamente. Quando si definisce “bipolare” una persona che cambia spesso umore o parlando di quanto siamo pignoli nella pulizia della casa diciamo di avere un disturbo ossessivo compulsivo, stiamo alimentando sanismo perché tiriamo in ballo una patologia reale in maniera quasi scherzosa veicolando il messaggio che i disturbi psicologici sono qualcosa di così ampio e vago che potrebbero averli tutti. Così facendo la persona che realmente soffre di quella condizione viene trattata in maniera quantomeno superficiale. La nostra cultura da tanti anni pretende che le persone siano aggiustate come le macchine: l’equilibrio non va più tarato sull’unicità dell’individuo che ce l’ha o non ce l’ha, ma diventa qualcosa da ricreare seguendo una ricetta.

 

disturbo borderline Federica Carbone. Fotografia di Francesco Formica

 

Tante volte in conseguenza del sanismo mi viene chiesto: «ma la persona borderline com’è, come ama, cosa vuole, come la si gestisce?». Non esiste la persona borderline, esiste una persona che ha un disturbo borderline eventualmente. E questo disturbo sarà vissuto all’interno della vita della persona in maniera peculiare, specifica. Il sanismo è una spugna che spazza via le sfumature, le possibilità. È come dire: «potete avere tutte i capelli nero corvino o biondo platino», tu cerchi di averli in un modo o nell’altro ma è più probabile che li abbia in un range tra questi due estremi. Ti senti sbagliata, in colpa, poco appropriata, perché non sei né l’una né l’altra cosa. E allora, chi sei? Siamo abituati, ormai, ad avere un feedback dall’esterno che ci dica quanto siamo giusti e giuste, ma anche quando non lo siamo.

Questa necessità di aggiustare e aggiustarsi credo sia figlia della forte tendenza alla produttività che ormai fa parte del modo di vivere in questa società. Pensando al nostro incontro mi è venuta in mente la frase di una canzone di Brunori Sas: «se c’è una cosa che mi fa spaventare del mondo occidentale è questo imperativo di rimuovere il dolore». Ce l’abbiamo il diritto di stare male?

Per me è già problematico che tu ti senta di dovermi fare questa domanda, perché significa che l’idea di non dover soffrire è passata così tanto a tutti i livelli nei nostri discorsi da dover chiedere a qualcuno all’esterno se abbiamo effettivamente il diritto di sentire quella cosa che sentiamo oppure no. È anche vero che un certo tipo di positivismo ci domanda ogni giorno di guardare alle cose belle della vita, alle cose positive. C’è una grossa problematicità nel continuo uso degli aggettivi “positivo” e “negativo”, perché implicano un giudizio: una cosa va bene se è positiva e va male se è negativa. Questi due aggettivi andrebbero sostituiti con “piacevole” e “spiacevole”, perché la gioia o la felicità, giudicate di solito positivamente, in certe persone possono provocare comunque una sensazione spiacevole. Questo discorso non è contemplato all’interno della positività tossica nella quale siamo tutti abbastanza immersi. La positività tossica vende.

A proposito del discorso che facevi prima relativamente alla produttività, proprio ieri guardavo un documentario di Michael Pollan, l’autore de Il dilemma dell’onnivoro, il quale spiegava questo concetto rispetto all’alimentazione: il capitalismo ha fatto in modo di creare dei problemi senza progettare le soluzioni, creando al contempo dei prodotti che in qualche modo rimandano quei problemi. Nel momento in cui sentiamo un dolore, anche causato da determinanti sociali come scelte politiche o problematiche economiche, invece di andare a monte e cercare di risolvere quelle disuguaglianze sociali o quelle mancanze di diritti civili, finiamo per proporre delle soluzioni semplici veicolate dalla positività tossica, della serie: «se ti impegni molto vedrai che riesci», «se risolvi i tuoi dissidi interni anche l’esterno cambia di conseguenza». Queste sono falsità, è onnipotente pensare che soltanto grazie ai nostri sforzi possiamo cambiare quello che c’è all’esterno.

Le persone che fanno parte della mia Community spesso e volentieri mi fanno presente delle problematiche che vanno oltre il disturbo. Alcune persone mi dicono di non avere soldi per pagarsi la terapia perché hanno un lavoro precario, oppure in famiglia hanno una persona alcolizzata. È impossibile che riescano a risolvere queste problematiche sistemiche semplicemente lavorando su sé stesse. Bisogna accettare che la sofferenza e il dolore sono caratteristiche della vita e prevedono che ci fermiamo. Non per forza si deve stare fermi e immobili mentre si soffre, ma è una possibilità della quale ci dobbiamo riappropriare.

È come se questa tendenza alla produttività fosse funzionale al mantenimento del modello sociale-economico che a un certo punto abbiamo scelto di adottare, non riconoscendo l’essere umano in quanto tale ma tentando di incastrarlo all’interno di questo grande contenitore.

Assolutamente. Negli ultimi tempi si parla tanto di rappresentazione: rappresentazioni di diverse condizioni sociali, di persone grasse, di persone trans, di persone psicologicamente sofferenti. Sono tutte condizioni dell’essere umano che fino a pochissimo tempo fa non venivano raccontate attraverso i media, nella musica, nell’arte. Non venivano diffuse informazioni su diversi tipi di vita, perché la rappresentazione sociale è una modalità di veicolare un certo tipo di messaggio, di validare un certo tipo di vita. Questa cosa ha creato un grosso problema in coloro che non si vedevano rappresentati, penso alle persone grasse che fanno attivismo online e, giustamente, dicono: «siamo state abituate a vedere rappresentate sempre persone molto magre».

Qualche giorno fa si faceva l’esempio di Baywatch dove tutte, anche le comparse, erano magre e palestrate. Generazioni di bambini e di adolescenti, tra cui io, avevano quell’idea in mente, pensavano che fossero tutti così. Nel momento in cui ti guardi allo specchio e vedi che non sei così non riesci sempre a fare una distinzione: un conto è guardare qualcosa con la consapevolezza di quello che sto guardando, un conto è guardarla sovrappensiero mentre il mio cervello la registra e non essere completamente padrona di come la rielaborerà. Finché qualcuno dall’esterno non mi spiega questa dinamica, io la subisco. In questo senso specifico è vero che è come sentirsi intrappolati dentro a un modello ed è già un grande risultato avere la consapevolezza che sembra così, perché si arriva più facilmente a capire che è effettivamente vero. Il problema è per tutte le persone che invece non lo sanno, come gli adolescenti e le adolescenti che usano Instagram. Secondo una notizia recente chi sta dietro ai social era consapevole del disagio che i più giovani sperimentavano nell’utilizzo, proprio perché non si vedevano rappresentati e pensavano di dover somigliare ai modelli a cui erano costantemente sottoposti, con conseguente incitamento ai disturbi del comportamento alimentare e un aumento del dismorfismo corporeo, anche a causa dei filtri. In Norvegia, ad esempio, gli influencer sono obbligati a dichiarare quando ne fanno uso.

Leggevo in un altro dei tuoi post che spesso il disturbo borderline è associato alle donne, perché viene diagnosticato maggiormente nella popolazione femminile. In realtà, spiegavi, c’è una ragione dietro questo risultato, vorrei capire qual è. In genere quando parliamo di disturbi di personalità facciamo ricorso alla genetica, ma l’elemento culturale mi sembra molto presente.

Nelle sperimentazioni scientifiche in medicina le donne hanno iniziato a far parte dei gruppi di ricerca negli anni Settanta, prima le cause e i sintomi si ricercavano soltanto negli uomini. La medicina di genere è una cosa molto recente e di base gli scienziati erano sempre uomini, quindi ragionavano con il loro metro di giudizio. Del resto, anche gli uomini nascono in una cultura patriarcale e giustamente ognuno di noi assorbe quel pezzo della cultura di appartenenza che gli spetta. Dunque le caratteristiche del disturbo borderline sono state individuate principalmente nelle donne (curiosamente è successo un po’ per tutte le caratteristiche dei disturbi di mentali, a partire dall’isteria). C’era questa idea di fondo della donna drammatica che reagisce all’emotività in una certa maniera.

Aggiungiamo che per cultura le donne sono attente alla loro salute. Viviamo di più rispetto agli uomini anche per questo, perché non abbiamo problemi a sottoporci agli screening o a parlare di cose piuttosto intime che da alcune persone vengono ancora vissute come delle fragilità. Dato che siamo cresciute per prenderci cura anche dell’altro, abbiamo un occhio più attento a una serie di problematiche che riguardano anche la salute fisica e mentale. Siamo più abituate a chiedere aiuto in terapia, ad esprimere le nostre emozioni, e tutto questo porta ad affermare che il disturbo borderline è un disturbo tipicamente femminile.

C’è poi il risvolto della medaglia: il disturbo narcisistico viene diagnosticato tendenzialmente agli uomini. La comunità scientifica si è resa conto, sempre di più, che non ha senso ragionare in questi termini, per cui ha iniziato a considerare l’aspetto culturale all’interno della ricerca. Recentemente ho letto un articolo nel quale si raccontava che in un caso studio venivano presentate le stesse sintomatologie a diversi terapeuti, da un lato parlando come se la persona fosse un uomo dall’altro come se fosse una donna: le due diagnosi cambiavano solo sulla base del sesso. C’è un bias all’origine. Il fatto che il disturbo venga diagnosticato alle donne è il risultato di questo bias e far passare il messaggio che si tratta di un disturbo femminile è un problema.

Un altro tema che emerge spesso è quello della restituzione della diagnosi. Talvolta si ha paura di ricevere una diagnosi di disturbo psichico, perché nella nostra società quando si parla di salute mentale lo si fa in un’ottica stigmatizzante. È una paura comprensibile, ma per quale ragione è importante che l’utente venga reso partecipe?

Questa domanda apre a tantissimi scenari che andrebbero messi in campo. Partiamo da un presupposto: per legge le psicoterapeute e gli psicoterapeuti sono professionisti sanitari, il che significa che possono fare diagnosi. Il professionista sanitario, a livello statale e anche politico, ha la facoltà di andare a cercare delle risposte relative alla salute mentale in una diagnosi. E non è una banalità, perché significa che i nostri disturbi psicologici sono in qualche modo classificati. Ciò vuol dire che esistono dei protocolli di trattamento per il singolo disturbo, per cui se una persona soffre di un certo tipo di depressione è probabile che ci sia una terapia evidence-based, approvata dalla comunità scientifica, per trattare quel tipo di problematica. Se non c’è una diagnosi a monte come fa l’utente a capire che il professionista si stia prendendo adeguatamente cura della sua salute mentale? Come fa a sapere se sta utilizzando o meno, alla luce di considerazioni, quel protocollo che sembrerebbe essere utile su di sé?

disturbo borderline Federica Carbone e Alessia Lambazzi. Fotografia di Francesco Formica

 

È un problema che la salute mentale e la salute fisica vengano considerate in maniera così diversa: mentre per la salute fisica il medico ha il dovere di comunicare anche la diagnosi più nefasta, quando si tratta di salute mentale il terapeuta può operare una scelta. Alcune persone obiettano che la psicologia è troppo medicalizzata. A me sta bene aprire il dibattito, ma dobbiamo considerare un altro aspetto: se questo è vero gli psicologi, gli psicoterapeuti e gli psichiatri non sono gli unici a poter dire qualcosa in proposito, perché una persona con disturbo psicologico particolarmente grave potrebbe aver bisogno di sussidi statali e senza una diagnosi potrebbe non avere la possibilità di accedere alla macchina statale che li eroga. Dire che non si vuole etichettare, ancora una volta, non è una scelta del professionista: esiste un’etichetta sociale ed esiste un’etichetta diagnostica. Anche la diagnosi di diabete è un’etichetta diagnostica; perché va bene restituirla mentre non va bene restituire l’etichetta di disturbo borderline? Per tanto tempo si è detto: «il rischio è che il paziente simuli i sintomi». Se succede è un indizio in più per il terapeuta che quella persona, forse, si sente vicina a quel tipo di sintomatologia. Diventa un problema del terapeuta, che non può evitare il rischio a monte non restituendo la diagnosi all’utente, perché la relazione terapeutica non è più equilibrata: lui sa qualcosa che io non so.

Probabilmente viene meno un elemento centrale, ossia la scelta. Mi ricollego a un altro tema, quello della recovery: nel percorso di guarigione il paziente o la paziente sono parte attiva di questo processo. L’importanza della restituzione della diagnosi e la recovery viaggiano insieme?

La recovery è un percorso esperenziale, non lineare, che porta, attraverso la consapevolezza del funzionamento stesso della persona, a creare quella che Marsha Linehan definisce “una vita degna di essere vissuta”. La recovery è prevalentemente responsabilità dell’utente, il problema è che per tanto tempo c’è stata una distinzione tra il peso della classe medico-sanitaria e quello dell’utenza relativamente al modello bio-medico o bio-psico-sociale di riferimento. Per tanti anni il modello era solo bio-medico, perciò il medico dall’alto delle sue competenze trattava la persona come un contenitore con un disturbo che il medico – soltanto lui – poteva curare.

Il modello che viene utilizzato ora – o almeno dovrebbe anche essere interiorizzato dalla classe medica – è quello bio-psico-sociale, che tiene conto di tantissime altre sfaccettature che entrano a far parte di che cos’è la salute o la mancanza di salute. All’interno di questo modello c’è, necessariamente, l’alleanza terapeutica tra il professionista sanitario e il paziente. Quando il medico decide di non riportare delle comunicazioni al paziente sta venendo meno a quell’alleanza, proprio perché a quel punto non si hanno le informazioni per operare alcun genere di scelta. Non è lecito neanche il dubbio, perché si omettono dei pezzi fondamentali.

L’eliminazione della scelta, secondo te, ha a che fare con il modo in cui concepiamo la salute mentale e, più nello specifico, con la tendenza a trattare coloro che soffrono di un disturbo psichico come persone che vanno gestite?

La nostra è una società adultocentrica: pensiamo che l’adulto sia la figura più preparata a gestire qualsiasi cosa all’interno della società. Ci comportiamo allo stesso identico modo con i bambini: «questo non glielo dico perché è troppo piccolo», «voglio evitargli di stare male». Proprio ieri una mamma mi diceva: «se mia figlia fosse minorenne sarebbe più facile perché potrei costringerla ad andare in terapia». I bambini nascono con delle competenze, non sono tabule rase all’interno delle quali mettere delle cose perché noi da adulti sappiamo cosa sia meglio per loro. Quando viene detto che il neonato deve essere allattato ogni tre ore, non si intende che debba essere messo un orologio per far mangiare il bambino ogni tre ore, perché il latte è quel nutrimento che funge sia da cibo che da bevanda. Se il bambino ha sete più volte nell’arco di quelle tre ore lo si costringe ad aspettare che passino prima di dargli da bere? Lo facciamo regolarmente, in effetti. Si tratta di seguire in maniera fiduciosa un modello che non funziona e non tiene conto dell’esigenza del bambino, perché non viene considerato competente.

Con le persone che soffrono di un disturbo psicologico succede la stessa cosa, perché una persona che ha una sofferenza mentale deve spiegarsi continuamente. Non è considerata razionale, quindi viene sempre messo in discussione quello che dice. Considerare così tanto la razionalità è problematico perché nasciamo come esseri emotivi, per cui andiamo a negare la parte più antica di noi a favore dell’altra che in realtà è una conseguenza, oltre che di maturità, anche di cultura. La mia razionalità di donna, bianca, occidentale, cisgender è una cosa, la razionalità di qualunque altra persona diversa da me e da queste caratteristiche nel mondo è un’altra. E non è che una è più valida e l’altra meno.

Qual è il contributo che persone come te – che non sono professioniste sanitarie, ma conoscono ciò di cui parlano – possono dare nella divulgazione?

Io a un certo punto ho potuto fare una scelta: iniziare a studiare psicologia oppure no. Se lo avessi fatto sicuramente sarebbe tornato a mio vantaggio perché tanta gente che metteva in discussione il fatto che io potessi parlare con competenza di certi argomenti sarebbe stata zittita dal titolo. Ho deciso di non farlo perché avrei dato ragione al modello che ci valida nel momento in cui parliamo solo ed esclusivamente se siamo aderenti a certe norme. Io non parlo con competenza di questo argomento per curare la gente, ma perché ho interesse a far passare un certo tipo di domanda. Le persone possono trovare risposte in autonomia sulla base di quello che va bene per loro, parlando all’interno del setting terapeutico o con altre persone, ponendosi domande da sole, leggendo. È onnipotente, di nuovo, pensare di poter suggerire le risposte alla gente.

Tante volte, da sola con me stessa, mi sono chiesta: «ma che stai facendo?» oppure: «dove vuoi arrivare?». A me interessa veicolare un certo tipo di informazione per creare una cultura di scambio su tematiche che fino all’altro ieri erano considerate ad esclusivo appannaggio di alcune persone. Ci sono tantissimi documentari che smontano l’idea che la salute vada trattata solo se esiste un certo tipo di competenza. Il medico guarderà alla salute e alla mancanza di salute in un determinato modo, l’utente in un altro. Ed è giusto che l’utente abbia voce in capitolo. Come esistono associazioni valide di persone che hanno disturbi fisici la stessa cosa deve poter essere accettata anche per i disturbi psicologici, perché se la salute è salute deve essere validata tutta. Altrimenti siamo sanisti, e dobbiamo riconoscerlo.

Negli anni hai instaurato un dialogo con tante persone. Quali bisogni hai raccolto? Perché a partire da questi possiamo individuare le mancanze del sistema e le possibili soluzioni.

Il primo bisogno è quello relativo all’accesso alla terapia: «da chi posso andare?». Esistono due problematiche di base: quella economica, perché non tutti possono permettersi la terapia privatamente, e quella relativa alle tempistiche, quindi accade che si riesca a trovare un professionista nel pubblico ma l’appuntamento viene fissato dopo mesi. A questo si aggiunge un’altra problematica relativa alla terapia stessa: ci sono persone che per anni seguono un percorso terapeutico ma poi si rendono conto di non avere informazioni sulla diagnosi o dell’assenza di una terapia evidence-based. Manca uniformità.

Dall’altro lato c’è una problematica dal punto di vista sociale. Il fatto che sul lavoro o a scuola, ad esempio, le persone non siano avvezze a parlare di salute mentale crea un gap comunicativo. Se ho una crisi e non hai idea di cosa sia, dove ci incontriamo? Spesso nei posti in cui c’è bisogno di produttività, come la scuola, i professori dicono: «quel ragazzo o quella ragazza su questa cosa ci marcia, esagera, lo fa apposta». È facile spiegarci con queste motivazioni un fenomeno più complesso del quale non sappiamo niente. C’è bisogno di qualcuno che insegni come dialogare, che ci aiuti a utilizzare termini comuni per iniziare a parlare la stessa lingua dal punto di vista della salute mentale. Poi esiste un problema relativo, anche qui, alla rappresentazione perché i problemi di salute mentale, a differenza di quelli relativi alla salute fisica, non si vedono. E anche alcuni problemi di salute fisica vengono tremendamente giudicati, basti pensare alla fibromialgia e al dolore invisibile che provoca. Le persone a volte mi scrivono: «preferirei avere una gamba rotta piuttosto che rispondere alle domande di gente che pensa di avere la soluzione a tutto».

È dal 2015 che fai attivismo. Cosa hai trattenuto in tutti questi anni?

Spesso mi chiedono come fare a diventare attivista, se esiste un percorso. Non c’è ed è una fortuna, anche se qualcuno sta cercando di regolamentare anche questo pezzo qui e di portarlo nelle università. Recentemente ho visto dei post di alcune attiviste che hanno deciso di lasciare i social a causa della mole di odio che dobbiamo affrontare tutti i giorni. L’attivismo online è estremamente difficile da gestire e bisogna farsi aiutare, non tanto e non necessariamente dai terapeuti: è fondamentale ascoltarsi molto e prendersi del tempo per lasciar decantare. Una parte di persone non si rende conto di fare domande inappropriate, un’altra parte ci si diverte. Bisogna prendere tutte le precauzioni necessarie per evitare di farsi incastrare di nuovo in una dinamica, questa volta di cyberbullismo.

Quello che vorrei dire in generale, dal mio punto di vista, oggi, è che bisognerebbe tutelare molto di più le persone che intraprendono questo percorso perché in realtà svolgiamo un servizio pubblico, nessun altro parla di queste cose e ci mette così tanto la faccia. Nessun altro lo fa in una maniera così puntuale perché, a parte me, le attiviste che conosco fanno tanta ricerca, tante relazioni pubbliche, e prestano tanto ascolto attraverso i social, tutto gratuitamente. Quando ci capita di monetizzare con progetti o collaborazioni, invece di pensare che stiamo giocando a fare le influencer, bisognerebbe pensare alle ore spese nel tentativo di mettere una toppa a un buco di sistema: a me capita di stare anche quattro ore al giorno su Instagram per creare contenuti e rispondere alle persone che mi scrivono. Il risvolto positivo e negativo dello stare sui social è conoscere persone stupende che la pensano come te e ti forniscono spunti interessantissimi, ma tornando all’esterno ci si rende conto che è ancora solo una bolla. La percentuale di quelli che decidono di usare i social per informarsi e crescere è ancora tanto bassa, perché i media principali che formano i cosiddetti boomer sono più forti.