Se la società fatica a concepire le persone transessuali e transgender come soggettività degne di riconoscimento, è interessante indagare il modo in cui tutto questo si traduce all’interno delle carceri. Le persone transgender esperiscono un conflitto tra il genere che viene loro assegnato alla nascita e il genere al quale sentono di appartenere. Questa condizione, nel tempo, è stata affrontata attraverso la patologizzazione: fino a qualche anno fa, infatti, i manuali diagnostici parlavano di disturbo dell’identità di genere, includendolo nelle malattie mentali e accomunandolo non soltanto alle disfunzioni sessuali ma anche alle parafilie. Nel 2018 è stata operata una risignificazione del termine, dedicando alla disforia di genere uno spazio a sé stante nel DSM-V al fine di svincolare il termine dal concetto di disturbo e porre così l’attenzione sul vissuto emotivo della persona: non è più la mancata corrispondenza tra sesso biologico e genere a contare, al centro del discorso c’è l’individuo e il suo disagio eventualmente esperito.
La condizione dei detenuti e delle detenute transgender in carcere: utilità e limiti delle sezioni protette
Esattamente come nel caso dei sex offenders, le persone trans che vivono in stato di detenzione vengono trasferite in un circuito a parte. Nell’art. 14 della legge 26 luglio 1975 si legge che «le donne sono ospitate in istituti separati o in apposite sezioni di istituto», per cui al momento dell’ingresso in carcere bisogna procedere all’assegnazione sulla base del sesso anagrafico indicato sulla carta d’identità della persona detenuta. Nella circolare del DAP datata 02/05/2001 si stabilisce che le detenute transgender debbano essere destinate alle sezioni protette, di frequente poste all’interno di penitenziari maschili, a prescindere dall’identità di genere dichiarata o esperita e nonostante ad oggi esista la possibilità di modificare i propri documenti pure in assenza della scelta di effettuare una transizione completa attraverso l’operazione chirurgica che permetterebbe la modifica dei caratteri sessuali primari.
Le motivazioni formali per le quali le persone trans nelle carceri vivono in sezioni protette va ricercata in un’esigenza di sicurezza, tuttavia bisogna evidenziare le problematicità che questi circuiti determinano nel trattamento delle persone detenute. Il testo “Che genere di carcere? Il sistema penitenziario alla prova delle detenute transgender” sottolinea la problematicità di questo strumento, con il quale da un lato «si pone attenzione, da parte delle autorità amministrative, alla diversità e specificità di questi soggetti, cercando di prevenire situazioni di pericolo e di evitare di esporli alle pressioni o ad altri comportamenti sgradevoli e inappropriati da parte degli altri detenuti», d’altra parte «ciò avviene nel quadro della rigida dicotomia tra maschile e femminile, tramite assegnazione all’uno o all’altro settore, per poi collocarli, alla fine, in settori a loro volta “protetti”, in cui la prevalenza delle istanze custodiali, gestionali e disciplinari porta ad accomunare le figure più disparate (condannati per reati sessuali, in particolare per abusi su minori, collaboratori di giustizia, ex appartenenti alle forze dell’ordine ecc.), accomunati dall’unico fatto di essere oggetto di ostilità da parte degli altri reclusi».
La condizione dei detenuti e delle detenute transgender in carcere: tra categorizzazione e autodeterminazione
Il carcere risponde a un’esigenza di categorizzazione: ogni singola azione ha un nome, ogni persona ha un ruolo. Affannandosi a definire, però, rivela l’incapacità di confrontarsi con ciò che eccede la norma, con l’alterità che si manifesta nella sua forza dirompente. La necessità di classificare le persone transgender in carcere, destinandole a istituti maschili o femminili in base al sesso assegnato alla nascita, pone loro nella condizione di dover sottolineare la propria alterità senza il riconoscimento all’autodeterminazione.
Fotografia di Camilla CerroniA questo quadro si aggiunge la complessa gestione della quotidianità: la condizione delle persone transgender in carcere ostacola tanto l’accesso alle attività trattamentali quanto il diritto alla salute. Nel XIII Rapporto di Antigone si legge che «tutte le modalità di detenzione oggi applicate risultano inevitabilmente discriminatorie se si considerano gli spazi di movimento, le ore d’aria concesse, l’accesso alla scolarizzazione, alla formazione, alle attività lavorativa, alle attività sportive, etc.», inoltre «difficile appare anche l’opportunità di poter disporre a livello nazionale di medici specializzati nel settore (ad esempio nel campo dell’endocrinologia) assegnati all’ambito penitenziario dal Servizio Sanitario Nazionale». Meriterebbe un discorso a sé l’accesso ai farmaci per le cure ormonali, inseriti tra i L.E.A (livelli essenziali di assistenza) ma spesso a carico del singolo.
La condizione dei detenuti e delle detenute transgender in carcere come cartina di tornasole della nostra società
I meccanismi che governano la nostra società si riflettono all’interno del carcere. Le persone transgender esperiscono una condizione che le conduce ad avventurarsi verso un percorso di risignificazione e si confrontano, quotidianamente, con una cultura che le estromette da quella che è considerata la norma: binarismo, mononormatività, eteronormatività sono tutti standard che si mascherano dietro una presunta naturalità, pur essendosi imposti a partire da una decisione consapevole e tra l’altro modificabile, che impattano sulla qualità della vita e sulla percezione di sé da parte delle persone trans e, allo stesso modo, delle persone intersessuali e non-binary.
La condizione delle persone transgender in carcere si gioca, ancora, sul terreno della patologizzazione e dell’esclusione. Il riconoscimento viene sancito dall’esterno e deve inserirsi nei binari individuabili della maschilità o della femminilità, trascurando l’esistenza delle soggettività in transito. Con le parole di Giuseppe Mosconi: «un’istituzione deputata a contenere e sanzionare la devianza di genere, qual è il carcere, reagisce alle devianze particolari, presenti al suo interno, isolandole e sanzionandole ulteriormente, esplicitando una vocazione stigmatizzatrice, ai fini di controllo interno, che è costitutiva della sua stessa esistenza».
L’arena sociale confina alcune soggettività in uno spazio sospeso, fatto di incomprensione e mancato riconoscimento. Anche in carcere, a quanto pare, si va incontro alla medesima sorte, un limbo che attende di diventare Inferno o Paradiso.