corpo e benessere

Corpo e stigma. Il benessere è una scelta libera da costruire insieme alla persona

Veronica Bignetti è una dietista non focalizzata sul peso, che lotta perché questo principio sia riconosciuto e ritiene il benessere una scelta libera da costruire insieme alla persona.

Durante la nostra chiacchierata, oltre a riflettere sul collegamento tra peso e salute, troppo spesso magnificato, abbiamo parlato del significato e dell’influenza esercitata dalla cultura della dieta provando a comprendere se esiste un’accezione positiva di questo termine, nonché dello stigma che colpisce le persone con corpi cosiddetti non conformi troppo spesso patologizzate e colpevolizzate.

Puoi spiegarci in cosa consiste l’approccio al quale fai riferimento, l’Intuitive Eating?

È un approccio, ma anche uno strumento, inclusivo che si inserisce nella cornice dell’Health At Every Size, ossia un insieme di principi volti a convogliare in un approccio clinico che l’ASDA ha istituito come guida per una pratica clinica non focalizzata sul peso.

Il mio obiettivo è far sì che le persone possano trovare il loro benessere con l’alimentazione e con il corpo utilizzando l’ascolto e, congiuntamente, strumenti di giustizia sociale. Provo a rendere consapevole la persona che talvolta alcuni bisogni connessi all’alimentazione e al corpo sono influenzati da strutture sociali come la cultura della dieta o la grassofobia e spesso, raggiunta questa consapevolezza, si riesce a trovare una connessione con il proprio benessere.

A tal proposito, cosa si intende per benessere?

L’approccio focalizzato sul peso concepisce il benessere come un costrutto preconfezionato – occidentale, colonialista e capitalista – all’interno del quale troviamo la magrezza, valori del sangue precisi e un certo stile alimentare che corrisponde spesso a dei privilegi attraverso i quali è possibile accedere alle risorse.

L’Health At Every Size, in cui anche l’Intuitive Eating rientra, invece, concepisce il benessere nell’autodeterminazione della persona, quindi nella possibilità di scegliere in maniera libera attraverso le risorse che si possiedono e le circostanze all’interno delle quali ci si trova. È un concetto da personalizzare, non c’è un obiettivo prefissato ma il bello è che insieme alla persona si costruisce il proprio quadro di benessere.

Esiste, a tuo modo di vedere, un’accezione positiva del termine dieta?

Sì, ma in questo momento è un concetto troppo sporco. È una parola così contaminata che talvolta utilizzo il termine anti-dieta proprio per relegarla alla sua accezione più negativa, che fa riferimento all’idea di dieta ipocalorica fatta di imposizioni, regole e privilegi. Un’accezione positiva è quella classica di alimentazione quotidiana, derivante dall’etimologia, e in questo senso secondo me può essere rivalutata, magari nel tempo.

Mi rendo conto che approccio anti-dieta è un’espressione violenta, in parte ribelle, ma siamo in un contesto culturale dove la dieta viene utilizzata anche come strumento di potere. Dichiararsi una professionista anti-dieta aiuta a chiarire la questione, sebbene forse non sia scientificamente corretto.

corpo e benessereAlessia Lambazzi e Veronica Bignetti. Fotografia di Francesco Formica

Parliamo di peso e salute. Esiste una correlazione tra le due cose?

Non la conosciamo, per cui non possiamo parlarne in maniera oggettiva.

Esiste realmente la possibilità che il grasso si comporti da fattore di rischio, e quindi produca delle citochine infiammatorie e possa dare fastidio ad alcuni organi, ma il punto è che questo aspetto viene magnificato ed esteso tout court alle persone che hanno un determinato peso e hanno un determinato corpo, imputando loro delle colpe.

In questo momento tantissimi studi che vedono l’associazione tra peso e salute sono ricchi di bias e pregiudizi che non ci forniscono lenti oggettive. Pensiamo al fatto che lo stigma porta le persone a evitare le visite mediche, o ad andarci malvolentieri, anche se fare una visita medica per chiunque è un fattore di protezione.

Tante volte le persone grasse non vanno in palestra perché non si sentono accolte. Anche questo influisce sul benessere, considerando che l’attività fisica è un fattore di protezione. Se viene meno, non per pigrizia o incapacità ma perché non ci si sente a proprio agio, diventa un problema. E non è il grasso in sé a rappresentarlo, ma lo stigma sul peso.

Cos’è la cultura della dieta e come impatta sulla vita delle persone?

Nella cultura della dieta ci sono degli aspetti molto chiari ed evidenti – io li chiamo industria della dieta – attraverso i quali si lucra sulla salute delle persone, pensiamo ai prodotti sostitutivi dei pasti o alle diete dell’ultimo momento. Le persone sanno che quando si approcciano a quell’ambito non stanno facendo qualcosa che sia orientato al benessere e alla salute, perché il focus è sull’estetica e sul corpo.

La parte più subdola della cultura della dieta è quella legittimata anche dalla medicina, che impone un valore morale sul cibo e quindi ti racconta che sei migliore se mangi quell’alimento, o se segui un determinato stile di vita. In realtà la medicina non dovrebbe connettersi al valore morale, ma a un benessere legato molto più ai bisogni intrinseci della persona.

Possiamo dire che la cultura della dieta sia mantenuta in vita da interessi economici?

Che la cultura della dieta sia in parte sostenuta da valori occidentali – quindi capitalismo, patriarcato, mito della bellezza, razzismo – penso sia chiaro.

Quando sento parlare persone attiviste delle origini della grassofobia e raccontare la storia dei corpi grassi o dei corpi neri, io m’immagino come se ogni giorno andassimo in giro con una valigetta di passato. Non esistono più pregiudizi espliciti nei confronti di corpi grassi e dei corpi neri come accadeva nell’Ottocento e durante la schiavitù, ma sono la nostra valigia. Ce la portiamo dietro sempre e questo si esprime anche nella relazione con il cibo e con il corpo.

A che punto siamo con la ricerca scientifica in Italia?

Nell’ambito del progetto «Malasalute?», con Alessia Buzzi e Francesca Tamponi abbiamo creato una timeline di passato, presente e futuro in relazione agli approcci medici al peso. Il passato, purtroppo ancora troppo presente, era orientato verso un approccio prescrittivo che non prevedeva l’ascolto della persona, ma soltanto l’osservazione di parametri come il BMI (Body mass index).

L’approccio odierno, da noi definito flessibile, è sempre focalizzato sul peso. Sebbene lo si faccia con gentilezza, la persona viene addestrata a dimagrire: vengono insegnati trucchi per resistere alla fame scelti dal professionista senza chiedere alla persona cosa desidera per sé e per il proprio corpo, inoltre è un approccio presente negli ambiti più specializzati sull’obesità.

Quando parlo di obesità lo faccio contestualizzando all’ambito medico perché è una parola che spesso si censura negli approcci non prescrittivi, quindi negli ambiti più recenti di ricerca si comincia a parlare di stigma. Il modo in cui se ne parla, però, è un modo pietistico e paternalistico che deriva da pregiudizi e prevede una gerarchia in cui la persona viene fatta sentire sbagliata. L’approccio verso il quale vorremmo tendere è quello Healt At Every Size dove l’autodeterminazione diventa l’obiettivo.

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Veronica Bignetti. Fotografia di Francesco Formica

Dicevamo che di obesità non si parla nell’ambito degli approcci non prescrittivi, ma l’obesità è una patologia?

Pensare che le persone debbano necessariamente dimagrire è un pregiudizio. Ad oggi l’American Medical Association ha deciso di chiamare l’obesità malattia ma in realtà è una scelta politica, non basata su criteri medici, perché si pensa – erroneamente – che in questo modo le persone siano spinte a migliorarsi.

Se l’obesità fosse considerata una patologia laddove compaiano un insieme di fattori, tra cui anche il peso, sarebbe diverso. Oltre al BMI i professionisti e le professioniste della salute dovrebbero prestare attenzione allo stile di vita, alla familiarità e a una serie di altre cose, consigliando sulla base di questi elementi perdita di peso, un’alimentazione diversa o uno stile di vita differente.

Il punto è che ad oggi è considerato obesità tutto ciò che va oltre un certo numero di BMI, quindi si vanno a patologizzare una serie di persone che non hanno dei fattori di rischio e che al momento stanno bene. Il fatto che ci sia una ghigliottina sulla loro testa e che si ritrovino colpevolizzate in realtà peggiora la loro salute. 

Abbiamo parlato di privilegio e giustizia sociale. La lotta alla cultura della dieta e alla grassofobia può ritenersi quindi una questione femminista?

Decisamente sì. I pregiudizi sul peso sono radicati nel patriarcato, quindi nell’idea che il corpo femminile debba essere ornamentale e debba raggiungere certi canoni estetici.

Anche sugli uomini ci sono dei pregiudizi, ma se ci rivolgiamo ai media non è raro vedere uomini autorevoli che hanno corpi non conformi; donne di potere con corpi non conformi ce ne sono molte meno. Quindi penso sia importante considerare il privilegio sia nel discorso legato al benessere, sia per comprendere dove ci posizioniamo all’interno dei pregiudizi e del sistema.

C’è una pressione molto forte alla magrezza nei confronti delle donne, non a caso i disturbi alimentari colpiscono molto spesso le persone che si identificano in un genere femminile. Mancano tante ricerche sulle persone non binary e trans, ciononostante si tende a osservare che le persone in posizione più marginale soffrono di disturbi alimentari e dismorfofobia.

Quanto è stato importante il femminismo nella tua professione?

La mia trasformazione da dietista prescrittiva a dietista non concentrata sul peso si è basata principalmente sul femminismo. Gli strumenti acquisiti mi hanno permesso di comprendere tante tematiche e di farle mie in maniera più rapida, perché crescendo in un ambito medico ho interiorizzato l’ideale di salute preconfezionato. I valori dell’Health At Every Size, quali diversità, empatia, ascolto, accoglienza e intersezionalità, sono gli stessi che si ritrovano nella cornice del femminismo.

C’è qualcosa che si potrebbe fare anche a livello sociale?

A mio parere dovrebbe esistere un organo di sorveglianza sul giornalismo medico, perché spesso la cultura della dieta è perpetrata da piccole frasi, parole, notizie su persone famose che perdono peso raccontate con un intento celebrativo. Tutto questo è molto pericoloso ed è valido per ogni discriminazione. Credo che l’utilizzo delle parole non venga ancora considerato come un aspetto fondante nella nostra cultura, purtroppo.