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Dalla comunità Exodus di Cassino: «l’ape non viene né allevata, né coltivata: nasce e muore libera, un po’ come me»

L’esperienza comunitaria non può essere raccontata se non da chi ne ha un vissuto diretto e, all’interno della comunità Exodus di Cassino, abbiamo incontrato e parlato con Gianluca. Il suo è stato un contributo prezioso, schietto e crudo come la vita, come il viaggio di cui ci ha lasciato intravedere qualche frammento.

«La comunità è fatta per metterti in crisi, per metterti quotidianamente alla prova»

«La mia esperienza qua? Un viaggio che apre tanti nuovi orizzonti. A volte si conosce solo una strada, la mia era tossicodipendenza, rapine e spaccio. Arrivato qui, ho allargato gli orizzonti su altro insieme agli educatori e agli altri ragazzi. Ho visto diverse sfaccettature limitrofe alla tossicodipendenza. Mi sono confrontato con tanti ragazzi con tanti problemi diversi ed è stato un viaggio che mi ha portato a due anni di comunità e adesso ho la consapevolezza di voler vedere altro. Questa è la comunità per me.

L’esperienza in comunità è partita dalla mia richiesta dal carcere. Sono qui ancora da carcerato, a causa delle restrizioni infatti il mio non è stato un percorso come gli altri. Ero molto restio a entrare in comunità, all’inizio sono venuto qui soltanto per accontentare il desiderio di mia madre adottiva, che, dopo anni di carcerazione, continuava a chiedermi di entrare in comunità.

comunità Gianluca, comunità Exodus di Cassino. Fotografia di Francesco Formica

Non sapevo bene cosa aspettarmi. Di comunità avevo sentito tanto parlare, ma non c’ero mai stato e, anche se andavo a prendere il metadone a Villa Maraini a Roma, non sapevo come funzionasse effettivamente. Poi vivendola è cambiato tutto. Inizialmente credevo che non sarebbe cambiato niente ed essendo un testardone, per il primo anno, l’unico stravolgimento ha riguardato lo svolgere giornaliero. Dopo un anno però, sono iniziati a sorgermi un sacco di dubbi. La comunità è fatta per metterti in crisi, per metterti quotidianamente alla prova. L’equipe educativa si è impegnata moltissimo per far sì che mettessi in dubbio me stesso».

«È difficile stare in comunità, scegliere ogni giorno di farlo e finire un percorso»

«Quando sono entrato, durante il primo colloquio, al mio educatore ho detto che non avrei mai smesso di drogarmi e che ero qui dentro soltanto per limitare i danni. E invece oggi sono convinto che uscito da qua, tutto ciò che è eroina me la voglio dimenticare. È difficile stare in comunità, scegliere ogni giorno di farlo e finire un percorso. Voglio finire, almeno per una volta nella mia vita, un percorso, che è questo qui.

Ormai sono in una fase che viene chiamata reinserimento, in teoria andrebbe svolta all’esterno ma avendo delle restrizioni, l’equipe e l’educatore hanno organizzato il mio reinserimento attorno all’apicoltura e al lavoro in cucina, di cui sono diventato responsabile. Abbiamo un educatore che era un pasticcere e aiuto chef, in questo anno e mezzo gli sono stato molto vicino e mi ha professionalizzato. Insieme a lui mi occupo degli eventi che organizziamo qui, partendo dalla materia prima e arrivando al prodotto finale. Lo svolgere giornaliero è una linea parallela al percorso comunitario, ma anche quello serve per crescere.

L’apicoltura invece l’ho conosciuta sempre grazie al mio educatore e ora da un anno sto seguendo anche un corso. Cerco di capire come funziona questo fantastico mondo, l’ape per me è l’animale perfetto, non viene né allevata, né coltivata: nasce e muore libera, un po’ come me».