La Comunità Franco Basaglia Dipartimento di Salute Mentale e Patologie della Dipendenza della Asl di Frosinone è una struttura residenziale terapeutico-riabilitativa h24. Apprendiamo dalla dott.ssa Anna Maria Agata Ciancio, dirigente medico della struttura, che la Comunità prevede programmi individualizzati di riabilitazione per gli utenti che arrivano dopo un contatto con il CSM di riferimento territoriale da cui viene richiesto l’inserimento. Prevalentemente diagnosi e terapia sono impostate e, conditio sine qua non, i pazienti devono essere stabilizzati dal punto di vista clinico. «L’elemento fondamentale, per me, è certamente la riabilitazione di ordine psicologico, ma anche quella all’esterno, perché uno dei problemi principali dei nostri pazienti, soprattutto nel caso di disturbi psicotici, è la chiusura relazionale, la difficoltà ad entrare in contatto con l’altro. Permettere loro di far parte della società è una base per acquisire l’autonomia necessaria».
Nella Comunità Franco Basaglia, dove la maggior parte degli ospiti sono ragazzi e ragazze giovani, gli operatori seguono una linea ben precisa: l’assistenzialismo non basta. «L’intervento delle comunità dovrebbe essere limitato, anche perché questi servizi hanno dei costi che andrebbero ammortizzati con la riabilitazione. Se i ragazzi non possono rientrare nelle loro famiglie, devono poter sviluppare la capacità di vivere fuori. Ci aspettiamo che siano in grado di cucinarsi un piatto di pasta, di occuparsi dei propri spazi, di riordinare il proprio ambiente interno e di conseguenza quello esterno. L’età è un fattore molto importante per il raggiungimento di tali obiettivi, perché prima si interviene prima si riescono a ottenere dei risultati. La nostra è una struttura di piccole dimensioni e anche gli utenti sono in numero inferiore rispetto alle altre comunità. Facciamo in modo che non ci siano troppe discrepanze di età tra i pazienti, che ci sia la possibilità di proporre un intervento riabilitativo – che, naturalmente, a trent’anni ha un obiettivo e a sessanta ne ha un altro – adeguato per i ragazzi e le ragazze».
Anna Maria Agata Ciancio. Fotografia di Martina Lambazzi
Insieme alla dott.ssa Ciancio incontriamo anche Marco Aresti, educatore professionale e docente a contratto presso l’Università di Cassino per il corso di Attività Fisica Adattata al disagio psichico e sociale della Magistrale di Scienze Motorie, che lavora all’interno della struttura sin dal momento in cui è stata aperta. Come prima cosa sottolinea l’entusiasmo con il quale è partita la sua avventura professionale: «quando è nata questa Comunità abbiamo determinato il target di accoglienza tra i diciotto e i trenta-trentacinque anni, così da evitare la cronicizzazione. Siamo partiti con un nome, Basaglia, che è una bella eredità. Da quel momento abbiamo potuto realizzare molte cose». Sull’importanza di un percorso finalizzato al raggiungimento di un’autonomia ci fa sapere che «qui c’è una grande vitalità, perché abbiamo cercato di lavorare sul territorio. Questo è un luogo di cura, un punto di partenza per arrivare altrove: la vita è fuori. I professionisti che lavorano in Comunità, a mio modo di vedere, devono essere altamente specializzati sulla relazione, il vero fondamento del lavoro che siamo chiamati a svolgere. Dobbiamo saper indirizzare, affiancare, non sostituirci».
«Quelle che vengono proposte non sono esperienze occupazionali, ma attività riabilitative che, per essere tali, devono avere un significato per ogni singola persona. Ho presentato un progetto di attività sportiva che riguardava il corpo in passato: l’identità corporea è fondamentale, il corpo è la prima assenza che il malato mentale sperimenta. Continuando su questa linea, ormai tutte le settimane usciamo per fare Nordic Walking, delle passeggiate nelle quali è richiesto l’utilizzo di bastoni simili a quelli impiegati nell’attività sciistica. Durante l’allenamento ognuno stabilisce i propri obiettivi da raggiungere e vengono stabilite anche le regole del nostro setting, affinché ciascuno le riporti qui dentro, nelle attività quotidiane. L’ordine esterno è un vero e proprio lavoro sull’ordine interno.
Nel gruppo terapeutico che si svolge ogni martedì, invece, lasciamo spazio ai desideri dei ragazzi e delle ragazze, che spesso in questa comunità si perdono. Quindi, se desiderano andare a mangiare una pizza sono loro a dover esprimere questo desiderio organizzandosi per realizzarlo. L’operatore ha in mano la vita di queste persone e il vero rischio è proprio che lui stesso si cronicizzi aumentando, in questo modo, la cronicità dell’utenza».
Marco Aresti. Fotografia di Martina Lambazzi
Riscoprirsi nei propri bisogni e desideri, in fondo, è ciò che rende meravigliosamente e dolorosamente umani. E fare un passo di lato rispetto all’altro che ci cammina accanto è un gesto che, tradendo la propria inutilità, conferisce a ciascuno il senso del proprio esistere. Come afferma la dott.ssa Ciancio «la diversità è il presupposto della dignità. Riconoscere di avere esigenze diverse da altre persone vuol dire anche ammettere che non possiamo essere trattati tutti e tutte allo stesso modo. La tendenza dei pazienti è quella di assecondare la richiesta che arriva dall’operatore ma, sebbene la delega sarebbe una soluzione facile da adottare sia per noi che per loro, devono imparare a rileggere le loro esigenze. Non possiamo sostituirci al loro desiderio».
A proposito della necessità di comprendere che il trattamento si differenzia in base alle persone e alle esigenze del momento, il professor Aresti aggiunge un tassello importante: «anche all’interno dell’équipe è fondamentale capire che il nostro atteggiamento non deve essere uguale per tutti i ragazzi e le ragazze. Se una persona in un determinato momento ha più bisogno di assistenza, anche di sostituzione se vogliamo, bisogna riuscire a capirlo. Non ci si deve però adagiare, perché nell’evoluzione della persona deve cambiare anche l’atteggiamento dell’operatore.
È un modo sottile di relazionarsi. Spesso accade che qualcuno ci dica: “perché avete tolto le medicine a lei o a lui e a me no?”. Ecco, dobbiamo far capire loro che non sono interscambiabili. Ognuno deve prendere consapevolezza del proprio percorso e non può accomunarlo a quello di un altro».
Concludiamo la nostra chiacchierata con un accenno alla necessità di superare lo stigma nei confronti della malattia mentale, lavorando prima di tutto sull’autostigma. «Le prime parole che un paziente dice varcando lo studio di uno psichiatra sono queste: “io non sono pazzo”. Si riconosce di avere un problema ma non si accetta il fatto che si tratti di una malattia della mente. Una persona depressa prima di arrivare da uno psichiatra ha già contattato altri mille specialisti. L’autostigma è difficile da combattere. C’è una paziente qui da noi che parlando di lei dice: “questa sono io prima della malattia, questa sono io dopo”. Bisogna lavorare affinché capisca che è sempre lei, si tratta di un continuum. La diagnosi non deve diventare un alibi. Io, ad esempio, non ho mai commiserato un paziente: posso commiserare la sua storia, non lui. Gli strumenti che noi forniamo vanno presi in mano e riutilizzati. E poi non dimentichiamo che la conoscenza fa cura».
La nostra giornata termina con l’incontro di alcuni degli ospiti della Comunità Franco Basaglia. Incontriamo Roberto in una stanza tappezzata dai suoi disegni e, dopo averci parlato delle attività nelle quali è coinvolto, ci racconta che ha conseguito da poco la sua seconda laurea in Pedagogia: «Ho scritto la mia tesi di laurea sui tipi psicologici, partendo da Jung, descrivendoli secondo la sistemazione attuale». Gli piace leggere, cucinare e studiare, ma ci racconta che grazie alla sua prima laurea in Valorizzazione dei Beni Culturali tutti gli chiedono di andare in giro per le città della provincia, come fosse una guida turistica.
Paziente della Comunità Franco Basaglia. Fotografia di Martina Lambazzi
D., invece, ci mostra la sua stanza. La piccola scrivania di fronte al letto è piena di fili e perline colorate perché realizza gioielli per poi distribuirli o regalarli. Alle pareti, invece, ci sono dei quadri, i suoi. Lui dipinge, è affascinato dalla cultura orientale ma in fondo la sua passione artistica si nutre di ogni stimolo che lo colpisce. Rispetto alla vita in comunità ci dice che «a volte quello che facciamo può sembrare strano, ma per noi che viviamo qui quella stranezza è un tratto che ci distingue. Sappiamo anche riderne a volte».
Prima di salutarci definitivamente conosciamo Dario, che ci parla delle attività svolte all’interno della struttura: oltre al Nordic Walking, una delle proposte più amate, ogni martedì vengono organizzati dei gruppi guidati dalla psicologa, la dott.ssa Giuseppina Diana, mentre il giovedì c’è la lettura del giornale. Subito dopo ci racconta delle difficoltà vissute durante il periodo della pandemia. È stato centocinquanta giorni chiuso in casa, Dario, ma poi è tornato in Comunità e, come ci ha tenuto a sottolineare, «vuole restarci per altri cinque anni».