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Carriera accademica e salute mentale. Intervista a Eleonora Marocchini

«Rispetto ad altri ambiti – e mi sento di dire anche purtroppo – in accademia se ne parla, non è un tabù: si parla del fatto che siamo in prevalenza depressi e ansiosi. C’è poco da nasconderlo, basta andare a un convegno e vedere che c’è gente che si mangia le unghie fino ai gomiti. Temo che in accademia si parli della sofferenza mentale, ma se ne parla in un modo che ormai è completamente svuotato di senso, “visto che stiamo tutti male è una cosa normale”. È estremamente normalizzata in accademia».

Abbiamo contattato Eleonora Marocchini (@narraction), dottoranda in Psicologia e Scienze Cognitive, per calare la questione della salute mentale in ambito accademico, a partire dalla sua esperienza personale. Individuando come causa della sofferenza e del disagio psichico l’imperativo alla produttività a cui sembreremmo tutti obbligati a rispondere, il suo contributo è stato prezioso per analizzare l’azione progressiva e sfibrante che la cultura della sopportazione segna sul nostro modo di essere e stare al mondo, rispetto agli altri, a noi stessi e a tutto ciò con cui entriamo in relazione.

«Non saprei nominarti gli effetti che ha avuto su di me, se non il sentirmi completamente prosciugata e non me ne sono nemmeno accorta. È stata una cosa graduale finché ad un certo punto mi sono resa conto di non aver più voglia di niente. Adesso che ne sto uscendo, sto tornando ai livelli di vitalità predottorali e mi ha fatto un effetto pazzesco scoprire che sono ancora quella persona lì, perché temevo che fosse un processo di maturazione, quello di smettere di essere così frizzante ed esaltata dalle cose».

Carriera accademica e salute mentale

«Posto che una pandemia globale mi ha fatto stravolgere radicalmente il progetto di dottorato, che al terzo anno ho ricevuto una diagnosi di autismo e che al primo ho perso mio padre, la mia visione della salute mentale in accademia potrebbe essere vagamente influenzata da questi avvenimenti».

L’intervista a Eleonora è l’attestazione di uno stato di fatto. Probabilmente è questa la descrizione più esaustiva del suo contributo. Denso di spunti, dati e riferimenti precisi, di frammenti di vita vissuta, ci racconta l’essenza del mondo accademico senza vittimismo, né autocompassione. È l’attestazione di uno stato di fatto.

«Tutto ciò che è successo nella mia vita negli ultimi tre anni non è stato gestito molto bene dal mio team. Ci tengo a specificare però che la colpa non è loro, soprattutto perché stiamo parlando di eventi piuttosto eccezionali. Il vero problema è che non esiste alcuna formazione in merito, sul modo attraverso cui ci si debba interfacciare ad una persona da seguire nel suo percorso e che, evidentemente, sta soffrendo. Esiste un bias del sopravvissuto enorme: se loro hanno raggiunto il ruolo che occupano, vuol dire che sono riusciti a vivere e attraversare questo percorso, sopravvivendo a determinate cose. Spesso e volentieri, più che a non considerare la sofferenza mentale, in ambito accademico si tende a considerare pressoché normale soffrire di salute mentale, “ci siamo passati tutti, è normale”. Se ti rivolgi a qualche senior dicendo che vuoi lasciare perché non ce la fai più, hai l’ansia, sei depressa e vorresti morire, ti dicono che loro stessi sono riusciti a sopravvivere al dottorato con gli psicofarmaci e a tenere duro.

Avrei dovuto concludere il dottorato a ottobre, ma abbiamo ricevuto tre mesi di proroga causa covid. Anche questi mesi, tra l’altro, sono molto poco sensati perché chi ha terminato l’anno precedente ne ha ricevuti sei, per quanto sul loro lavoro la pandemia abbia impattato molto meno, rispetto a noi che abbiamo fatto due anni su tre in queste condizioni. Io, ad esempio, stavo raccogliendo dati in un asilo che, ovviamente, ha chiuso all’istante. Sono dovuta passare a raccogliere dati online sugli adulti, ho dovuto stravolgere completamente la mia ricerca: ero partita da autismo e età dello sviluppo e sono finita ad occuparmi di adulti neurotipici perché raccogliere dati online – per quanto gli strumenti si siano molto affinati – è sempre meno accurato di un lavoro svolto in laboratorio, in cui si è certi non intervengano interazioni esterne. Calcoliamo tempi di lettura e di reazione in millisecondi, tramite internet è molto rischioso, quindi vanno raccolti molti più dati per essere certi che gli effetti siano reali.

Ho fatto quello che potevo, ma avrebbe dovuto far seguito un minimo di riflessione su che cosa abbia significato, anche solo al livello metodologico, il solo raccogliere dati online da parte di persone probabilmente traumatizzate, che ha indubbiamente degli effetti sulle funzioni cognitive. Ma non c’è stata. E questo è successo in un Dipartimento di Psicologia, figuriamoci in un dottorato in Biotecnologie o in Fisica teorica. Non c’è stata la minima riflessione su come la pandemia abbia impattato su di noi e sul nostro lavoro. Ci siamo visti una sola volta online, a maggio, con il resto del dipartimento per discutere di cosa stesse succedendo, questo è stato il sostegno istituzionale nel corso del delirio. Il dottorato in Italia prevede che ogni anno venga svolto un esame di passaggio all’anno successivo, all’esame dopo il primo lockdown – quindi dopo aver completamente stravolto i progetti di ricerca – nessuno ha menzionato il fatto che probabilmente quasi tutti eravamo in uno stato  depressivo. Tutti ammessi all’anno successivo e tante congratulazioni per essere riusciti a fare tante cose nonostante la pandemia.

La stessa proroga dei tre mesi alla chiusura del dottorato ci è stata comunicata circa cinque settimane fa, fino ad allora non sapevo nemmeno se la mia borsa sarebbe finita in questo mese o a gennaio. Anche questo per la salute mentale non è certamente il massimo ed è un atteggiamento classista, tra le altre cose: dà per scontato che tutti possano permettersi di vivere senza stipendio per un paio di mesi o sei. A gennaio consegneremo la tesi, che dovremo discutere entro luglio, questi mesi saranno dedicati alla correzione del lavoro. È prassi che in questo periodo si prenda la disoccupazione, anche mentre di fatto si lavora. Concludere questo lavoro, quindi, significa lavorare non pagata o prosciugare la disoccupazione, perché il massimo di disoccupazione percepibile coincide precisamente con i sei mesi che dividono la consegna della tesi e la defense, dopo la quale ti trovi ad aver già terminato la disoccupazione, quando in realtà dovrebbe iniziare in quel momento».

Produttività e salute mentale. È vero che si vive nonostante tutto, ma i nonostante devono avere una rilevanza, no?

«Si, ma ti dirò che in realtà in ambito accademico, così come in altri settori, è stato un moltiplicatore di disuguaglianze. Per alcune persone è stata un’occasione di aumento di produttività, per altre un declino: uno studio di Squazzoni e colleghi, analizzando più di 2000 riviste, ha mostrato come durante il primo lockdown abbiano ricevuto significativamente più articoli da autori uomini che da donne, e molti più di prima del lockdown. In un contesto pandemico in cui anche i bambini sono dovuti rimanere in casa, le donne si sono ritrovate a dover lavorare molto di più, invece gli uomini – già piuttosto avvantaggiati in ambito accademico, sia per bias che storicamente continuiamo a portarci dietro, sia perché le assegniste non possono permettersi la maternità – hanno tirato fuori dai cassetti tutti i paper che dovevano finire e hanno scritto come non mai.

Stando ai report del 2019, in Italia le ordinarie arrivano al 28%, ma tra i dottorandi siamo il 52%. Esistono diversi studi sulla salute mentale in accademia, che dimostrano come la questione economica e quella relativa alla precarietà siano centrali nel disagio psicologico di chi lavora in accademia. Escluso il dottorato che impegna tre anni consecutivi, tutto ciò che ne consegue sono contrattini da un anno o, se sei fortunato, da due anni e solitamente con ogni contratto si cambia istituzione, città o anche paese. Solitamente i postdoc hanno un sacco di lavoro, anche maggiore rispetto ai dottorandi, concentratissimo nell’anno per cui sono pagati e durante questo stesso anno devono cercare lavoro per l’anno successivo. È un’ansia perenne, per di più l’accademia è un ambiente chiusissimo che non prepara minimamente a convertire le competenze all’esterno. La famosa torre d’avorio è sicuramente una percezione pubblica, ma è anche una realtà di totale segregazione per chi la vive: esci a 35 anni dall’accademia che ti ha sputato fuori dopo 3 o 4 assegni e non sai letteralmente da che parte girarti. È un problema sistemico».

 

Essere produttivi indipendentemente da un lutto

«Diciamo che è stato un lutto con un timing ottimo perché mio padre è morto il 9 dicembre e abbiamo potuto far rientrare il lutto nelle vacanze di Natale, quindi è stato molto comodo. Il mio supervisor mi disse che ci saremmo sentiti il 9 gennaio e sul momento mi è anche sembrata un’enorme concessione, ma di fatto mi stava facendo saltare un lab meeting e due lezioni o qualcosa di simile, perché poi iniziava il periodo festivo. È pur vero che dal punto di vista di un accademico si lavora anche il 25 dicembre e sono tornata a lavorare il 10 gennaio, quindi un mese dopo.

Come spesso succede quando muore qualcuno vanno organizzate una serie di cose di carattere pratico ed equilibri che cambiano sia nel breve che nel lungo periodo. Per il dottorato ero tornata a casa a Genova in parte anche per mio padre, per passare più tempo con lui, ma ero in dottorato soltanto da un mese quando è mancato. C’è stato ovviamente anche un ricalcolo delle aspettative, di gestione degli spazi in casa con mia madre, che era abituata a viverci con lui e non con me.

Il fatto di tornare a lavorare a gennaio è stato anche un bene: mia madre, che è libera professionista, era tornata a lavorare perché stavamo attraversando una situazione economica difficile, e stare a casa da sola non mi avrebbe aiutata. Prima di entrare in dottorato ho lavorato in Amazon e questo mi ha permesso di contribuire alle spese dei funerali e lo dico ridendo perché in accademia quando dici di aver lavorato in azienda ti guardano malissimo.

Chiaramente al lavoro non riuscivo a “funzionare” benissimo: un lavoro intellettuale come quello dottorale durante un lutto – che a livello cognitivo somiglia molto a una depressione – non è affatto semplice da gestire. Tra l’altro ero in piena fase di revisione della letteratura, se avessi avuto già un design sperimentale pronto avrei raccolto i dati in maniera automatica e basta, invece ero proprio nel mezzo della fase ideativa. Ho perso altri due o tre mesi per riorentarmi. Il mio supervisor ha tentato all’inizio di darmi qualche buffer, come il mese delle vacanze natalizie e, una volta rientrata, un altro paio di settimane. Poi però avevamo delle scadenze per le Summer School: a gennaio ho dovuto scrivere un abstract, un progetto e una lettera di motivazione per due Summer School, che chiaramente agli occhi del mio supervisor erano una cosa da niente, in fondo lavori di una pagina ciascuno, ma il progetto io non ce l’avevo. Ho fatto delle cose assurde: la postdoc si era resa disponibile per aiutarmi e le mandavo delle bozze che non erano vere, copiavo e incollavo cose anche dei suoi articoli, senza nemmeno accorgermi di quello che le inviavo.

Visto che ero riuscita a fare queste cose, il mio supervisor ha deciso che darmene altre mi avrebbe fatto del bene. Quindi mi ha un po’ sfidata, assegnandomi delle scadenze. È molto bravo ed è arrivato molto giovane a ricoprire il suo ruolo, ma questo ha comportato che io fossi la sua prima dottoranda da seguire dall’inizio alla fine e gli è capitata subito una situazione non facile. Chiaramente ha fatto dei tentativi, ma non posso dire che siano riusciti.

Ho avuto delle conseguenze da lutto abbastanza forti, probabilmente proprio perché mi sono costretta a fare le cose, comunque. Il giorno dopo che è morto mio padre sono andata a lezione e ho fatto un esame, perché non era contemplabile per me che mi prendessi del tempo. Soltanto il giorno dopo ancora ho scritto un messaggio al mio supervisor per dire che avrei dovuto saltare un meeting per il mio lutto».

L’interiorizzazione dei meccanismi del sistema. Li riportiamo nel modo di essere e di stare nella nostra dimensione personale

«Assolutamente sì. E ritornando al termine nonostante, arrivata all’esame di passaggio all’anno successivo, a ottobre, quindi a nemmeno un anno dalla morte di mio padre – il lutto in media si esaurisce in un paio di anni – avevo fatto un rush assurdo, mi ero fermata giusto due o tre mesi perché il mio cervello non funzionava, ma avevo fatto il mio esperimento e in questo devo ringraziare il mio supervisor che mi ha aiutata molto nel design sperimentale, lo ha praticamente fatto lui, io ho raccolto soltanto i dati in maggio e giugno.

In ogni caso sono arrivata all’esame di passaggio avendo svolto il lavoro al pari di qualsiasi altra dottoranda. Avevo partecipato a qualche convegno, avevo finito il mio primo esperimento, fatte le analisi e riscritto il mio progetto. All’esame non c’è stata minimamente menzione a quello che era successo, da un lato posso dire “bene per la privacy”, dall’altro però per me è stato un effetto di scollamento totale dalla realtà. È stata soltanto una glorificazione di quanto eravamo stati tutti bravi durante quell’anno e tutto quello a me diceva veramente poco. Entrambi gli esami di passaggio mi hanno lasciato questa sensazione: per quanto formale, nello spirito l’esame è molto informale perché dovrebbe veramente focalizzarsi sulle cose che servono e parlare apertamente di cosa sia andata bene e cosa male.

I due esami di passaggio, dunque, sono stati completamente scollati dalla mia realtà: tutto è stato limitato al report di quello che ero riuscita a fare, nonostante. Il primo anno anche senza dire che era nonostante, il secondo invece dicendolo perché la pandemia riguardava tutti. Per me è stata una replica perché entrambe le volte ho parlato di quello che avevo fatto e dunque implicitamente di come sono riuscita a ignorare il fatto di essere morta dentro fondamentalmente.  

In dipartimento non ho mai detto quello che ho attraversato. Con il mio supervisor ne ho parlato, ho provato a lasciare il dottorato per tre volte. La prima volta è stata per il lutto, in quel caso avevo soltanto chiesto il congelamento del dottorato, cioè di bloccarlo per un tot di mesi, ma il supervisor mi ha detto che non c’era bisogno. Che avrei potuto prendermi del tempo durante il primo anno, avrei recuperato nel secondo. Peccato che il secondo anno è arrivata una pandemia globale e ho dovuto cambiare totalmente il progetto. Ho di nuovo detto che non ce la stavo facendo, a luglio, che volevo lasciare, ma mi è stato detto che non aveva senso, che tutti ci erano già passati e che c’erano tutti i presupposti per affrontare bene l’anno successivo. Che non dovevo farmi prendere da questi momenti negativi, ma questi momenti negativi erano pensieri suicidari.

Mi è stato detto che magari avrei potuto prendere degli psicofarmaci. Per un paio di mesi sono stata seguita più di prima, però essere a più di metà del percorso e aver fatto un solo esperimento aveva degli effetti negativi sulla mia salute mentale, l’impressione era quella di avere di fronte un anno, nel quale avrei dovuto fare quello che si fa in tre. La raccolta dei dati online ad agosto, però, mi ha permesso di guadagnare tempo e sentirmi meglio. Passato questo periodo, anche gli impegni del mio supervisor sono aumentati molto e ha potuto seguirmi di meno: ore di didattica, tesisti, dottorande, ricerca di fondi per il postdoc e per vincere un Grant ne devi scrivere dieci. La competizione è folle.

Raccogliendo dati, nel frattempo, mi sono accorta di avere dei valori un po’ strani nei test di screening per l’autismo, quindi ho intrapreso un percorso diagnostico che ha confermato questa mia autodiagnosi. Ho passato un periodo in cui ho riguardato la mia vita attraverso quella lente, è stato molto terapeutico e piacevole, ma non era certo il top per la mia concentrazione, anche perché era un anno e mezzo che eravamo chiusi in casa. Era giugno, quindi quasi alla fine e non ho detto di voler mollare perché ormai volevo tirare fuori una tesi. Non c’è nessuno dentro quel sistema che sappia come gestire crisi di salute mentale perché l’intero sistema si basa sulla resilienza degli individui che riescono a sopravviverci dentro».

Nominare la sofferenza e il dolore quando si tratta di salute mentale

«Rispetto ad altri ambiti – e mi sento di dire anche purtroppo – in accademia se ne parla, non è un tabù: si parla del fatto che siamo in prevalenza depressi e ansiosi. C’è poco da nasconderlo, basta andare a un convegno e vedere che c’è gente che si mangia le unghie fino ai gomiti. Temo che in accademia si parli della sofferenza mentale, ma se ne parla in un modo che ormai è completamente svuotato di senso, “visto che stiamo tutti male è una cosa normale”. È estremamente normalizzata in accademia.

Nel 2018, su Nature è uscito uno studio svolto su circa 2mila studenti in 26 paesi. Lo studio ha rilevato che i dottorandi avevano livelli di depressione e di ansia sei volte maggiori rispetto alla popolazione generale. Davanti a questo, cosa dobbiamo dirci? È molto più probabile trovarsi di fronte una persona che soffre, piuttosto che una che sta bene. Di fatto quindi la risposta è “ci siamo passati tutti, è normale. Se non pensi a giorni alterni che non sai cosa stai facendo vuol dire che lo stai facendo male”. Cito cose che mi sono state dette. “È normale che il ricercatore si crogioli nel dubbio, nella sindrome dell’impostore”.

Il problema in questo ambito non è tanto quanto se ne parla, perché ultimamente se ne parla anche tanto, ma come se ne parla. Lo stesso discorso vale per la questione del gender gap, perché è tutto molto connesso anche alla questione delle marginalizzazioni. L’accademia si fonda su queste disuguaglianze e su questi malesseri, se iniziassimo a ribellarci crollerebbe e crolleremmo noi per primi. Non c’è la soluzione, dovremmo smantellare completamente il sistema. Arrivati a queste percentuali, a questo livello di disagio e a questo sistema fondato sul fatto che chi ne fa parte sia overworked, ci vorrebbe una rivoluzione totale, un cambiamento radicale.

La prima cosa da fare sarebbe pubblicare le ricerche prive di significatività, sarebbe utile anche ai fini scientifici, altrimenti continueremo a rifare esperimenti che si è già visto non funzionano, buttando mesi di lavoro. Anche il postdoc che investe un anno della sua vita su un progetto, nel caso in cui non producesse articoli validi potrebbe essere fuori dall’accademia. Questo significa che già mentre stai raccogliendo dati, hai l’ansia che ti mangia perché se non esce quello che ti aspetti la tua carriera è finita.

Il problema è che la maggior parte delle soluzioni in termini di salute mentale vanno contro il profitto, contro il sistema dell’accademia. Siamo molto sfruttati perché c’è troppa poca gente, la ricerca è troppo poco finanziata. Tendenzialmente man mano che si fa carriera, aumentano le ore di didattica, la ricerca quindi deve necessariamente passare a chi è sotto, perché viene pagato di meno. Il dottorando lo paghi la metà di un professore e dunque ne puoi prendere due, ma i professori a contratto in Italia prendono 2mila euro all’anno. Per forza devi fare qualcos’altro e per questo motivo la qualità va a picco.

Uno dei motivi che porta così tanta gente al burnout in accademia è che il lavoro non ha orari, non finisce, tutte le sere, tutti weekend. Se vuoi lavorare puoi farlo e troverai sempre tutti i colleghi pronti a rispondere, sempre. Ho avuto conversazioni su WhatsApp il sabato sera, poi ho smesso, ma perché ho deciso che non avrei fatto carriera. Finché hai anche solo il fantasma dell’ipotetica carriera non c’è limite ai sacrifici che puoi/dovresti fare.

Ero abbastanza abituata alla cultura della sopportazione perché ho fatto una scuola di eccellenza, un collegio di merito e l’università contemporaneamente. Ma non ero abituata all’incertezza. Ora che ne sto uscendo sia cronologicamente che mentalmente – avendo deciso di non andare avanti – è stata una svolta per la mia salute mentale. Adesso che ne sto uscendo, sto tornando ai livelli di vitalità predottorali e mi ha fatto un effetto pazzesco scoprire che sono ancora quella persona lì, perché temevo che fosse un processo di maturazione, quello di smettere di essere così frizzante ed esaltata dalle cose. In realtà ero semplicemente prosciugata. In qualsiasi momento facessi qualcos’altro mi sentivo in colpa perché stavo togliendo del tempo alla mia ricerca.

Non saprei nominarti gli effetti che ha avuto su di me, se non il sentirmi completamente prosciugata e non me ne sono nemmeno accorta. È stata una cosa graduale finché ad un certo punto mi sono resa conto di non aver più voglia di niente. Spesso quando si parla di salute mentale in accademia ci si chiede se sia l’accademia a portarti all’ansia o alla depressione o se siano le persone che decidono di intraprendere una carriera accademica ad essere predisposte. Chiaramente le condizioni ambientali sono più potenti delle condizioni genetiche, ma anche se prevalessero effettivamente queste ultime significherebbe comunque che l’accademia è disegnata per questo e quindi andrebbe ridisegnata totalmente. È l’essere completamente persi a peggiorare la salute mentale».