21 Luglio

«Cerchiamo di costruire una comunità che possa rivendicare diritti». Carlo Stasolla racconta le attività della 21 Luglio

Portare alla luce ciò che viene condannato all’inesistenza: il proposito da cui nasce il nostro progetto si è fatto tangibile quando abbiamo iniziato a parlare di periferie. Abbiamo scelto di contattare Carlo Stasolla proprio perché da anni, attraverso le attività dell’associazione 21 Luglio, si occupa di periferie estreme. Il lavoro di advocacy al fianco della comunità rom – anche se, come ci spiegherà, sarebbe più corretto parlare di baraccati eliminando qualsiasi riferimento all’etnia – è finalizzato al superamento dei campi e si affianca alla presenza costante nel VI Municipio, dove ha sede il Polo Ex-Fienile, che attraverso i servizi proposti tenta di costruire una comunità forte e consapevole dei propri diritti.

«In questi contesti si tende troppo spesso a parlare a nome degli altri. Noi cerchiamo di essere concreti definendo un obiettivo chiaro: tra sette anni lasceremo questa struttura, il Polo ex Fienile, che dovrà essere preso in mano a quanti oggi sono i beneficiari delle nostre azioni. Vogliamo dare forza e voce a chi oggi non ce l’ha e per farlo dobbiamo noi, gradualmente, ad abbassare il tono della nostra. La voce è potere, e il tono della stessa è la misura di chi lo detiene».

Cos’è la 21 Luglio e di cosa si occupa?

La 21 Luglio è un’organizzazione che ha quasi dodici anni e si occupa di periferie estreme, che in questo periodo vanno da Tor Bella Monaca fino alle baraccopoli. La nostra sede operativa è nel VI Municipio, dove facciamo attività con l’intento di costruire comunità. La mattina abbiamo i servizi per la prima infanzia e per le mamme – sono circa centoventi le mamme che passano al Fienile; il pomeriggio invece proponiamo attività per bambini e ragazzi. Poi c’è la Scuola di Politica e in questo periodo è organizzato il Fienile Festival: tre fine settimana che vedranno avvicendarsi eventi culturali e artistici di vario tipo.

L’obiettivo è intervenire sull’aspetto più debole del territorio, ossia la costruzione di comunità. Tor Bella Monaca è l’espressione della periferia romana, dove ci sono tanti soggetti ripiegati tra loro, realtà autoreferenziali, con le quali la collaborazione è complessa. Stiamo parlando di un quartiere sotto scacco non soltanto della criminalità, ma anche di una mentalità ghettizzante e autoghettizzante. Noi cerchiamo di rompere questi schemi, di costruire una comunità aperta che possa rivendicare diritti, che possa esprimere un pensiero e coltivare sogni.

Quello sui campi, invece, è un lavoro di ricerca e di advocacy attraverso il quale proviamo a superare i ghetti etnici denominati impropriamente “campi nomadi” portando avanti un lavoro di denuncia, ma anche e soprattutto di assistenza e sostegno alle amministrazioni che in Italia stanno chiudendo i campi.

Hai accennato al vostro lavoro di advocacy. Di fatto esiste un’intera comunità, un’intera categoria di persone, che vive ai bordi della società. Perché? Come nascono i campi rom?

C’è una similitudine molto forte tra Tor Bella Monaca e i campi rom. I campi nascono per concentrare persone su base etnica; Tor Bella Monaca per concentrare persone in base al disagio abitativo, sociale, economico. Sia i campi sia Tor Bella Monaca nascono negli anni Ottanta a Roma, non hanno servizi, sono fatti per relegare comunità in un punto della città. Vivere nel campo e vivere a Tor Bella Monaca crea uno stigma tale per cui gli abitanti dell’uno e dell’altra faticano a dire da dove vengono. Entrambi sono dispositivi istituzionali per segregare persone, su base etnica o in base alla posizione sociale, in nome di un presunto aiuto e sostegno sociale.

Questa segregazione è stata fatta propria dagli stessi abitanti, che vivono questo senso di inferiorità rispetto al resto della città. C’è un senso di non cittadinanza sia qui che nei campi.

21 Luglio Carlo Stasolla e Alessia Lambazzi al Polo Ex Fienile. Fotografia di Martina Lambazzi

Tutto ciò rende chiaro il pensiero degli amministratori alla base della realizzazione di tali realtà: espellere all’esterno del territorio cittadino il cosiddetto scarto umano non produttivo, attirando nel contempo il consenso elettorale sul fronte della lotta all’insicurezza. Il rapporto tra centro e periferia, poi, ha una sua ambiguità. Per me, ad esempio, il centro è questo: Tor Bella Monaca e i campi rom sono il centro della mia vita e della mia attività. Roma è la sua stessa la periferia visto che il centro città ormai è un museo all’aperto frequentato dai turisti.

Comunemente, tra l’altro, si pensa che i campi corrispondano a una forma abitativa che è propria di quella comunità…

Sono i numeri a smentirlo. Ogni anno con la 21 Luglio presentiamo in Senato il rapporto sulla condizione abitativa dei rom, quest’anno lo faremo il 4 novembre. I numeri recenti ci dicono che i rom in Italia sono 180.000 e 18.000 vivono nei campi, ciò significa che su dieci rom in Italia nove vivono in casa, lavorano o studiano, non è un discorso culturale. I campi nascono proprio dall’idea di una cultura diversa, nomade, e quindi incapace di vivere in casa e bisognosa di riserve all’aperto dove potersi collocare. Dunque nascono in buona fede da un errore di stampo culturalista, una trappola nella quale ancora tanti finiscono per cadere.

Qual è il rapporto tra le persone che vivono nei campi e la città?

Noto dei cambiamenti nell’ultima generazione. Fino a dieci anni fa chi viveva nel campo, ormai da generazioni, sentiva questa condanna e quasi la giustificava, quindi si sentiva diverso e sottolineava questa diversità. Le cose sono cambiate, ritengo soprattutto per due fattori: l’inchiesta “Mafia Capitale” con le sue conseguenze giudiziarie ha decapitato un associazionismo perverso che ruotava attorno ai campi; poi c’è la connessione globale vissuta grazie a internet. L’utilizzo di strumenti tecnologici ha aperto la gabbia mentale del “ghetto” e sempre più giovani che da generazioni vivono in un container o in una baracca oggi non hanno timore a rivendicare la loro “romanità” e vogliono a tutti i costi essere considerati cittadini di questa città. Si è finalmente creata una crepa nel dualismo, tra chi diceva: «dovete vivere in un campo» e quanti, residenti dei campi, confermavano: «il nostro posto è il campo». Oggi chi vive in un campo rom, mi riferisco in primis alle giovani generazioni, vuole assolutamente uscirne.

La 21 Luglio ha organizzato un convegno, Oltre il campo, per discutere una serie di proposte finalizzate al superamento dei campi rom. Ti va di parlarcene?

L’idea di superamento e di come e quali metodologie adottare non nasce da una mera analisi teorica. Abbiamo individuato dieci amministrazioni italiane che negli ultimi dieci anni hanno cercato di superare i campi, alcune fallendo alcune riuscendoci, e in base a dei parametri abbiamo comparato le loro azioni per capire cosa funziona e cosa no. Ne è venuto un rapporto di ricerca. Raccogliendo i dati emergono elementi significativi che, tradotti in “linee guida” consentono ad un’amministrazione che oggi vuole superare un campo rom nella sua città, di partire da una serie di informazioni utili su ciò che è fondamentale “non fare” e ciò che è raccomandato “fare”. Non esistono “bacchette magiche” ma nelle politiche sociali l’esperienza percorsa da altri rappresenta sempre un capitale da non disperdere.

21 Luglio Carlo Stasolla al Polo Ex Fienile. Fotografia di Martina Lambazzi

Sicuramente un modello negativo è rappresentato da quanto realizzato nella città di Roma nell’ultimo quarto di secolo, vale a dire Piani speciali o un Ufficio speciale. L’esperienza ci dice con certezza che occorre trattare queste persone al di là della loro appartenenza etnica. Se devo dare il reddito di cittadinanza non mi preoccupo di sapere se uno è di origine pugliese o siciliana, quindi non devo prevedere percorsi particolari per chi è di un’etnia diversa. Per i rom invece sino ad adesso si è preferito creare percorsi speciali, paralleli a quelli ordinari. Bisogna considerare questi cittadini come pienamente inseriti, pienamente romani, e trattarli come tali potenziando gli strumenti ordinari, non speciali. Questo è diventato l’approccio all’interno della nostra proposta che abbiamo presentato ai candidati a sindaco durante la campagna elettorale. L’obiettivo contenuto è quello di superare tutti i campi rom romani nell’arco temporale di 4 anni. Una sfida che giudichiamo assolutamente praticabile.

Quali sono gli errori, le mancanze, che comunemente si commettono nella narrazione delle periferie e delle minoranze?

Potrei dirti che se fossi un giornalista non parlerei di rom ma di baraccati, perché non serve sottolineare l’appartenenza etnica che è totalmente irrilevante. Inizierei quindi a scrivere che ci sono dei baraccati a Roma come ce ne erano negli anni Sessanta. Non ci sono campi rom, ci sono delle baraccopoli. Tra l’altro è l’agenzia delle Nazioni Unite, UN Habitat, che fornisce il criterio di baraccopoli, pienamente conforme a quelli che noi oggi chiamiamo campi rom. Oltre a togliere qualsiasi connotazione etnica, c’è un’altra narrazione che è fondamentale riscoprire: nessuno sa che negli ultimi tre anni a Roma sono state 548 le persone entrate in casa popolare, mentre sull’argomento l’unica informazione ripresa dai media ha riguardato la sola famiglia che dal campo è entrata in una casa a Casal Bruciato trovando sotto la porta il banchetto di Casapound con tutte le vicende che ne sono seguite. Sarebbe importante provare a raccontare le tante storie positive che ci sono, soprattutto negli ultimi anni, e non fermarsi alla comunicazione della Questura sullo scippo o sulla donna che mendica. Si tratta di una narrazione distorta, parziale, che alla fine non fa altro che rafforzare stereotipi. Sotto questo profilo il mondo del giornalismo ha delle grosse responsabilità.

Ci racconti le attività proposte al Polo Ex-Fienile?

Prima di entrare nella struttura, nel 2016, abbiamo condotto un anno di osservazione sul quartiere che ci ha consentito di delineare le prime linee di una pianificazione della nostra presenza sul quartiere. Abbiamo compreso da subito come la criticità maggiore è rappresentata dall’assenza di una comunità. Ci troviamo davanti al dramma dell’isolamento spaziale e relazionale, di persone lontane ed estranee tra di loro. Lo stesso quartiere, sotto il profilo urbanistico, è fatto di bolle con tanti pieni e tanti vuoti.

21 Luglio Carlo Stasolla al Polo Ex Fienile. Fotografia di Martina Lambazzi

L’esperienza pregressa con il lavoro nei campi rom ci ha insegnato che quando una comunità è sotto stress i soggetti che più di tutti hanno la schiena dritta e riescono a tenerla in piedi sono le donne, o meglio ancora le madri. Quindi abbiamo lavorato per garantire la nascita e la presenza presso il Polo di comunità di giovani donne madri, di diciotto nazionalità diverse, e con loro cerchiamo di fare un percorso per camminare insieme, per arrivare a dare voce alle loro istanze Si tratta di un processo lungo, quest’estate abbiamo fatto la nostra programmazione che va dal 2022 al 2028, quindi ragioniamo nel lungo periodo. Il nostro obiettivo è che a Tor Bella Monaca possa nascere una comunità di residenti che possa parlare del quartiere, che possa lottare per i propri diritti, che sia capace di muoversi sulla traiettoria dei sogni che coltiva.

Lavorate molto sulla genitorialità, con le madri. Qual è l’idea che sostiene questa attenzione?

È un intervento che portiamo avanti da tre anni. Spesso nel sociale si ha la tentazione, inconsapevolmente, di lavorare con i bambini in contesti deprivati con l’idea di “salvarli” da genitori ritenuti inadatti secondo nostri parametri. Al contrario noi lavoriamo molto più sulle mamme che sui bambini, perché loro sono i responsabili dell’educazione dei figli.

Un nostro punto di forza sono le diverse culture, per cui l’essere mamma di una donna del Ghana è diverso dall’essere mamma di una donna cinese. Essere mamma a Tor Bella Monaca significa spesso per una donna italiana avere il marito in carcere, per una donna straniera invece vuol dire non conoscere la lingua. Noi le sosteniamo entrambe perché possano essere quello che vogliono e devono essere: genitori accudenti, capaci, valorizzando ciò che già hanno e rimuovendo gli ostacoli che non permettono loro di fare questo.

Gli incontri della Scuola di Politica, che hai citato all’inizio della nostra chiacchierata, hanno aperto le porte del Fienile alla città.  Era questo l’intento?

Esattamente. La Scuola di Politica non ha come primario obiettivo quello a formare i cittadini di Tor Bella Monaca, bensì quello di rompere le barriere, facendo in modo che chi sta fuori venisse a Tor Bella Monaca, la conoscesse, magari venendoci per la prima volta, scoprisse che anche in questo quartiere è possibile vivere eventi di qualità, momenti nei quali riflettere e ragionare. Fondamentale per noi è promuovere il “travaso” tra il dentro e il fuori, attivare il movimento che possa rompere i confini fisici e mentali del un quartiere, attivare un flusso di persone che possa ridare ossigeno a zone della città segnalate solo dall’asfissia creata dallo stigma.