Francesco Ferreri, Antropologo e formatore, ha scelto di orientare il suo percorso accademico verso l’approfondimento dei Gender Studies. Il progetto di divulgazione che ha avviato su Instagram (@antropoché), «nato durante la pandemia dal desiderio di arricchire discorsi che io sentivo molto generalisti», muove dall’esigenza di affrontare le tematiche di genere senza dimenticare la complessità che circonda determinati argomenti. Si pensa erroneamente che parlare di genere e sessualità non richieda alcun tipo di competenza, ma in realtà «studiare questa disciplina a livello scientifico ha una rilevanza e richiede una formazione».
Il nodo centrale del nostro confronto è proprio questo: ristabilire il ruolo fondante delle figure professionali rappresenta una priorità. Non solo, a guidarci, per poter sperimentare una società che fa dell’inclusione una base comune, deve esserci il tentativo di de-naturalizzare ciò che in realtà è governato dalla cultura – intesa come sapere appreso – e de-costruire, così, quei ruoli all’interno dei quali ci accomodiamo, salvo poi scoprire che rappresentano una gabbia dorata.
«Alcune narrazioni influenzano il comportamento dell’essere umano in maniera estremamente capillare anche nella sua vita privata, creando una tipicità nella dimensione sociale che nulla ha a che vedere con un aspetto naturale dell’individuo. Nel momento in cui mettiamo in ballo anche la cultura, vale a dire l’influenza della cultura sull’individuo, tutto va ripensato».
Qual è il percorso che ti ha portato, da Antropologo, ad occuparti di tematiche di genere?
È una domanda che mi è stata posta più volte e, nonostante questo, trovo che sia ancora difficile rispondere, proprio perché di genere se ne parla poco. Ho sempre nutrito un forte interesse per le tematiche di genere, anche prima del mio percorso accademico, per ragioni di natura personale: sono stato costretto ad affrontare questi argomenti a causa del modo in cui vivevo la mia maschilità, messa in discussione perché non rispettava canoni ben precisi, non rientrava nella descrizione del simbolo canonico connesso al maschile.
Ho deciso di studiare Filosofia in Statale, a Milano, ed essendoci molta libertà di scelta nel programma ho sostenuto una serie di esami sull’analisi del corpo, sull’estetica, sull’etica, sulla sessualità e sul tabù, fino a quando ho scoperto l’Antropologia grazie a un docente che devo ringraziare, nella sua completa follia, perché da allora ho fatto di questa disciplina il mio interesse principale. Subito dopo ho conseguito un master in Social Control Anthropology alla “University of Amsterdam” seguendo, anche qui, un percorso legato al genere.
La sessualità, il corpo, il genere sono sempre stati argomenti considerati scarsamente rilevanti o poco utili nel mondo reale. Dopo la laurea mi sono detto: «è questo che sono diventato?». Non ne avevo la percezione, prima, pensavo che il genere fosse soltanto un altro bel racconto che avevo dovuto studiare per prendere il mio voto alto, non una specializzazione. Trovo utile invece ricordare che studiare questa disciplina a livello scientifico ha una rilevanza e richiede una formazione. È qualcosa di cui mi sono accorto nel mondo del lavoro e ho difeso con grande tenacia nel momento in cui, tornato in Italia, ho provato a fare l’Antropologo.
Delle lezioni di Antropologia Culturale all’Università ricordo un concetto espresso dal mio docente che mi colpì molto: tutto ciò che è naturale non è discutibile, dunque mettendo in ballo la natura poniamo fine al confronto. Siamo soliti “naturalizzare” la sessualità e il genere, ma in che senso invece sono influenzati dalla cultura?
Sono estremamente d’accordo nel definire tutto ciò che è naturale come un vicolo cieco che non ci permette una discussione. L’Antropologia, insieme ad altre discipline, ci suggerisce che le definizioni di “naturale” oppure, ancora meglio, “ancestrale”, sono così astratte da diventare inspiegabili. Il ragionamento sembra semplice: se le cose stanno in un certo modo per la maggior parte delle persone, allora significa che siamo di fronte a qualcosa di naturale. Non ci rendiamo conto, però, che così facendo escludiamo automaticamente qualcuno e, nell’ambito di un discorso scientifico, sappiamo bene che se prendiamo il 90% del dato che stiamo analizzando non parliamo di chiunque, quindi stiamo abbandonando la scienza.
L’Antropologia, aiutandoci a comprendere che le interazioni umane non sono così nette e lineari, pone delle domande che trovano risposta all’interno dei contesti socio-culturali: scopriamo, in questo modo, che ce lo siamo raccontati tante volte che i generi sono due, che le relazioni e la sessualità devono essere vissute in un determinato modo, che il sesso ha una sua performatività. Alcune narrazioni influenzano il comportamento dell’essere umano in maniera estremamente capillare anche nella sua vita privata, creando una tipicità nella dimensione sociale che nulla ha a che vedere con un aspetto naturale dell’individuo. Nel momento in cui mettiamo in ballo la cultura, vale a dire l’influenza della cultura sull’individuo, tutto deve essere ripensato. Quindi la domanda successiva sarebbe: «cosa possiamo definire naturale?».
Sei presente sui social e ti occupi di formazione, alla luce di questo pensi che oggi stia maturando una sensibilità nuova rispetto alle tematiche di genere?
C’è un’attenzione maggiore alle tematiche di genere e si potrebbe fare anche un discorso generazionale sul modo in cui questo entusiasmo sta arrivando all’interno di varie società, tra cui anche quella italiana. Il discorso generazionale è interessante da mettere sul tavolo perché la consapevolezza riguardo questi argomenti viene vissuta in maniera molto diversa, per esempio, da una generazione degli anni ’30 o ’50. I cosiddetti baby boomer e i boomer hanno un approccio più utilitaristico a queste tematiche.
Le aziende spesso investono sulla formazione perché acquisire una consapevolezza su questi argomenti permette di risparmiare: costa meno, ovviamente, fare prevenzione. Le generazioni più giovani, invece, sono interessate personalmente alle questioni legate al genere, c’è più apertura nel poter veicolare determinati messaggi. Il linguaggio che devo usare con una persona di 50 o 60 anni rispetto a una persona di 20 o di 15 è completamente diverso, perché è lo sguardo ad essere differente. Una parte del lavoro dell’Antropologo è anche quella di comprendere come veicolare questi messaggi in modi alternativi.
So che oltre alla tua pagina di divulgazione, Antropoché, e all’attività di formazione hai ideato dei laboratori nei quali vengono affrontati vari argomenti legati alla sessualità e al genere. Vuoi parlarcene?
Da un anno all’incirca ho una “partner in crime” che è Carolina Benzi, esperta di Cultural Studies e consulente sessuale. In quest’ultimo periodo abbiamo realizzato vari progetti insieme tra cui un primo laboratorio, il Rocky Horror Gender Show, dove parlavamo in maniera specifica di genere, sessualità e queerness. Grazie a questo progetto abbiamo ottenuto risposte concrete a domande di cui in realtà già conoscevamo la risposta: la nostra società ha scelto attivamente di non investire su un percorso di educazione legato al genere, alla sessualità e ai corpi rendendo questi argomenti tabù, ma le persone avvertono il bisogno di conoscere.
Abbiamo ideato, allora, una forma laboratoriale più lunga, Love Your Sex, che riprenderà a partire da settembre. All’interno di una piccola classe parliamo unicamente di sessualità, dando la possibilità agli utenti di interiorizzare gli argomenti. Quello che a noi manca, come dicevamo poco fa, è proprio l’educazione alle tematiche di genere, dunque un percorso di formazione. Alle figure professionali viene richiesto frequentemente di fare qualche ora di laboratorio nelle scuole o nelle aziende, per esempio, perché molte volte non è possibile ideare un vero percorso, anche per ragioni economiche. Di contro gli argomenti vengono estremamente sintetizzati e spesso manca il tempo necessario per far sì che vengano assorbiti, perché tutto si è consumato all’interno di quello spazio. Attraverso i nostri laboratori permettiamo alle persone di digerire gli argomenti, di fare domande anche dopo due o tre settimane, e credo che questo approccio sia estremamente più funzionale.
Mi rendo conto che non abbiamo ancora un metodo, non abbiamo un albo dei consulenti sessuali, per esempio, perché i Gender Studies in Italia sono praticamente inesistenti o comunque non strutturati come altre parti del mondo. Basti pensare che gran parte dei termini utilizzati sono ancora in inglese e anche quando siamo noi a scrivere i testi molte volte lo facciamo in inglese perché ormai ci conviene. Stiamo procedendo un po’ a tentoni sui metodi migliori da sfruttare e talvolta viene discriminata la disciplina della formazione legata alla diversità e all’inclusione proprio perché i prodotti venduti non riescono ad essere efficaci per via della sinteticità a cui sono costretti. In realtà è come chiedere a un medico di fare un’operazione a cuore aperto in quindici minuti e stupirci tutte le volte che quell’operazione fallisce. Non c’è il tempo, non ci sono gli strumenti necessari per poter compiere bene il nostro lavoro e questa cosa è giusto che noi figure professionali la capiamo e la denunciamo.
Credo che queste attività rappresentino un buon modo per permettere alle persone di comprendere che l’Antropologia è uno strumento utile a de-costruire e ad afferrare la complessità. Chi ha una formazione da scienziato sociale deve provare a conquistarsi uno spazio da sé, perché sembra che nessuno glielo offra.
Vorrei aggiungere qualcosa sulla complessità, perché è uno degli argomenti più importanti che mi ha spinto anche a voler avviare il mio progetto di divulgazione su Instagram, nato durante la pandemia dal desiderio di arricchire certi discorsi che io sentivo molto generalisti. Spesso si parla di genere senza le figure professionali, che in realtà esistono, ma il problema è che ci vuole tanto pelo sullo stomaco per mettersi in gioco.
Un altro dei progetti avviato insieme alla mia collega, Carolina Benzi, si chiama Non generalizziamo e consiste in due appuntamenti a settimana da un’ora e mezza su Twitch dove cerchiamo di ragionare su vari argomenti, arricchendo la controversia di turno, per far capire alle persone che le cose sono più complicate di come sembrano.
A tal proposito, l’Antropologia è uno strumento che a me è servito tantissimo per costruirmi un pensiero critico e dubitare sempre di quello che vedo, anche se sembra la cosa più ovvia. In realtà so che quel determinato gesto potrebbe voler dire altro, che i significati dietro potrebbero essere differenti e quindi l’unico modo effettivo per capire è chiedere, informarsi, indagare.
In quanto esseri umani creiamo continuamente modelli e strutture di riferimento. Credo sia un’importante abilità, ma in che modo possiamo imparare a sfruttarla senza costruire delle gabbie?
Per me è fondamentale, in effetti, intendere la cultura come ciò che rende valide tutte le forme di sapere. Giulio Giorello, uno dei più grandi Filosofi della Scienza in Italia, è stato il mio professore di filosofia e durante un’interrogazione mi aveva chiesto come potevamo declinare le scoperte di Darwin con un determinato fumetto di Topolino. Vedendo la mia faccia un po’ sorpresa mi aveva incalzato dicendo che possiamo fare filosofia parlando di qualsiasi cosa. È una questione a cui tengo molto, questa, e ha influenzato il desiderio di voler legare l’Antropologia ai Pokémon attraverso la mia attività di divulgazione.
Tornando alla tua domanda, come facciamo a evitare le le gabbie? Questo è un altro argomento puramente antropologico, nel senso che siamo consapevoli di avere sempre a che fare con delle categorie e l’Antropologia lavora proprio sulle strutture che la società costruisce, come i tabù. Le categorie creano dei confini, un “dentro” e un “fuori” in sostanza e, sebbene siano scomode in quanto rischiano di bloccarci, allo stesso tempo dobbiamo ammettere la loro utilità legata al fatto che forniscono una mappa con la quale muoverci all’interno della società: sono rassicuranti, ci fanno capire che cosa è giusto e cosa è sbagliato, come vivere la nostra vita, qual è il nostro il nostro compito, qual è il nostro spazio sociale. Se sono nato con un pene, ad esempio, so che devo lavorare, portare il pane a casa, non piangere, trovare una moglie e mantenerla: può essere che questo sia estremamente rassicurante.
Per queste ragioni lavorare sul genere molte volte è complesso, perché le categorie ci aiutano ad avere tutto sotto controllo. Pensiamo a un primo appuntamento e ai codici da seguire: è un rito alla perfezione nel quale sappiamo di dover apparire al meglio. Dobbiamo essere eleganti, vestirci bene, essere profumati e profumate, dobbiamo andare al ristorante e portare con noi una rosa, magari. In una dinamica eterosessuale è sicuramente l’uomo che paga oppure in una coppia dello stesso sesso si è stabilito, per esempio, che a pagare è chi invita: mettiamo in atto una serie di azioni che ci danno l’illusione di poter avere il controllo anche se non ce l’abbiamo. Aggiungiamo strutture per acquisire più sicurezza, ma dobbiamo renderci conto che non sono prescrittive, ovvero non sono loro a decidere per noi. Le abbiamo create, abbiamo deciso noi che il gioco si fa in questo modo, quindi possiamo riscrivere le regole. Se capiamo che è un discorso culturale capiamo anche che il gioco è nelle nostre mani.
Spesso si utilizza l’espressione Ideologia Gender per svalutare le istanze di chi si occupa di tematiche di genere. Hai scritto un post nel quale, tra le altre cose, hai tentato di riabilitare il termine “ideologia”. Ci aiuti a comprendere meglio questo punto?
Tante critiche mosse ai Gender Studies partono con la grande accusa di aderire a un’ideologia – intesa come fanatismo – che propone un’idea del genere completamente folle. La difesa è consistita spesso nella negazione dell’ideologia, ma io ritengo che possiamo riappropriarci di questo termine perché proprio di ideologia si tratta. Quello che mi ha sempre affascinato dell’Antropologia è la volontà di tuffarsi all’interno del tabù e poi lavorare da dentro. Ecco, in questo caso possiamo farlo molto bene.
Sono convinto che i generi non siano due perché esistono prove scientifiche a riguardo, l’unico tassello che rimane da analizzare è proprio quello socio-culturale. Se la mia è un’ideologia perché sono convinto che i generi non sono soltanto due, allora anche la convinzione per cui i generi sono binari è un’ideologia allo stesso modo. Così ci troviamo ad armi pari, con la differenza che i Gender Studies sono fortemente supportati dalla scienza, dall’altra parte invece non esistono abbastanza teorie perché tutto ciò possa essere considerato un discorso scientifico. Se vogliamo legare le nostre argomentazioni al fanatismo forse stiamo guardando dalla parte sbagliata.
Hai voglia di aggiungere qualcosa?
Quello che cerco di fare è molto poco provocatorio, spero, e tanto incentrato sul tentativo di evidenziare il bias, se di questo si parla, e la buona intenzione da parte dei Gender Studies di spiegare il tessuto socio-culturale e di far capire perché stiamo proponendo un’idea di genere differente, (il che non significa cancellare quello che già abbiamo, ma ampliarlo). Lo possiamo fare molto meglio attraverso l’educazione e con persone che siano preparate. Sono importanti le testimonianze – uno dei progetti a me più cari è Mica Macho, che porta proprio testimonianze di maschile – nel momento in cui abbiamo bisogno della teoria, però, è giusto che vengano riconosciute le figure professionali.
Io per primo dubitavo delle mie capacità, ma adesso mi sono reso conto di quanto l’Antropologia, ma anche i Cultural Studies o figure sessuologiche e psicologiche ben preparate sul genere siano essenziali. Spesso ho la sensazione che il dibattito voglia esprimere la frustrazione creata dal problema piuttosto che trovare una soluzione analizzando le cause, le figure professionali sono in grado di fare esattamente questo.
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