Frankenstein, storia di un “bambino” abbandonato

Frankenstein, storia di un “bambino” abbandonato

Molti avranno sicuramente visto un arrangiamento cinematografico del celebre romanzo di Mary Wollstoncraft Shelley, Frankenstein, pubblicato nel 1818. Il romanzo, per la precisione, fu scritto nel 1817 nei pressi di Ginevra, dove la giovane donna soggiornava insieme a suo marito Percy Bysshe Shelley e Lord Byron. Mary non soffriva certo la mancanza di stimoli letterari già a partire dall’infanzia, quando i genitori, Mary Wollstoncraft e William Godwin, ricevevano visite notevoli, basti pensare a Samuel Coleridge. Non sorprende dunque che la giovane Mary abbia scritto uno dei romanzi più famosi della letteratura mondiale, dando il via a quella che, poi, sarebbe stata la tradizione del romanzo “moderno”.

Nei primi mesi dopo l’uscita, la critica ritiene che l’autore del libro sia Percy, suo marito, ma con l’aggiunta della prefazione, nel 1831, l’autrice uscirà allo scoperto. Del resto essere donne scrittrici nel 1818 non era un dettaglio irrilevante e tanto meno ben visto dalla critica. Proprio nella prefazione al libro, Shelley ci spiega quale sia l’antefatto della sua opera: un incubo, rispetto al quale il mattino seguente pensò “come ha terrorizzato me terrorizzerà anche gli altri”.

A giudicare dalla trama, dalla struttura narrativa e dai fili intertestuali, la stesura ha richiesto molto più tempo di una semplice mattinata. La struttura narrativa, infatti, si compone di tre diverse narrazioni con tre diversi narratori e destinatari. La prima trova un giovane avventuriero, Robert Walton, a scrivere delle lettere a sua sorella Margaret Saville. Spinto dal desiderio romantico, tipico del tempo dell’autrice, di vedere luoghi sconosciuti ed “esotici” e dalla sete di conoscenza, il capitano vuole raggiungere ed esplorare il Polo Nord. Durante questo viaggio salva dalla morte un naufrago tra i ghiacciai.

È il dottor Victor Frankenstein, che inizia a raccontare la sua storia al giovane Walton, sostituendolo nel ruolo di narratore. Racconta della sua infanzia a Ginevra, di come abbia conosciuto Elizabeth, che sarà sua moglie per poco tempo, e di come abbia approcciato per la prima volta gli studi scientifici antichi di Agrippa e Paracelso, unendovi poi la scienza moderna, fino a concepire l’idea che lo ha visto spingersi oltre i limiti della natura, dando vita a una nuova creatura totalmente da zero. Si rivelerà estremamente sproporzionata e deforme, al punto che lo stesso Victor, in preda alla paura, la abbandonerà a se stessa. Ne perderà le tracce per un paio di anni fino a quando, dopo un tragico omicidio, “padre” e “figlio” si rincontreranno. A partire da qui, per qualche capitolo, il narratore sarà la creatura stessa e il destinatario del racconto Victor Frankenstein.

Il “bambino”, ormai più consapevole e maturo, racconta i rifiuti, le umiliazioni e il profondo dolore che ha affrontato nei due anni di abbandono, proprio a causa della sua diversità. Nel suo animo però, il “mostro” – è così che tutti lo chiamano – è buono e cerca il più possibile di uniformarsi alla società. Come? Imparando la lingua e studiando tre opere che riassumono, a grandi linee, lo scibile umano: I dolori del giovane Werther, che gli insegnano come evitare di autoisolarsi, per eccesso di sentimentalismo, e a vivere in società controllando le emozioni. Le vite parallele di Plutarco che, narrando le grandi opere umane, gli imperi e le sconfitte, fino ai crimini della storia dell’umanità, delineano nel piccolo Frankenstein il concetto di bene e male. Il paradiso perduto di John Milton è l’ultima, e forse più importante opera, che contribuisce a risvegliare la sua coscienza: rivedendosi per antitesi in Adamo, nei panni del deforme e abbandonato, rispetto alla perfezione e alla cura che invece l’altro aveva ricevuto dal suo creatore. Frankenstein Junior finisce quindi per rispecchiarsi in Satana: «spesso come lui, quando scorgevo la beatitudine dei miei protettori mi sentivo crescere dentro l’amaro fiele dell’invidi».

Falliti tutti i tentativi di inclusione, l’ennesimo rifiuto lo spingerà a vendicarsi del suo creatore. Come? A voi la lettura.

Qui, solo qualche spunto di riflessione, a partire dal paragone tra il capitano Walton e il dottor Victor Frankenstein: entrambi legati al desiderio di superare il limite, per somigliare a un Dio, rivisitano, nel caso specifico del dottore, il mito della creazione, realizzando la parodia della bellezza generata da Dio, ossia un essere mostruoso. La sua storia avrà per questo un effetto catartico sul capitano Walton, che deciderà di abbandonare la sua impresa di esplorare il Polo Nord e tornerà indietro.

Mary Shelley cattura la dualità insita in ognuno, la spinta a superare il limite da un lato, e l’istinto a frenarci dall’altro. Sul finale della seconda lettera alla sorella il capitano Walton cita il poema di Coleridge, Rhyme of an ancient mariner. Perché? Per due motivi. Il primo è squisitamente letterario, in quanto l’autrice vuole creare una sorta di parallelo tra il “vecchio marinaio” e il dottore: il primo uccide un albatros, violando la natura, e per questo andrà incontro a una severa punizione, a causa della quale l’arresto dei venti farà morire di stenti tutti i membri dell’equipaggio, ad eccezione dell’autore del delitto che sarà costretto a raccontare la sua storia a chiunque incontri per strada. Allo stesso modo il dottore viola la natura, ergendosi al di sopra di essa e sentendosi poi in dovere di raccontare la sua storia a uno sconosciuto. Il secondo motivo, invece, è molto più personale ed è un omaggio al grande autore romantico, suo contemporaneo oltre che amico e habitué della casa dei genitori.

Infine, cosa nasconde l’aspetto deforme e mostruoso della creatura? Simile a un bambino, in quanto a capacità intellettive (Frankenstein Junior impara la lingua proprio come fa qualsiasi bambino del mondo), desidererà le cose più essenziali e semplici e si contraddistinguerà per il suo animo buono fin dalla nascita. È altruista e gentile, ha voglia di mettersi in pari con gli esseri umani ed essere accettato da loro, eppure non gli sarà possibile perché il suo aspetto esteriore rimarrà il primo – e spesso l’unico – metro di giudizio per tutte le persone che lo incontreranno. L’apparenza gli negherà la possibilità di farsi conoscere, anche da suo “padre”.

Solitudine, depressione e insicurezza nel Frankenstein bambino si tramuteranno in rabbia e istinto di vendetta. Il libro testimonia le radici antiche dei danni che provoca l’incapacità di comprende i bisogni altrui, per questo rimane una buona e indispensabile lettura.